DI LORENZO PADOVAN

La foto aveva fatto a suo tempo fatto il giro del web e di tutti i quotidiani: su una collinetta verdeggiante riposano, dopo un allegro simposio, i capoccia delle “6000 Sardine” e i Benetton accompagnati dal loro fotografo, Oliviero Toscani. Tutti vestiti bene, curati, sorrisi smaglianti indizio di una conversazione piacevole e proficua. Magicamente si rompe l’incanto. Il paesaggio bucolico lascia il posto alle immagini di ponti ed edifici crollati, operai sfruttati, indigeni cacciati e sterminati, urla, polvere e sangue. Si può scegliere di ignorare questo panorama infernale, interpretandolo come l’ennesima “sfida della globalizzazione” e continuando quindi la costruzione di un amichevole rapporto con altri imprenditori-macellai, così come è stato fatto dalle Sardine. Oppure non si può che vedere la continuità di un movimento “spontaneo” espressione delle ZTL e del “ceto medio riflessivo”, liberale e liberista nell’anima e quelli che sono i loro naturali padrini e punti di riferimento politico: coloro i quali uniscono una retorica pseudo-progressista ad una prassi schiavistica ed omicida, il tutto in nome del profitto. Inutile l’imbarazzante comunicato dei leader del movimento dopo l’incontro, giustamente contestagli in modo trasversale: chi ritiene determinati modelli di sviluppo (parlare di capitalismo spaventa i mercati evidentemente) non si incontra con i fautori di questo, ma anzi li combatte in maniera serrata, furiosa se serve. D’altronde non sorprende l’assenza delle Sardine dalla battaglia dei lavoratori partenopei della Whirlpool, o di quella contro il Muos, o la Tav, o ancora la trionfale accoglienza tributata al vessillo dell’Unione Europea nel momento in cui si caccia la Bandiera Rossa. Chi sta con i ricchi è nemico dei poveri. E le azioni delle Sardine sono la prova definitiva della loro scelta di campo.

La struttura dopo il crollo

Non dei semplici imprenditori-macellai, ma forse i peggiori che la storia italiana ricordi, impegnati in orribili crimini su più continenti, incuranti degli effetti della loro produzione, desiderosi solamente di aumentare il profitto, da loro cercato con manie feticistiche che rasentano il patologico. Faremo ora un breve riassunto di quelli che sono i tre peggiori crimini degli ultimi anni, quelli che hanno bucato gli schermi muovendo contro i Benetton una sana dose di rabbia popolare e di indignazione, che speriamo possa al più presto riprendere e portare alla cacciata di questi indegni esseri dal territorio nazionale e la confisca di tutti i loro beni.

Capo marcato Benetton e ordine legato alla stessa azienda rinvenuto fra le macerie
Presidio a favore del rilascio di Molnado

E’ il 24 aprile del 2013, siamo a Dacca, in Bangladesh. Nello specifico siamo nel quartiere industriale della città, Savar, dove si accavallano più di 100mila fabbriche. Al Rana Plaza, edificio di otto piani dedito alla produzione tessile, stanno andando avanti i lavori per la costruzione di un ulteriore livello. Nel già sovraffollato quartiere è oramai l’unico modo di aumentare la produttività quello di ingrandire verticalmente le costruzioni, senza troppo curarsi della sicurezza delle operazioni. All’interno vi sono più di 3000 persone quando alle 8:45 la struttura crolla, e dalle macerie fumanti si innesca anche un principio di incendio. I soccorsi andranno avanti fino alla metà di maggio, i morti estratti saranno 1129, più di un terzo dei presenti. In questa palazzina diverse erano le compagnie che trovavano la locazione ideale per il loro schiavismo imprenditoriale, retribuendo gli operai la bellezza di 28 dollari al mese, come testimoniò un documento dell’Human Rights Watch, e fra loro i più grandi erano i Benetton. Da subito la segreteria della società smentì ogni legame con i fatti, ma le testimonianze fotografiche e le interviste dei lavoratori superstiti parlano chiaro: i Benetton lì asservivano centinaia e centinaia di lavoratori, non curanti delle norme di sicurezza e della stabilità della struttura, preferendo scendere a patti coi palazzinari locali piuttosto che vedere una flessione dei propri profitti.

Cambiamo continente. Siamo in Sud America, in Patagonia per la precisione, in quella regione all’estremo sud dell’Argentina dove le praterie si alternano a fiordi e foreste pluviali. Qui vive, come in tutta la zona andina, il popolo Mapuche, che sopravvissuto alla furia dei colonizzatori, persecuzioni e liberismo economico, tenta di perpetuare la propria storia e le proprie tradizioni.

Nel 1991 interi ettari del territorio Mapuche vengono venduti alla famiglia Benetton, che, riconvertiti a pascolo, permettono l’allevamento di 260.000 ovini, i quali garantiscono ai macellai trevigiani ben un milione e mezzo di chili di lana annui, e di 16mila bovini destinati alla macellazione. I Mapuche scelgono di lottare per la propria terra. Dal 2005 iniziano occupazioni pacifiche dei territori acquistati dai Benetton. Nel 2014 l’Instituto Nacional de Asuntos Indígenas riconosce le occupazioni come legittime, la battaglia si inasprisce. I Benetton, non potendo sopportare questo attacco al (loro) sacro diritto di proprietà si organizzano con la polizia del regime liberista, e, formate vere e proprie squadre della morte composte da agenti e da guardie al servizio della famiglia, inizia la repressione, che sarà durissima e che porterà alla distruzione di numerosi insediamenti, moltissimi feriti da arma da fuoco, torture, rapimenti e persino omicidi. Fra questi è rimasto famoso il caso di Santiago Maldonado, argentino che venne rapito dalla polizia dopo un blocco stradale, massacrato, torturato e fatto ritrovare solo 78 giorni dopo la sua scomparsa, ucciso e gettato in un fosso, scena che Toscani non ha voluto immortalare in una dei suoi scatti “progressisti” ed “open minded”.

il Ponte Morandi crollato

Passiamo quindi alla strage a noi più vicina. E’ martedì 14 agosto del 2018, e da 19 anni la società Autostrade per l’Italia ha in concessione la gestione del tratto autostradale della A10, la quale, nella sua parte finale, sorvola(va) la Val Polcevera grazie al viadotto omonimo. Ovviamente la manutenzione sarebbe uno degli impegni presi da parte della società nei confronti dello Stato, ma questa costa, e i Benetton, che controllano ASPI tramite il gruppo Atlantia, giammai potrebbero anche solo che pensare a veder diminuire i propri guadagni. E così a discapito di pedaggi sempre più cari si ha un servizio sempre più scadente, intermittente, mortale. Si, mortale, perché alle 11.36 la sezione centrale del ponte crolla, uccidendo 43 persone, ferendone 11 e costringendone 566 all’evacuazione. Molti di questi vedranno le proprie case abbattute. Da subito, nel loro stile, i Benetton allontanano da loro le responsabilità, ma è ormai chiara la natura della tragedia, causata dall’avidità di un gruppo di malati imprenditori e dalla sottomissione di ingegneri e periti corrotti, che per anni, nel silenzio generale, hanno ritardato e diminuito le opere di manutenzione col preciso scopo di massimizzare i profitti e minimizzare le spese. Ovviamente ad un potere economico corrisponde un potere politico: nessuna revoca delle concessioni per i macellai, i quali tutt’ora continuano a guadagnare dai pedaggi liguri, con automobilisti oramai usi a schivare crolli improvvisi, frane e chiedere l’estrema unzione prima di mettersi in viaggio.

Nemmeno 10 anni, già col sangue di più di mille omicidi sulle mani. E questo senza considerare altre tragedie “minori”, poco conosciute o insabbiate, senza contare le vite spezzate dei parenti delle vittime, di tutti gli sfollati, di chi è stato cacciato dalla propria terra, di chi è costretto a lavorare in condizioni servili per pochi spiccioli al mese completamente privo di tutele. Questi sono i Benetton, questi sono gli interlocutori dei protetti della borghesia liberal italiana, questi sono i nemici del popolo. Circola da tempo una foto che ritrae Luciano Benetton, Toscani e alcuni capi-sardina davanti ad un muro. Speriamo di vederli nella stessa posizione presto, anche se magari con ben altra espressione.