DI VERONICA DURANTI

Il coronavirus, come ormai abbiamo ben compreso, non è solo un’emergenza sanitaria. Lo sarebbe stato se avesse colpito un sistema strutturalmente capace di farvi fronte, non solo dal punto di vista del sistema sanitario, economico e sociale ma e soprattutto da quello delle istituzioni e degli organi dello stato di rilevo costituzionale. L’intera popolazione è stata di fatto messa di fronte alla scelta inevitabile tra sicurezza e libertà: causa il terrore e l’imprevedibilità della situazione, ha scelto la prima.

Se questa reazione era comprensibile nei mesi di febbraio e marzo, ora, nonostante l’umana paura più che comprensibile, non lo è più. La stessa cosa si può dire per le misure emergenziali limitative dei diritti costituzionali. Ammesso e non concesso che lo stato di emergenza dichiarato il 31 gennaio scorso fosse legittimo, quello che è stato fatto ha creato un precedente gravissimo nella storia repubblicana: non si tratta della ormai consueta mancata applicazione sostanziale della costituzione (la società italiana è quanto di più dissimile da quella che risulterebbe dall’applicazione reale dei diritti e dei doveri costituzionali), Conte e il governo sono andati oltre, l’hanno di fatto sospesa anche formalmente.

Quello che prima davamo per scontato, quei diritti e quelle libertà che ci sembravano ovvie e acquisite, non lo sono più perché la fonte di ogni norma è ormai diventata l’esigenza di contrastare il virus. Non vi è più di fatto una norma suprema che tuteli i cittadini, non perché non esista, ma perché le forze dell’ordine hanno deciso di dare applicazione ai DPCM e di derogare materialmente ad essa anteponendo gerarchicamente l’autorità alla legge. Questo porta alla logica conclusione che in questo momento ciò che regola la vita sociale non è più una legge comune, ma la legge del più forte. Il Parlamento è stato esautorato della funzione legislativa in virtù della natura emergenziale dei provvedimenti, che emergenziali non sono più ma sono diventati strutturali.
Lo stato di diritto è sospeso (e credo finito), Conte e il governo non rispondono più a nessuno, nemmeno alla Costituzione e nemmeno formalmente, se non a se stessi.
Quello che oggi regola le nostre vite, se possiamo o no uscire di casa, per quanto tempo, dove possiamo o non possiamo andare non è più conseguenza di un patto comune ma dell’arbitrio di poche persone che hanno a disposizione i mezzi militari ed economici per obbligare le persone ad eseguire le loro volontà.
Emerge da qui l’ipocrisia dei sistemi democratici quando diritti e doveri sono riconosciuti ai cittadini ma essi sono del tutto privati dei mezzi per esercitarli e per difendersi dai soprusi di chi di volta in volta tenta di privarli di essi.
Quella che Conte e altri continuano a chiamare nuova normalità, sarebbe più appropriato chiamarla dittatura. E’ ora di prendere coscienza dello stato reale delle cose. L’Italia non tornerà mai più come prima, siamo privi di mezzi per tutelarci e le nostre sorti sono rimesse al buonsenso e alla clemenza di questo o quel poliziotto, carabiniere o militare.
La svolta autoritaria non ha niente a che vedere con la tutela della salute dei cittadini, senz’altro attuabile con mezzi più civili, è una precisa scelta politica travestita da necessità sanitaria. Siamo di fronte al sovvertimento delle istituzioni dello stato, è un cambio di sistema che se anche ha precisi artefici non potrà essere cancellato, non si potrà più tornare indietro con un semplice cambio di personale.
Chi verrà dopo Conte troverà già pronti gli strumenti e le colonne portanti di una regime autoritario, che potrà essere cancellato solo come è stato istituito e cioè con un sovvertimento totale del sistema.


“Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare.”

Antonio Gramsci