di Leonardo Sinigaglia
Pensando alle lotte sociali della nostra storia la mente corre subito ai grandi scioperi che hanno caratterizzato la seconda metà del novecento, al “Biennio Rosso”. Raramente ci si spinge fino alle rivolte contadine che per interi secoli hanno caratterizzato l’Europa moderna e medievale, e ancor più difficilmente la mente arriva fino all’epoca antica, a due millenni fa, quando un mondo da noi lontano due millenni già funzionava come il nostro: piccoli gruppi di possidenti detenevano la totalità del potere economico e politico, contro e a discapito delle masse più o meno indigenti. L’epoca antica, non meno di quella moderna, è stata segnata da ribellioni ed insurrezioni. Pensiamo alle periodiche rivolte di schiavi, passate alla storia come “guerre servili”, a culti e religioni che si opponevano ad un particolare stato di cose, come può essere stato il cristianesimo, funzionante come vera e propria ribellione ideale dello schiavo, oppure anche ai diversi tentativi riformatori, un periodico, e spesso vano, tentativo di riportare la società ad una struttura più giusta, oramai abbandonata col superamento della costituzione gentilizia. Di quest’ultimo gruppo, un uomo in particolare risalta sulla scena, sia perché il suo fu un tentativo insurrezionale, sia per la totale demonizzazione alla quale fu sottoposto dai suoi avversari, una demonizzazione che porterà persino Dante più di milletrecento anni dopo a ricondurre poeticamente i mali di Firenze all’influsso negativo dei “fiesolani” che, sconfitti dopo essersi schierati dalla parte degli insorti, fuggiranno in quella che diverrà Firenze. Quest’uomo è Lucio Sergio Catilina.
Catilina tentò di conquistare lo stato. Insorse in armi per cacciare quella che lui vedeva come una piaga che, arrivata a detenere saldamente il potere, era ormai impermeabile ad ogni tentativo di riforma. Egli nacque nel 108 a.C. da una famiglia appartenente alla nobiltà romana. Ciò gli aprì porte che alla stragrande maggioranza dei cittadini restavano chiuse: una vita decorosa, un’istruzione, una carriera militare nell’ufficialità e, in prospettiva, una carriera politica. Nacque nel periodo in cui iniziò ad essere manifesta la decadenza di una Repubblica che rischiava di essere schiacciata dal suo stesso peso. Il secolo che andava chiudendosi aveva visto la definitiva vittoria di Roma su Cartagine, l’espansione della potenza dell’Urbe su tutto il Mediterraneo e la provincializzazione di Grecia, Macedonia, Siria ed Asia Minore. Questa serie di vittorie militari avevano incanalato verso la città ricchezze spaventose, oltre che milioni di schiavi e gli importantissimi terreni che, sottratti ai nemici, costituivano una possibilità d’arricchimento tanto per i grandi prorpietari quanto per gli indigenti, che beneficiavano di deduzioni ed assegnazioni colonariele quali potevano trasformare il dannoso proletariato urbano in piccoli proprietari terrieri, ceto sociale che tendeva a scomparire dopo essere stato per secoli la spina dorsale dell’economia e dell’esercito romano.
Fondamentali nei rapporti di forza fra le classi era il possesso della terra. La crescita dei latifondi, unica forma di ricchezza possibile per i senatori come stabiliva la Lex Claudia del 218 a.C., e quella del modello della villa schiavistica avevano completamente distrutto la piccola proprità, facendo riversare a Roma masse di contadini impoveriti che ora potevano unicamente sperare in donazioni statali, lavori giornalieri e nell’affidarsi a ricchi nobili come “clienti”. In questo contesto si sviluppò il rivoluzionario tentativo di riforma dei fratelli Gracchi, tribuni della plebe che provarono, a distanza di dieci anni l’uno dall’altro, a forzare l’esproprio dei terreni ottenuti in maniera illegale dall’aristocrazia e a difendere gli interessi della plebe. Tiberio e Gaio riuscirono ad emanare diverse leggi volte a limitare il possesso di terra ed il potere dei latifondisti, ma entrambi furono assassinati, il primo durante la sua carica, mentre il secondo mentre presentava la candidatura per il 122.
I problemi che i Gracchi si erano preposti di risolvere continuarono a piagare la società romana, accompagnati da un difficile rapporto che legava Roma alle città sue alleate nella penisola italica. Esse, a discapito dei servizi bellici resi, vedevano i propri diritti lesi e limitati nel tempo. Fu con l’assassinio del tribuno Livio Druso, propugnatore della cittadinanza a tutti i popoli italici, che la situazione degenerò in un conflitto che divampò a macchie di leopardo per tutta la penisola dall’91 all’89 a.C, terminato unicamente con la progressiva concessione della cittadinanza romana. Qui muove i primi passi in seno all’esercito un giovane Catilina, che a fine conflitto si ritrova agli ordini del console in carica, Lucio Cornelio Silla. Siamo nell’88, e il Re del Ponto Mitridate ha pianificato di cacciare i romani dalla regione. Diede inizio così all’invasione della Grecia e delle province anatoliche. Il Senato incaricò il console Silla di partire immediatamente per ricacciare nei suoi confini il nemico, ma non è di questo avviso il tribuno della plebe Sulpicio Rufo, il quale fa approvare dai comizi una legge che rimuove Silla dal comando per porre al suo posto Gaio Mario, diverse volte console ed eroe dei Campi Raudi. Silla, indispettito dalla manovra della plebe, marcia su Roma, e fa strage del partito dei popolari prima di partire per l’Oriente. Inizia così un sanguinosissimo conflitto civile che si concluderà con il ritorno di Silla a Roma, una nuova ondata di stragi e leggi volte a distruggere il potere dei tribuni della plebe. Silla, divenuto dittatore, rinuncerà alla sua carica nel 79 a.C, l’anno dopo morirà. Questo conflitto, che ebbe indubbiamente anche un aspetto politico, rappresentò principalmente lo scontro fra due grandissime personalità, Mario e Silla, le quali avevano radunato intorno a sé grandissime masse di sostenitori. Catilina si trovo militante del partito sillano, sicuramente il più conveniente per uno della sua classe sociale, ma ad esso non partecipò da un punto di vista politico, limitandosi ad ubbidire ai suoi superiori in quella che per lui, giovanissimo, doveva apparire come una guerra non diversa da quella combattuta in Oriente.
Avendo i requistiti anagrafici, l’anno della morte di Silla Catilina viene eletto questore, entrando così in Senato. Sarà l’inizio di una fulminia carriera politica, che lo porterà a salire tutti i gradini del “cursus honorum” in poco più che un decennio. Sarà legato in Macedonia al tempo dello scoppio della seconda guerra Mitridatica. Nello stesso periodo sarà processato ed assolto per un’accusa di violenza sessuale ai danni di una vestale imparentata con Cicerone. Questa accusa, frutto di una mossa politica volta a contrastare l’ascesa di un carismatico trascinatore, sarà in seguito sfruttata dalla propaganda dei suoi avversari e dagli storici per dipingerlo come un mostro senza morale. Come se non bastasse l’assoluzione, pochi anni dopo, nel 70 a.C, il Senato viene epurato da tutti gli elementi ritenuti “indegni” per la loro condotta politica e personale. Sessantaquattro senatori su trecento si vedono privati della loro magistratura. Catilina, che lo stesso anno sarà eletto edile, non è fra questi, mentre invece risulta fra loro Sallustio, che anni dopo scriverà il “De coniuratione Catilinae” presentando ai suoi lettori un Catilina completamente distorto, malvagio e senza scrupoli.
Propretore in Africa nel 67, l’anno successivo ritorna a Roma per proporre la sua candidatura, che egli caratterizzò con un’ardita battaglia di riforma sociale. Essa venne respinta per un supposto ritardo, e in parallelo si intentò contro di lui una causa per malversazione durante la sua precedente carica di governatore dell’Africa. Il processo, che gli impedì di candidarsi nel 65, terminò con la sua totale assoluzione. A questo punto, nonostante l’oggettiva campagna di boicottaggio nei suoi confronti, Catilina ci riprova presentandosi come esponente del partito popolare, supportato dai potentissimi Licinio Crasso e Giulio Cesare. Ma i suoi “alleati”, che pensavano col loro endorsement di guadagnare, assieme ai voti della plebe più radicale, un manovrabile alleato si troveranno presto spaventati non solo dall’enorme fascino di Catilina, ma soprattutto dal suo programma politico-economico caratterizzato dalla redistribuzione delle terre ai nullatenenti e dall’espoprio di quelle indebitamente occupate dai latifondisti in Africa, provincia da lui oramai conosciuta. Fu per questo che le alte cariche del partito popolare si incontrarono con i loro avversari ottimati, e strinsero un patto volto a far convogliare i voti dei propri elettori su Marco Tullio Cicerone e su Antonio Ibrida, estromettendo così Catilina dalla competizione elettorale. Nonostante i suoi sforzi arrivò terzo, primo fra i non eletti.
Abbandonato dai suoi potenti finanziatori, Catilina reagisce radicalizzando ulteriormente la sua proposta politica: alla riforma agraria egli unisce la cancellazione dei debiti, il riconoscimento della personalità giuridica degli schiavi e la cancellazione del potere delle vaire oligarchie. Questa proposta immensamente democratica e rivoluzionaria gli guadagnò un enorme supporto nelle campagne e presso il proletariato urbano. Tutti gli umili si stavano coalizzando intorno al loro campione, una persona dotata di tanto coraggio da sfidare la totalità del corrotto sistema romano a favore di una società più giusta. Intollerabile per la nobiltà latifondista e i creditori, Catilina fu nuovamente boicottato, le elzioni furono spostate dai consoli in carica di due settimane, ottenendo così la mancata affluenza di moltissimi rurali che non potevano permettersi due viaggi presso l’Urbe. Nuovamente battuto grazie a testimoniati brogli, Catilina si rende conto che davanti ha una sola strada: l’insurrezione.
Siamo negli ultimi mesi del 63, momenti tesissimi nei quali Catilina e i suoi, un insieme eterogeneo di nobili indebitati, contadini poveri, proletari, donne emancipate e giovani sovversivvi, sono impegnati in una partita a scacchi col potere costituito, che percepisce la congiura ma che non ha le prove per renderla pubblica. Moltissime armi vengono comprate ed inviate nelle zone dove più forte è il sostegno per le tesi rivoluzionarie di Catilina. Il piano è di condurre un duplice attacco allo stato, insorgendo all’interno nella città e in contemporanea facendo marciare verso di essa eserciti da nord e sud. E’ il 23 settembre quando l’amante di uno dei congiurati rivela alcune informazioni a Cicerone, dandogli così la possibilità di imbastire un’accusa che, seppur mancante di prove materiale, avrebbe potuto porre in difficoltà il suo avversario politico. La situazione si fa tesa. i catilinari in Etruria insorgono, e il governo reagisce. L’accusa si fa pubblica l’8 novembre. Il discorso che passerà alla storia come prima della Catilinarie, infarcito tanto di vaghe accuse quanto di elementi inventati di sana pianta, spinge Catilina, inferocito, ad abbandonare il Senato. Per alimentare lo stato di emergenza vengono diffuse notizie false su di un presunto piano di distruzione della città, che sarebbe stata incendita e la sua popolazione sterminata. Di questo non vi sono prove, ma la diceria, alimentata dai consoli, si espande.
Circa a metà novembre Catilina lascia Roma per ricongiungersi con i suoi compagni in Etruria. Con lui vi è un numeroso esercito, al quale pone innanzi le insegne appartenute a Mario, cimelio della guerra civile e legame ideologico con le classi subordinate. Arrestati ed ammazzati i congiurati ancora presenti in Roma in seguito ad una delazione di alcuni emissari degli Allobrogi, popolo celtico col quale i catilinari speravano di poter stringere un’alleanza, Catilina si rende conto del fallimento dei suoi piani. Vengono da lui congedati tutti gli schiavi, gli uomini sprovvisti di armi o senza addestramento in prospettiva di uno scontro finale con le truppe statali, che arriverà il 5 gennaio nei pressi di Pistoia, dove un piccolo esercito di irriducibili rivoluzionari affrontò fino all’ultimo uomo un grosso esercito inviato dal Senato. Catilina trovò la morte assieme a tutti i suoi compagni, immolandosi per una giusta causa contro il dispotismo e la corruzione dello stato romano. Con la sua morte il dominio delle classi possidenti non ebbe più oppositori, e la decadenza della Repubblica portà, appena un trentennio più tardi, all’avvento del principato.