di Leonardo Sinigaglia

“Quando le classi dominanti non possono più governare alla vecchia maniera, e le classi dominate non vogliono più vivere allo stesso modo, allora nasce la situazione rivoluzionaria.”

György Lukács

“Non è dunque lo stato d’assedio, ma la lotta di classe spregiudicata che risveglia la coscienza di sé, lo spirito di sacrificio e la forza morale delle masse popolari.”

Rosa Luxemburg

La promulgazione dello stato d’emergenza è un chiaro segnale che le istituzioni danno alla cittadinanza: non c’è più posto per diatribe e discussioni, la situazione è grave e richiede un intervento drastico e celere. Lo stato d’emergenza si configura quindi come eccezione al normale vivere civile, politico ed economico, dove misure ritenute impensabili fino al giorno prima fanno il loro prepotente ingresso nella quotidianità, divenendo parte di essa indipendentemente dalla volontà di coloro i quali sono costretti a vivere in tale situazione. L’emergenza di per sé è una situazione negativa, in quanto imprevista e dannosa, ma la reazione a questa assume una connotazione valoriale in base al contenuto e a ciò verso cui si orientano gli autori. Si deve quindi procedere ad una lettura politica dell’emergenza e delle misure che a causa di questa vengono applicate. C’è ovviamente chi non si può che opporre a operazioni di questo tipo: al vaglio dell’analisi iniziano a palesarsi tutte le trame e le direttrici dei provvedimenti. Molto meglio, molto più saggio, trincerarsi dietro un preteso “interesse nazionale” e bollare come superflua ed inopportuna qualsiasi analisi. Un sistema vive una crisi in due modi: come fase terminale o come opportunità per ristrutturarsi. E se la censura può considerarsi elemento presente in entrambe le situazioni, forse nella seconda ha la caratteristica di essere indirizzata ad una progettualità individuabile.

Tutto ciò è vero più che mai di fronte all’emergenza scaturita dalla pandemia mondiale ‘Covid-19’.La comparsa di questo virus in una determinata fase storica gli permette di svolgere un’azione catalizzatrice di enorme portata, che varca i confini degli stati e influenza la totalità della vita collettiva, dalla sanità all’istruzione, passando per le relazioni geopolitiche fino al mondo del lavoro. Quella a cui stiamo assistendo è una titanica ristrutturazione del sistema capitalista a livello internazionale, che sfrutta il periodo emergenziale per affrettare il processo e massimizzare i profitti. Non è un caso che durante i vari “lockdown” i più ricchi del mondo abbiano visto i propri patrimoni aumentare di svariate volte, ma anzi è il risultato di precise tendenze catalizzate dalle misure emergenziali e dalla realtà materiale da esse scaturita.

SANITÀ

La sanità in Italia non godeva di buona salute da ben prima che si sentisse parlare di Covid-19. È errato quindi pensare ad una crisi sanitaria prodotta da una piaga biblica; anzi, questa idea è da combattere profondamente, in quanto mirata a nascondere le responsabilità della classe politica che da decenni pratica privatizzazioni e ‘aziendalizzazioni’ in maniera sistematica. I dati pubblicati dall’istituto GIMBE nel suo report del settembre 2019 relativo al definanziamento della sanità pubblica parlano chiaro: “nel periodo 2010-2019 alla sanità pubblica sono stati sottratti oltre € 37 miliardi, di cui: o circa € 25 miliardi nel 2010-2015, in conseguenza di “tagli” previsti da varie manovre finanziarie; o oltre € 12 miliardi nel 2015-2019, in conseguenza del “definanziamento” che ha assegnato meno risorse al SSN rispetto ai livelli programmati, per l’attuazione degli obiettivi di finanza pubblica (figura 5);  nel periodo 2010-2019 il finanziamento pubblico è aumentato di soli € 8,8 miliardi, crescendo in media dello 0,90% annuo, tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua (1,07%);  il DEF 2019, a fronte di una prevista crescita media annua del PIL nominale del 2,1% nel triennio 2019-2021 e del 2,5% per il triennio 2020-2022, riduce progressivamente il rapporto spesa sanitaria/PIL dal 6,6% nel 2019-2020 al 6,5% nel 2021 e al 6,4% nel 2022” [pdf qui]. In soli 10 anni il nostro Sistema Sanitario, visto come un salvadanaio dal quale tirare a forza fuori i soldi per coprire altre voci del bilancio, ha visto la perdita di ben 37 miliardi di euro, di 70.000 posti letto, di 359 reparti, di migliaia di medici ed infermieri. I resti di questa mattanza non gravitano comunque in buone acque: il precariato è diffusissimo, ormai caratteristica ineluttabile della nostra vita lavorativa. È il Sindacato Medici Italiani a lanciare la denuncia questa volta: “ Nel Ssn il ricorso al precariato è cresciuto tra il 2014 e il 2015 di circa 3.500 unità per complessivi 43.763 lavoratori, tra cui 9.500 medici, 1500 solo in Sicilia”. E ancora: “Il blocco del turnover dura da 10 anni, regalandoci una gamma fantasiosa di contratti che vanno dalle partite iva, cococo, cocopro e bruciando un’intera generazione di professionisti: il pubblico impiego in generale, ha perso qualcosa come 10 miliardi di massa salariale l’anno”.

Una vera e propria distruzione di un diritto della cittadinanza. Non solo  dissanguamento finanziario, ma anche “ristrutturazione” seguendo logiche proprie del mercato ma ostili alla natura pubblica del nostro SSN: chiusura delle strutture periferiche, concentramento in ‘Ospedali Unici’, iper-specializzazione, costose convenzioni con i privati e, a monte di tutto, la famigerata legge 517 del 1993, opera del governo Amato, con la quale si dava via libera alla svendita del nostro Sistema Sanitario e alla sua aziendalizzazione. Questa già assurda e drammatica situazione è ulteriormente aggravata dal mantenimento del numero chiuso nelle università alle facoltà mediche. Soprattutto in periodo di crisi sanitaria, appare ancora più illogico il mancato intervento istituzionale a riguardo. Intervento che appare però sempre e comunque come “misura emergenziale”, sempre dettata da circostanze “impreviste” e dalla natura urgente. E questo era realtà già da ben prima della crisi Covid. Questa tendenza, catalizzata dal virus, è propria di una classe politica del tutto incapace di avere una progettualità che vada al di là del bimestre, e finanche sprovvista degli strumenti per farlo, strumenti che solo una società socialista potrebbe garantire. Il diffuso disordine del libero mercato non può che portare alla distruzione di ogni certezza e di ogni diritto. E in campo sanitario è esattamente ciò che è avvenuto. La sottomissione del diritto alla salute alla logica del profitto ha impedito di garantire al popolo salute e benessere. Non può sorprendere quindi che il Sistema Sanitario Nazionale sia crollato davanti all’emergenza Covid. Non tanto per la particolare forza di questo virus, ma per i sabotaggi che provenivano in maniera costante e con indiscussa aggressività da parte delle istituzioni. Le decine di migliaia di morti imputabili al Covid-19 e alle mancate prestazioni sanitarie non sono da ascrivere quindi a una catastrofe biblica, all’ira di un Dio vendicativo, ma all’azione di una classe politica, spalleggiata ed aizzata dalla grande borghesia, che per interi decenni è stata impegnata in un’opera certosina di distruzione dello stato sociale, degli spazi democratici, dei diritti. Il diritto alla salute è imprescindibile in quanto la fruizione di ogni altro diritto dipende anche dalle possibilità fisiche e psicologiche. Rendendo la salute una merce, in specie quella mentale, lo Stato italiano ha donato al Mercato potere di vita e di morte sui cittadini. E il Mercato sacrifica volentieri le vite dei cittadini in cambio del profitto. Così ospedali privati speculano sulla salute dei cittadini, chiedendo a questi il pizzo in cambio delle cure o presentando il conto allo Stato, prodigo nel risarcire la grande borghesia. E questa tendenza non viene combattuta nemmeno davanti alla pandemia. Viene anzi esaltato il fallimentare e omicida “modello lombardo”. Il modello aziendalistico ha fallito, ha ucciso, sta uccidendo.

SCUOLA

Il compito della scuola è formare cittadini. Né insegnare competenze, né preparare per il “mercato del lavoro”. La scuola è la garanzia della futura democrazia. Sottomettendo l’educazione al mercato, si impone una svolta totalitaria alla società. Il pensiero critico, la trasmissione del sapere, della cultura non interessano ai mercati, che cercano invece futuri lavoratori abituati alla precarietà, all’ubbidienza, alla rassegnazione, in competizione fra loro e impossibilitati a concepire un mondo diverso da quello che li circonda. Scuola ed Università hanno subito, in contemporanea al Sistema Sanitario Nazionale, un attacco di indescrivibile ferocia, che ha portato al prepotente inserimento di cosche imprenditoriali all’interno di esse, finanche nei Consigli d’Amministrazione delle università e come appaltatrici dei servizi di manutenzione e tecnici. Non solo: intere riforme, come la ‘Buona Scuola’ di Matteo Renzi, sono state pensate col preciso scopo di garantire agli imprenditori “carne da cannone”. Manodopera non retribuita, costretta ad accettare impieghi decisi a monte e senza alcuna possibilità di diniego, che nel frattempo riceve un’assurda “educazione” al precariato e al servilismo nei confronti dei datori di lavoro. Anche i finanziamenti agli istituti e alle facoltà seguono la stessa logica: vengono premiate le facoltà predilette dal mercato, come informatica ed ingegneria, mentre le facoltà umanistiche, ree di non produrre una “merce” richiesta, sono dimenticate. Lo stesso accade fra gli istituti secondari: con l’Invalsi e altre classiste classificazioni vengono premiati con finanziamenti e progetti le scuole migliori, abbandonando quelle già disastrate e in difficoltà ad un peggioramento infinito. Non sono gli studenti le uniche vittime di questo malato disegno: fra precarietà, stress e disinteresse, insegnanti e personale ATA non possono che fare le spese di un sistema antitetico rispetto a qualsiasi bisogno umano. Aperta alle logiche del mercato, la scuola si è trasformata nell’ennesimo teatro di sfruttamento e di prevaricazione. Ricercatori assunti con contratti a progetto, malpagati, privati di qualsiasi tutela, che arrivano ad essere anche il 60% dei ricercatori totali in alcune università. Cattedre fisse che arrivano anche dopo decine di anni di supplenze e di trasferimenti. Carenza endemica di personale, classi pollaio, assenza degli insegnanti di sostegno, strutture fatiscenti, presidi manager. Questo era lo stato della scuola italiana all’inizio della pandemia. Ma a differenza della sanità, direttamente collegata all’emergenza pandemica, la scuola è stata “giustiziata” dallo stato in prima persona. La reazione del Governo Conte, miope e sbrigativa, ha dato il colpo di grazia ad un’istituzione già violentemente compromessa. “ Vile, tu uccidi un uomo morto!” gridò il Ferrucci al suo assassino, e un simile grido è stato lanciato dalla scuola e dall’università all’indirizzo del premier, dei ministri Azzolina e Manfredi e della pletora di “esperti” di cui si sono circondati. Se il paese è in emergenza, anche il diritto allo studio è sospeso. Le scuole vanno chiuse, assieme a biblioteche, facoltà, aule studio. Le residenze hanno seguito un percorso leggermente divergente, ma non più sano. Le lezioni devono essere sospese, c’è il covid. Questo l’ordine delle alte cariche ministeriali. E per qualche giorno non sembrava che il governo volesse andare più oltre di vietare la frequenza, il che sarebbe stato perfettamente in linea col totale disinteresse portato alla scuola negli ultimi cinque decenni. Ma poi si è iniziato a parlare di “Didattica a Distanza”, ossia di utilizzare piattaforme online (private, ovviamente) come surrogato delle lezioni “tradizionali”, rendendo scuola ed università volgari corsi online. Questo ha posto, e pone tuttora, delle criticità di grande importanza: la fruizione del diritto alla studio passa per l’accesso ad un dispositivo capace di reggere le applicazioni e ad una connessione in grado di rendere le lezioni possibili; non esiste nessun impegno da parte delle istituzioni a garantire ad ogni studente connessioni internet e dispositivi; la continua situazione di promiscuità forzata in casa, aggravata dal disagio economico e dallo stress, non sono che un ulteriore ostacolo alla possibilità di portare avanti un percorso di studi degno di tale nome. In ambito universitario tutto ciò si è andato a sommare col dramma dei fuorisede e delle rate universitarie, che non sono state sospese nonostante non fosse erogato nessun servizio da queste. Il governo, (poco) conscio di queste drammatiche situazioni ha pensato di intervenire con quella che sarebbe stata una modalità destinata a diventare prassi abituale: i bonus. Cinquecento euro per tutti coloro che ne avessero fatto richiesta e con un ISEE sotto i 20.000 euro, da spendere su pc e tablet, ovviamente da acquistare obbligatoriamente su internet, con ulteriore somma gioia del grande capitale. Questa modalità si è rivelata fallimentare, perché se virtualmente garantiva a molti dei bisognosi la possibilità di avere uno strumento col quale seguire le lezioni, non annullava il problema della presenza e della potenza delle connessioni internet, diffuso soprattutto fra le famiglie numerose, non garantiva un ambiente famigliare compatibile con l’apprendimento e soprattutto non riconsegna alla scuola una dimensione sociale, prerequisito dell’educazione e della crescita degli studenti. Ma la DAD non va vista come provvedimento emergenziale e temporaneo. Essa non era che il naturale sbocco di una scuola ridotta a fabbrica di futuri precari, in perenne passivo e svuotata di significato reale. La digitalizzazione si era già imposta prepotentemente, messa all’ordine del giorno come obiettivo già dal governo Renzi, e quale migliore occasione di ristrutturare la scuola con un paradigma fondato sul risparmio e sulle “competenze” che una situazione che fomenta precarietà e crisi economica? La scuola che uscirà dalla pandemia non sarà come quella precedente, ma infinitamente peggiore. Le lezioni a distanza saranno la nuova normalità, cosa peraltro confermata dalla “didattica integrata” in vigore con l’attuale “ripartenza”. Perché pagare 10 professori per insegnare in 10 aule a 200 studenti quando si può averne 5 che da remoto insegnano a 1000? E in una società dove tutto è indirizzato a massimizzare i profitti e minimizzare i costi la risposta è ovvia. E non solo lo stato è orientato in questa direzione: le università e gli istituti privati vedrebbero così aumentare in maniera indefinita le potenzialità d’iscrizione, andando invece a limitare i costi per personale e strutture. Esemplare il caso di Google, che nel mezzo dell’emergenza lancia la sua “università”: 6 mesi, un certificato, manco a dirlo, riguardante il mondo digitale, di pari valore rispetto alle lauree “reali”. Senza nemmeno accorgersene, chi vorrà accedere all’istruzione non dovrà che andare su Amazon, selezionare il pacchetto più appropriato e scaricare le videolezioni, aiutato da un una chat interattiva d’aiuto o magari direttamente da un ‘bot’.

POLIZIA E REPRESSIONE

Il terreno dello “stato d’emergenza” è molto scivoloso. Qual è la vera differenza tra check-point militari e pattuglie predisposte al controllo del “distanziamento” e aventi compiti d’ordine pubblico? Solo una: la facciata che è presentata al pubblico. Sin dall’inizio della fase emergenziale qualsiasi impiego di militari e forze di polizia è stato presentato alla cittadinanza come una questione sanitaria, un’azione per il bene comune. In  realtà non è così. Già a marzo 2020 i servizi segreti avevano avvertito la presidenza del consiglio dei ministri del rischio concreto di “rivolte e ribellioni al sud”, che sarebbero esplose poi durante la seconda ondata, partendo da Napoli ed espandendosi a macchia d’olio su tutta la penisola. Ma i droni, le telecamere, i nuovi mezzi e i rincalzi prontamente assunti da governo e regioni sono stati messi in campo in nome della “lotta al covid”. Il coprifuoco è imposto in nome della “lotta al covid”. Scioperi e manifestazioni sono vietati in nome della “lotta al covid”. E’ palese come il problema che si cerca di contrastare non sia sanitario, ma di ordine pubblico.

Se i controlli possono in qualche modo diminuire i tanto odiati “assembramenti”, essi non rappresentano che una misura tappabuchi e posticcia. Non è certo sulle panchine o fra i vicoli che si generano focolai, ma nelle fabbriche, negli ospedali, nelle strutture per anziani, e nelle case di chi ha la malaugurata sorte di non essere considerato degno di tutele e protezioni. Se i nostri governanti avessero veramente  cuore la situazione sanitaria, avrebbero riversato le grandi cifre riservate ai loro gendarmi nella sanità pubblica, avrebbero espropriato gli ospedali privati, sarebbero intervenuti per ri-attrezzare tutte le strutture abbandonate. Ma così non è stato: solo ad agosto 2020 sono stati versati alla Polizia di Stato 41 milioni (con la stessa cifra si sarebbero potuti aprire 410 posti in terapia intensiva). Non è un caso nemmeno che i famigerati “Decreti Salvini” siano stati mantenuti nelle norme riguardanti l’ordine pubblico, come l’inasprimento delle pene per chi manifesta a volto coperto (conterà anche avere indosso una mascherina?) e per chi blocca la viabilità durante un corteo. D’altronde tutto ciò non è che il punto d’arrivo di un percorso tendente all’autoritarismo che in Italia è stato imboccato da anni. Nella storia del nostro stato nazionale, le forze di polizia e militari hanno sempre avuto il compito principale di tutelare lo stato dalle minacce interne più che esterne. Indizi di questo sono stati lo sdegno e l’ostilità per il volontarismo nelle fasi finali dell’unificazione, ma anche la pratica di inviare le nuove reclute lontane dalla propria casa, nel tentativo di recidere i legami con la popolazione fra la quale si è chiamati ad operare e cementare lo spirito di corpo. Il carabiniere, l’agente di polizia, il militare sono così portati a sentirsi vicini unicamente ai loro “colleghi”, di sentirsi entità a sé separata e distinta dal popolo, che è visto come fonte di continue minacce. Sarà poi il fascismo a far maturare in maniera più evidente ed ideologica l’assetto autoritario dello stato unitario, con grandi restrizioni alle libertà politiche, sindacali e personali. La storia repubblicana, con gli Anni di Piombo e le stragi commesse dal regime democristiano contro operai e braccianti, non è altro che lo sviluppo delle tendenze all’autoritarismo che hanno accompagnato la storia contemporanea del nostro paese. I governi della Seconda Repubblica si sono posti come continuatori di questa poco nobile tradizione, e così intercettazioni, repressione politica, accuse di terrorismo e eversione sono piovute su tutti i nuclei di resistenza che tentavano di respingere l’assalto neoliberista ai diritti delle masse, alla salute ambientale e alla democrazia, da Genova alla Val di Susa, passando per la Terra dei Fuochi e il movimento No-Muos, fino alla Sardegna per arrivare alle piazze di fine ottobre, Napoli in testa. L’emergenza che si sta affrontando, se è spacciata come unicamente sanitaria, in realtà investe tutti i settori del vivere civile. La democrazia in primis. Per quanto sarà ancora possibile manifestare il proprio dissenso? Quanto manca prima che i militari per le vie, frutto dell’infame progetto “Strade Sicure”, diventino una visione comune? La situazione è grave.

ECONOMIA

Se l’emergenza Covid-19 ha distrutto un mito, questo è quello dell’economia globalizzata. Era facile prevedere che le economie incentrate sulle esportazioni non avrebbero retto ad un calo mondiale dei traffici, e così puntualmente è stato. Il libero commercio ha prontamente lasciato spazio al ritorno alle barriere e ai controlli, mentre i mantra iniziati decenni fa, ma portati alla ribalta dal governo Monti, sulla distruzione della domanda interna hanno portato alle ovvie conseguenze: alla chiusura dei mercati esteri, l’economia è crollata. E i numeri parlano chiaro: dopo quasi 30 anni di focus sulle esportazioni, con bilancia commerciale perennemente in attivo tranne che durante la storica crisi del 2008, l’Italia perde il 12,4% del Pil nel secondo trimestre, dopo un primo trimestre che già segnava il -4,7%. Sia il commercio internazionale che quello al dettaglio registrano fortissime contrazioni, con porti come quello di Genova e Trieste che segnano rispettivamente un -20% e -14% dei traffici commerciali e cifre ancora più alte per quanto riguarda i passeggeri, e il crollo degli acquisti di beni non alimentari, che a luglio 2020 registravano una flessione dell’11,6% in valore. I consumi risultano in calo in tutto il paese, con una perdita stimata da Confcommercio di 116 miliardi, soprattutto al nord (-11,7% in totale) solo ad agosto 2020, prima quindi della seconda ondata.

Tutto ciò non è il risultato unicamente delle progressive restrizioni imposte alla cittadinanza e agli esercizi commerciali, ma anche del calo dei redditi che ha accompagnato la popolazione sin dalle prime settimane dell’emergenza. Come riportato da Confesercenti a settembre dello stesso anno, citando una ricerca dello ‘Svimez’. I dati sono eloquenti: crollano le regioni più ricche (ma anche fra le più colpite) con Lombardia al -7,3%, Piemonte al -5,2%, Emilia Romagna al -6,3% (qui oltre il 60% dei commercianti riporta cali a doppia cifra del fatturato), ma anche quelle più povere, con le Marche al -12,3%, l’Umbria al -12,2%, la Sicilia al -7%, Campania al -3,7%.E’ interessante vedere come il calo dei redditi e dei consumi abbia precisi connotati di classe. Risultano penalizzati ovviamente i lavoratori dipendenti, i lavoratori precari, i cassintegrati, i lavoratori in nero e le piccole partite iva, mentre i grandi capitali hanno visto crescite esponenziali, sia cannibalizzando i resti delle attività commerciali falcidiate dalla crisi (90mila imprese fallite a settembre 2020), sia aprendo, con l’aiuto del governo, nuovi mercati ed opportunità di guadagno. Infatti, le ricchezze dei 40 miliardari italiani hanno fatto un balzo ben del 31% da inizio pandemia, addirittura portando all’ingresso fra le fila dei “super-ricchi” di 4 persone in più rispetto all’anno scorso. Tutto questo mentre milioni di italiani perdevano ogni certezza sulla propria vita, perdevano il lavoro o erano costretti a ricorrere a prestiti, spesso contratti ad usura, o ad accettare la discesa nella povertà.Emblematico è il caso FCA.Come riporta il Wall Street Journal, l’azienda ormai italo-americana ha segnato profitti record durante la pandemia. La ragione? Furbizia e spregiudicatezza. Non solo vi è di mezzo l’accordo con lo stato italiano, le cui fondamenta erano già state gettate a marzo e che poi è stato confermato con il decreto ‘Cura Italia’, per la produzione giornaliera di milioni di mascherine chirurgiche, il cui utilizzo è successivamente divenuto obbligatorio su tutto il territorio nazionale, e che ha portato alla conversione degli stabilimenti, ma anche la richiesta di un prestito straordinario garantito dallo stato per non indebolire la presenza in Italia dell’azienda, ossia per evitare licenziamenti di massa appena possibile. Il governo ha prontamente calato le braghe, concedendo a FCA la garanzia all’80% su 6,3 miliardi di euro (ricordiamo che per il ‘Decreto Ristoro’ sono stati stanziati 5 miliardi). Ciononostante il colosso multinazionale ha dirottato la produzione della nuova Punto in Polonia, per la precisione a Tychy. Questo episodio, uno fra tanti, dimostra come lo Stato italiano oramai sia totalmente in balia di poteri economici incontrollabili e che non tengono nemmeno più a rispettare una certa dignità formale che sembrava fino a qualche decennio fa intangibile. Nei fatti le istituzioni si comportano come camerieri del capitale in una maniera totalmente spregiudicata. Possiamo vederlo con la creazione della ‘Didattica a Distanza’, ora ‘Didattica Integrata’, con l’alternanza scuola-lavoro, che continua nonostante le lezioni siano virtuali, ma anche con lo ‘smart working’, novità del primo lockdown che non rappresenta già una misura emergenziale, destinata a scomparire rapidamente quanto è iniziata, ma una nuova costante della vita lavorativa degli italiani. Il lavoro a distanza permette infatti di abbattere i costi del lavoro, non solo diminuendo i compensi, ma eliminando la costosa presenza fisica dei lavoratori, che dovranno da soli provvedere ad avere un computer e una connessione in grado di metterli in condizione di generare profitti per l’azienda. La deregolamentazione del lavoro, ormai assunta a dogma dalla compagine liberista, potrà così trarre giovamento da un nuovo strumento. Nessuna tutela per i lavoratori “a distanza”, nessuna regolamentazione, e così si può leggere quella che il governo ha spinto come una misura ‘anti-contagio’ come la naturale prosecuzione dei processi di precarizzazione e deregolamentazione che dagli anni ’80 hanno accompagnato le normative sul lavoro. La digitalizzazione apre una via di fuga al capitale in un contesto sempre più competitivo e spietato.

È evidente come la presente crisi apra ampi spazi di manovra ai grandi capitali sia per assorbire i resti delle migliaia di aziende fallite, sia per liquidare in fretta i contratti più saldi e stabili a favore del precariato e della flessibilità. La pandemia assume quindi i contorni di un grande affare per coloro che se lo possono permettere. Davanti ai nostri occhi vediamo il capitale concentrarsi e farsi sempre più potente, saccheggiando la ricchezza personale della cittadinanza e trasformando i diritti in merce, in servizi da erogare dietro pagamento, diffondendo i suoi tentacoli in tutti gli spazi in cui non era ancora riuscito a penetrare. L’altra illusione ad essere crollata è quella del compromesso “socialdemocratico”. Quale sarebbe la mediazione, il terreno comune fra le istanze delle masse e coloro che sono disposti a continuare a perseguire il profitto a tutti i costi addirittura durante una pandemia globale? E chi dovrebbe assicurarsi che eventuali patti vengano rispettati? Lo Stato borghese? Lo stesso che ha aperto a forza di legge gli spazi per permettere l’aggressivo ingresso del mercato nella vita dei cittadini? La crisi che stiamo vivendo non lascia dubbi: serve il socialismo.
POLITICA”Non conosciamo ancora il volto dell’Italia che verrà, ma sappiamo con certezza, che le trasformazioni in atto la cambieranno profondamente. Il compito della politica, sarà guidare questa transizione. Nessuno può sentirsi esonerato da questa sfida di portata storica”. Con queste parole del 2 novembre il primo ministro Giuseppe Conte sintetizzata il compito dello stato durante l’epidemia Covid-19, o meglio durante i cambiamenti apportati alla società nel suo complesso dai processi catalizzati da essa. D’altronde sin da subito i media hanno parlato di “nuova normalità”, e i cambiamenti politici portati dalla crisi non fanno che confermare che “niente sarà più come prima”.Ma le sue parole nascondono anche altro. “Non conosciamo ancora il volto dell’Italia che verrà”. Questo è perché la gestione politica dipende dagli eventi, in un perenne stato emergenziale (presente da ben prima della scoperta del Covid-19) nel quale viene rifiutata ogni ipotesi di programmazione, ogni prospettiva che vada al di là della settimana. Avendo abdicato a qualsiasi  strumento monetario e dovendo sottostare per quanto riguarda la legislazione all’imperio delle strutture sovranazionali, dalla NATO all’Unione Europea, gli esecutivi, non che ne siano scontenti, non hanno alternative: gestire tutto al momento, adeguarsi ad ogni direttiva e pregare che il peggio colpisca durante il governo successivo. E’ esemplificativo come la prassi di gestione della cosa pubblica a colpi di decreti abbia persino trovato spazio nella cultura comune, con l’invenzione del “Decreto Milleproroghe” che ogni anno viviamo oramai come una consuetudine. Oramai le istituzioni hanno da anni interiorizzato il clima di emergenza perenne, di caos per nulla creativo che regna quando alla razionalità e all’analisi si sostituiscono la volontà di non pestare i piedi sbagliati e quella di favorire gli amici giusti. Il Parlamento conta molti posti occupati, ma ben pochi parlamentari.

Ma il Covid-19 non rappresenta che l’estremo arrivo di tutto ciò. Si può dire che finalmente il Parlamento ha rinunciato anche ai pro forma che lo vorrebbero come organo deputato al potere legislativo: è l’esecutivo, attorniato da eterie di esperti selezionati fra gli amici del principe, ad avere il ruolo supremo di legiferare. E lo fa tramite, ovviamente, decreti. Il “vizio” dei DPCM sarà molto difficile da rimuovere dalle nostre istituzioni. Ma assieme a questi, la cittadinanza ha imparato  a conoscere anche il “CTS”, il famigerato Comitato Tecnico Scientifico: una pletora di “tecnici” scelti arbitrariamente e lautamente pagati, responsabili di dare indicazioni sul da farsi al governo. È curioso vedere come nel dettato costituzionale, per quanto importi, non siano presenti né lo ‘stato d’emergenza’ né comitati di varia natura paralleli alle istituzioni e esenti da ogni controllo democratico. D’altronde ad un governo non dovrebbero servire tali strumenti, in quanto dotato di tutto l’apparato esecutivo, delle varie segreterie, sotto-segreterie, commissioni parlamentari e organi istituzionali. Ma nella svolta da Ancien Régime intrapresa dai governi Conte I e II, a base di “Stati Generali”, assolutismo e disprezzo classista per i “poveracci” che osano protestare, tutto questo non è contemplato. Anche qui il Covid-19 non ha che acutizzato le tendenze già ben presenti ormai da anni nella politica italiana quali il feticismo per tecnici ed esperti, la smania per il presidenzialismo, l’estromissione della democrazia dai processi decisionali e la tendenza tragicomica. Quale ridicola distopia è quella in cui le scelte di gestione dell’ordine pubblico vengono affidate ad un conclave di ‘esperti’.

Sulla categoria di ‘esperto’ andrebbero spese alcune parole. Ormai questo termine è stato svuotato di qualsiasi significato, ridotto ad essere un sinonimo di “individuo in probabile possesso di qualche certificazione scolastica che esprime un parere con il quale il governo concorda”. Così abbiamo trovato ‘esperti’ che sostenevano l’immunità di gregge, altri che volevano il lockdown duro in tutte le regioni, altri ancora che erano pronti a giurare sull’efficacia degli effetti di questa o quell’altra cura, esperti che additavano le discoteche come epicentro del contagio, altri che in odio avevano gli anziani, altri ancora che non sopportavano i giovani e la loro movida con tutti quegli abbracci, quei saluti, quelle risate che diffondono l’epidemia in maniera mortale. Insomma, al variare del tempo e dello spazio si trova un ‘esperto’ adatto a quello che si vuole dire.Tutto mentre raddoppiano le persone aiutate dalla caritas e il governo elargisce tramite lotterie virtuali bonus per monopattini elettrici e overboard, il tutto mentre presidenti regionali (oramai noti al pubblico come ‘governatori’) invocano la legge marziale, i lanciafiamme o più semplicemente sfottono i bambini a cui manca la scuola. D’altronde dall’inizio dell’emergenza ogni regione si è eretta a stato a sé, iniziando una serie di provvedimenti dove il rafforzamento dei partiti-signoria dei ‘governatori’ (Pensiamo a Zaia oppure a Toti) si sposava perfettamente con la tutela delle clientele locali. Tutto ciò ha impedito sia una risposta univoca coordinata sia una forma di collaborazione fra le regioni, impegnate a volte in veri e propri conflitti a bassa intensità, come quello che ha avuto per oggetto di contesa i turisti in entrata e uscita dalla Sardegna, divenuta in estate l’ennesimo focolaio pestilenziale. Regionalismo, presidenzialismo, autoritarismo: questo è quello che il Covid ci lascerà in eredità, questa è la direzione imboccata dalla Repubblica Italiana, questo è il nostro futuro.

RAPPORTI CON L’UNIONE EUROPEA E GEOPOLITICI

Assieme al significato di tante sigle mai viste prima, gli italiani, anzi gli europei, hanno scoperto una mattina una verità sconvolgente: i parametri europei sono totalmente arbitrari, e sono frutto di una scelta politica. Tutto ciò è stato tenuto “nascosto” per anni: guai a sforare il deficit o a mantenere un rapporto fra questo e il PIL “eccessivamente” negativo. Ma se già col Quantitative Easing di draghiana memoria si era capito, in teoria, che la scarsità monetaria non era dettata da condizioni materiali, il colpo (forse) definitivo all’impalcatura ideologica neoliberista è arrivato con le ipotesi ventilate di cancellazione del debito, di sospensione delle misure austeritarie e i piani di supporto diretto agli stati quali il ‘Recovery Fund’, ribattezzato “Next Generation EU”. In realtà di sostanza vi è ben poco: vaghe promesse, velate minacce, ricatti politici e certezza di un futuro peggiore del presente. Ma quello che conta da un punto di vista d’analisi complessiva è che sotto lo stress generato dalla crisi mondiale, l’Unione Europea ha dovuto cedere terreno. Ma questo fino a che punto? Se durante la prima ondata di Covid-19 si parlava di numerosi miliardi pronti a piovere magicamente nelle nostre tasche, con la Von Der Leyen che quasi giornalmente attraverso twitter annunciava agli italiani il prossimo arrivo degli aiuti, ora non rimangono che le palesi inimicizie fra gli stati, gli interessi divergenti e rapporti sempre più tesi. Parlando del ‘Recovery Fund’, possiamo vedere come la pretesa unità europea si sia subitamente destrutturata in campi contrapposti, riassumibili in 3 tendenze: la prima interessata a limitare il più possibile e ritardare gli aiuti verso l’Italia, con l’obiettivo di rastrellare dopo il crollo economico tutto ciò che potrebbe essere rimasto, rappresentata dai “paesi frugali”; la seconda, di cui esponente principale è la Germania, vorrebbe sì concedere aiuti, ma solo per garantire la sicurezza del mercato italiano e dei capitali investiti; infine vi è l’Italia stessa, genuflessa nel chiedere l’aiuto del padrone europeo e desiderosa di ogni centesimo concesso.

Si dice che Mussolini nell’attaccare una Repubblica Francese in procinto di arrendersi alle orde hitleriane abbia dichiarato di aver bisogno di qualche migliaio di morti per potersi sedere al tavolo delle trattative. Se il tavolo delle trattative viene trasformato da quello per ridisegnare i confini mondiali a quello per ricevere supporto durante la pandemia, appare chiaro come Conte abbia tutto l’interesse a mostrare un’Italia sempre più debole ed impestata. Solo presentando centinaia di migliaia di “positivi” e terapie intensive perennemente al collasso il governo italiano potrà strappare condizioni ed offerte più favorevoli. O almeno questo è quello che Conte spera. Tenendo questo scenario assolutamente plausibile in mente, appare chiaro come mai i criteri per certificare la positività al Covid-19 siano col tempo diminuiti e diverse irregolarità siano emerse nella comunicazione dei risultati dei tamponi. Facendosi apparire come “appestato”, il nostro governo può richiedere maggiore solidarietà internazionale. Non sembra comunque aver dato particolari frutti questa strada: il Recovery Fund, mazzata sui denti per il popolo lavoratore, rimane un miraggio lontano, mentre si allarga il fronte dei paesi e delle organizzazioni che chiedono a gran voce l’attivazione del MES (forse peggiore persino del primo) e, serve sempre ricordarlo, i nostri partner europei si facevano notare per bloccare forniture mediche destinate all’Italia, come nel caso della Germania, il tutto mentre Cuba inviava di sua sponte brigate mediche per aiutare le regioni più colpite del nostro paese. Da una parte il gretto egoismo di un sistema abbietto, dove si preferisce far mendicare al nostro stato qualche briciola piuttosto che ipotizzare riforme strutturali, dall’altro lato la solidarietà disinteressata di un piccolo paese socialista, che tendendo la mano ai malati schiaffeggia l’Unione Europea e il governo italiano, da sempre allineati con l’anticomunismo virulento degli Stati Uniti.

Anche i nostri “alleati d’oltreoceano” non hanno visto nel Covid-19 un ostacolo alla loro presenza militare sul territorio europeo, italiano in particolare, ma anzi hanno saputo approfittarne. “Defender Europe”, la più grande esercitazione della Nato degli ultimi 25 anni, si è tenuta sul nostro continente nonostante l’epidemia, nonostante i danni alle economie, nonostante le limitazioni per i cittadini comuni. Le provocazioni nei confronti della Federazione Russa e della Bielorussia devono continuare, costi quel che costi. Ma non solo uomini e mezzi: ad agosto, per voce di Hans Kristens, della Federazione degli Scienziati Americani, il pubblico italiano è stato  informato che le bombe stoccate sul suo territorio ammontano a quaranta, e altre venti saranno portate nelle basi di Ghedi ed Aviano nel giro di tre anni. Potenzialmente tutto ciò rappresenta un pericolo per la nostra salute molto più alto del peggiore scenario collegato al coronavirus, ma forse lo stato italiano deve ancora calcolare quante terapie intensive potrebbero essere occupati dai feriti di bombardamenti atomici, fallout nucleari e avvelenamento da radiazioni. 

CONCLUSIONE

Guardando alla realtà attuale abbiamo due strade possibili: credere che quello che stiamo vivendo sia un’emergenza, un momentaneo momento di difficoltà che sarà in poco tempo superato, per riconsegnare la quotidianità alla spensieratezza e alla prosperità, oppure rendersi conto che non stiamo vivendo nessuna piaga biblica inviata da un Dio arrabbiato, ma unicamente l’esplosione di contraddizioni che covavano da decenni, l’aprirsi di ferite causate da politiche miopi e illogiche. La prima strada è possibile per chi ha ancora qualche forma di garanzia, e quindi ora desidera unicamente un “uomo forte” capace di ispirare sicurezza e tenere a bada tutti i nuovi “sovversivi”, puntualmente etichettati come ignoranti, negazionisti, complottisti. La seconda è necessaria per chi ritiene la realtà attuale invivibile, e quindi vuole cambiarla in maniera profonda e radicale.

Tristemente, si nota come la stragrande maggioranza delle forze di quella risicata galassia dell’estrema sinistra si sia arroccata sulla prima posizione. Al grido di “restiamo a casa!” si sono accodati alle fila dei supporter del premier, impedendo di portare così avanti la lotta là dove questa era più possibile e necessaria. E così abbiamo visto proteste apparire in tutta Italia, ma disorganizzate, spontanee, a volte finanche confuse ed incerte. Ma la colpa non è da attribuire ai cittadini che hanno (e stanno) giustamente combattendo con i loro mezzi e in base alle loro capacità d’analisi e pratiche il governo e attraverso esso il sistema capitalista, ma sta in tutte quelle sigle, quelle personalità, quelle organizzazioni che hanno preferito scandalizzarsi per qualche tricolore, che dalla finestra hanno gridato all’untore, al camorrista, al fascista a seconda di cosa ordinava il telegiornale, di ha preferito agire da stampella del sistema liberale, magari propagandandosi come “rivoluzionario” e accusando gli altri di opportunismo, quando non direttamente di “rossobrunismo”. Le masse sono in moto. Non dipende da noi che osserviamo, ma dalle condizioni oggettive. Se manca la soggettività, esse andranno al massacro, o nelle braccia di qualche avventuriero reazionario. E’ il momento di fare una scelta.