L’importanza fondamentale dell’uscita dall’Unione Europea

La questione del “vincolo esterno” diventa d’importanza fondamentale per comprendere come mai l’Italia, e più in generale i paesi dell’eurozona, si siano mostrati negli ultimi decenni non solo incapaci di affrontare crisi economiche e politiche, ma anche di stemperare gli effetti di questi, prontamente scaricati sulle masse popolari con la prassi tipicamente neoliberista della privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite. La perdita della sovranità degli stati nazionali non ha limitato il potere della classe borghese, essendo la stessa costruzione europea frutto dell’opera delle parti più aggressive ed egemoni del capitalismo continentale. La piccola e media borghesia nazionale è stata posta di fronte ad un bivio: o crescere e riuscire a trionfare in un mercato sempre più dinamico e privo di tutele o soccombere. E’ inutile dire come la seconda ipotesi sia stata obbligata per la stragrande maggioranza delle aziende, che dal 2008 sono fallite nell’ordine delle centinaia di migliaia, lasciando ampi spazi di mercato aperti per i grandi capitali, che sono riusciti a colonizzare il tessuto economico italiano portando ad una sempre crescente “terziarizzazione” dell’economia e ad una progressiva deindustrializzazione del paese, dove le ex-proprietà statali vengono svendute al miglior offerente desideroso unicamente di smantellare gli impianti in quanto spauracchio di una possibile concorrenza. Se in termini di concorrenza intestina alla classe borghese l’Unione Europea è stata la scure che ha definitivamente rotto l’illusione della “classe media”, per quanto riguarda le masse lavoratrici essa ha segnato l’avvento dell’epoca del “lacrime e sangue”, l’adesione al paradigma nordamericano per il quale ogni persona deve essere lasciata sola, e ogni intervento comunitario volto a tutelare diritti e dignità sarebbe null’altro che un’ingiusta agevolazione, un intervento dannoso ed economicamente ingestibile. Tali politiche di natura economico-sociale sono state rese inevitabili dall’impossibilità da parte del singolo stato nazionale di adottare una politica monetaria autonoma e decisa democraticamente, e di conseguenza di avere una qualsiasi partecipazione nella vita economica del paese con un ruolo direttivo o comunque con possibilità d’intervento. 

Risulta quindi ovvio che l’esistenza stessa dell’Unione Europea sia un ostacolo all’avviamento dell’Italia al socialismo in quanto la permanenza del nostro paese nella stessa  chiude la porta a qualsiasi misura indirizzata al controllo politico della vita economica e all’uguaglianza sostanziale. E’ quindi prioritaria l’uscita dall’Unione Europea, in quanto questa rende impossibile stessa la dialettica politica  proiettando sulle scelte governative un’eterodirezione che annulla qualsiasi voce dissenziente o anche critica.

Ma potrebbe essere una forza parlamentare in grado di guidare un’uscita dal’Unione Europea appoggiandosi unicamente alle aule ministeriali? Improbabile, diremmo impossibile. L’Unione Europea viene menzionata svariate volte all’interno della nostra carta costituzionale, arrivando ad imporre i suoi parametri relativi alla “stabilità” economica negli articoli 97 e 119. Non basterebbe quindi un semplice recesso dai trattati europei, peraltro azione tutt’altro che semplice e lineare, ma andrebbe quindi preparata da una propedeutica “espulsione” delle normative europee dalla Costituzione. E questo discorso sarebbe da portare avanti a trattati ancora vigenti, quindi con la certezza di un’intensa guerra economica da parte dell’asse franco-tedesco a base di sanzioni e cancellazione di linee di credito. Non solo quindi la necessità di avere una forza nelle istituzione capace di vincere con maggioranza assoluta ben due votazioni, ma anche la capacità di far passare un futuro referendum confermativo! E’ palese che non si possa trattare la tematica del recesso come un semplice rapporto diplomatico fra due enti separati, ma deve essere invece visto come una guerra di liberazione ed indipendenza, lo spodestamento di un potere esterno non del tutto affrontabile tramite i regolari mezzi parlamentari. Una forza -su che forza torneremo dopo- che voglia portare l’Italia fuori dall’Unione Europea non potrebbe che avere la propria base, la propria forza e il proprio motore propulsivo nelle masse popolari organizzate, unico soggetto in grado di far pendere l’ago della bilancia dalla parte degli interessi del popolo e della classe lavoratrice. Sia chiaro che con ciò non si intende affermare l’inutilità di un soggetto parlamentare, ma la necessità di inserirlo in una precisa “gerarchia” valoriale che non lo può che vedere come sussidiario rispetto all’azione di massa, che dev’esser pronta anche a scavalcare l’autorità statale, in quanto al momento questa parteggia per forze antidemocratiche e para-totalitarie, che non si fanno scrupoli ad organizzare giornalmente violenza economica e fisica contro i popoli. Vi è dunque la necessità di vedere la lotta parlamentare come mezzo per una lotta politica più ampia, e non già fine o traguardo. La presenza in Parlamento sia quindi un mezzo di lotta e di propaganda, non un fine in sé o l’unico orizzonte concepibile.

Compreso che il processo che porterà l’Italia fuori dall’Unione Europea non potrà essere un processo unicamente parlamentare ma una lotta avente per primo protagonista le masse popolari, occorre interrogarsi sulla natura di questo processo. L’uscita sarà “da destra” o “da sinistra”? Per rispondere ciò bisogna prima di tutto intendersi sulla natura del soggetto politico destinato ad innescare e guidare questo processo. Esso non potrà che essere un fronte eterogeneo di più forze d’orientamento democratico e progressista, in quanto al momento non esiste un soggetto capace d’egemonizzare questo fronte di lotta, o di portare all’interno di esso una proposta che sappia comprendere le varie anime e sensibilità, ma soprattutto uscire da dimensioni fittizie, siano esse quelle connesse all’illusione che basti “votare via l’U.E.” o legate ai non-luoghi rete. Il fronte che possibilmente potrà svolgere questo ruolo non può che garantire una natura “spuria” dell’uscita dall’Unione Europea, ossia comprendente posizioni diverse e anche antitetiche, ma l’importante è che questo sappia avere una grande e preponderante componente socialista, perché si abbia un processo forse non ancora “socialista” nella sua essenza, ma di certo “con i socialisti”. L’entità di questa presenza non potrà che essere decisa dalle capacità organizzative ed egemoniche della componente stessa. CIò che bisogna assolutamente tenere a mente è la necessità di riorganizzare le forze socialiste fin da ora, lottando per costruire un’unità pratica che andrà a comporre la vera essenza del fronte.

La NATO: l’altro vincolo esterno

E’ impensabile l’emancipazione dell’Italia e del suo popolo senza l’espulsione delle decine di migliaia di militari stranieri e gli innumerevoli mezzi e armamenti. Si tratta di 12.902 militari, ai quali vanno aggiunti 11.799 collaboratori civili dislocati su 59 basi disposte su tutto il territorio nazionale, in particolare il comando logistico della Sesta Flotta con sede a Napoli (nel 2003 questa arrivò a comprendere 40 navi, 175 velivoli e 21.000 fra militari e civili), le basi aeree di Sigonella, Ghedi e Aviano, oltre a Camp Darby, dove il magistrato Alessandro Imposimato sostenne che “si riunivano terroristi neri, ufficiali della Nato, mafiosi, uomini politici italiani e massoni, alla vigilia di attentati” (‘Il Manifesto’, ‘Moby Prince, la pista USA’, apparso il 16 marzo 2016). A queste vanno aggiunte come elemento non secondario le 40 bombe atomiche presenti sul nostro territorio, e in procinto di essere sostituite con ordigni di maggiore potenza, fra le basi di Ghedi ed Aviano. Questo significa che in caso di guerra atomica non solo dal nostro paese partirebbero i vettori destinati a mietere milioni di vittime lanciati dal regime nordamericano, ma l’Italia stessa diverrebbe obiettivo primario di qualsiasi attacco preventivo o di rappresaglia. Andando a scenari meno catastrofici e calandoci nella realtà concreta, è evidente come l’Italia non possa disporre di una politica estera indipendente, dovendosi obbligatoriamente appiattire sulle linee guida del padrone statunitense. la Jugoslavia, la Libia, l’Ucraina, l’Iraq le “primavere arabe” e i tentativi di destabilizzazione in tutto il mondo, Sud America in primis, sono lì con i loro milioni di morti e i miliardi di dollari in danni economici a dimostrare la complicità e l’umiliazione dello stato italiano, fedele servo del più grande gruppo terroristico che sia mai esistito, il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d’America. Non solo politica estera: sono noti gli inquietanti legami che legano i servizi segreti americani ai nostri ‘Anni di Piombo’, e non solo tramite le strutture ’Stay-Behind’ ma anche il foraggiamento sistematico dell’eversione reazionaria e i progetti di golpe bianco in funzione anticomunista. Non è concepibile un’Italia indipendente che sia all’interno della NATO, non è concepibile un’Italia fuori dalla NATO che non abbia però prima tagliato i ponti con l’Unione Europea, i cui vincoli di bilancio e di spesa, uniti alla sussidiarietà militare, renderebbero impossibile qualunque tentativo di creare un paese militarmente sovrano. La NATO deve però essere necessariamente abbattuta.Essa rappresenta un vincolo esterno per l’Italia non meno grave, e non meno mortale, di quello delle istituzioni europee, che limita fortemente l’azione dello stato e la sovranità democratica, arrivando a muoversi in maniera criminale per poter impedire qualsiasi deviazione e per condurre una spietata “guerra di logoramento” con le potenze ostili al blocco atlantico. I recenti avvenimenti della Bolivia, della Bielorussia e del Venezuela testimoniano efficacemente come l’impero americano non sia secondo a nessuno in quanto violazione della sovranità dei popoli e repressione di qualsiasi tendenza socialista. In vista di un progresso sociale del nostro paese, è necessario considerare gli americani e i loro alleati, interni ed esterni ai confini nazionali, nemici politici e traditori della patria. L’uscita dalla NATO non può che avere necessariamente una natura simile a quella relativa all’Ue, ma con una differenza: l’elemento popolare non dovrà unicamente essere organizzato, ma armato, avendo la finalità di cacciare le truppe d’occupazione straniere dal territorio nazionale.

Il “partito dell’Italexit”, nulla di nuovo sotto al Sole

E’ buona pratica interessarsi in maniera spregiudicata ad ogni nuova forza per individuare eventuali elementi di rottura, criticità e potenzialità. E’ iniziata così da parte nostra un’indagine per acquisire dati sul nuovo soggetto politico presentato da Gianluigi Paragone. Le aspettative sono state superate, ma in negativo. Non ci interessa spiegare qui le dinamiche che ci hanno portato a conoscere i fatti,  basti sapere che derivano dall’incrocio di esperienze dirette e di fatti riportati, oltre che dalle dovute ricerche effettuate. Il partito di Paragone si pone fin da subito come partito-azienda, e non potrebbe essere che questo vista la natura, appunto, aziendalistica della sua cellula primordiale, ossia il gruppo ristretto del senatore ex-grillino destinato alla comunicazione e da lui stipendiato. C’è da notare infatti che il “leader forte”, parafrasando una sua stessa espressione, sarebbe il fulcro della vita del partito in quanto sorgente economica se non unica sicuramente principale. Riteniamo questa impostazione antitetica rispetto a qualsiasi progetto di massa, ma anzi unicamente la riproposizione del vuoto pneumatico della politica degli ultimi decenni. Aggiungiamo che proprio per i rapporti di forza garantiti dalla posizione di Paragone qualsiasi tentativo interno di orientare la linea del partito si scontrerebbe col muro di gomma della centralità economica, politica e comunicativa del frontman. Come già affermato, non vi è speranza di organizzare l’uscita dall’Unione Europea senza il coinvolgimento prioritario ed essenziale delle masse popolari. E come potrebbe muoversi in questo senso un partito-azienda, mosso esclusivamente dalla necessità di perpetuare la sua esistenza non già come forza dirompente e rivoluzionaria, ma di appendice dai toni radicaleggianti del centro-destra, un fac simile della Lega pronto, per esigenze dettate dalla legge elettorale maggioritaria, a riportare in seno al campo salviniano i voti dei delusi allettati dalla promessa dell’Italexit, promessa che rimarrà unicamente un miraggio, una prospettiva mitica attorno al quale consolidare alcune forze potenzialmente sovversive inquadrate però come truppe ausiliarie dell’asse Salvini-Meloni. Per quanto riguarda il primo vincolo esterno, ossia l’Unione Europea, non riteniamo che il partito di Paragone possa essere un soggetto valido atto alla rottura di questo. Anzi, è più probabile che, orientando nuovamente verso il bipolarismo parlamentare gli sforzi di chi generosamente sarebbe disposto ad impegnarsi a favore dell’Uscita, la lotta contro l’U.E. ne risenta fortemente. Non è migliore la situazione per quanto riguarda il “secondo” vincolo esterno, ossia la Nato. Paragone sta orientando la sua campagna mediatica da un punto di vista internazionale in senso anti-cinese e filo-statunitense. Ci viene da ridere a pensare che il futuro campione della sovranità italiana possa essere uno impegnato a denunciare una pretesa “infiltrazione” dei comunisti cinesi mentre tace sistematicamente sulle armate e sugli ordigni mortali che l’Italia è costretta ad ospitare come contropartita per la sua permanenza nel “Mondo Libero”. La sovranità o la si rivendica integralmente, o è meglio tacere, e Paragone farebbe meglio a tacere. 

La logica vorrebbe che il “partito di massa” venisse costruito in presenza della “massa”. Il partito non può che nascere da un movimento di massa, il contrario sarebbe assurdo e opposto a qualsiasi logica. E’ impensabile, inoltre, che un partito-immagine fondato su un singolo possa organizzare le masse. L’intera operazione Paragone risulta quindi la truffaldina volontà di confondere le acque nel già ridotto e confuso campo “sovranista” con la finalità di ricondurre al centrodestra i voti “dissidenti” allontanatisi per l’abbandono della retorica anti-europeista da parte di Matteo Salvini. 

Un’Italia saldamente ancorata nel campo atlantico, un assetto interno distante anni luce da qualsiasi modalità plurale e democratica, finalità politica identificata nel parlamento, dove portare in pegno alla destra i voti fuggiaschi, avversione ai giovani e alle lotte sociali: questo è quello che leggiamo in “Italexit”.

Comitato Centrale M-48