DI LEONARDO SINIGAGLIA

Roma “superpotenza”

E’ culturalmente accettata da alcuni millenni la data del 21 aprile 753 a.C. come “Natale di Roma”, ossia la nascita della città che sarebbe stata per secoli al centro della storia del continente europeo e del bacino mediterraneo. Questa data, una fra le tante calcolate, fu proposta da Marco Terenzio Varrone sulla base di calcoli astronomici sulla vita e sulle opere dei due mitici gemelli fondatori, Romolo e Remo. Lasciando perdere i problemi di corrispondenza fra i vari calendari e quelli relativi alla storicità dei padri fondatori della città, è importante interrogarsi su cosa sia stata la prima Roma. Da un punto di vista storiografico sono molteplici le fonti che ci raccontano la nascita della Città Eterna, tutte attribuendole una storia differente. Generalmente è condivisa la più o meno lontana origine greca: dall’Acaia o dalle zone costiere dell’Anatolia si sarebbero mossi i progenitori dei romani, che insediati nel Latium Vetus avrebbero portato alla fondazione di Roma. (Dionigi di Alicarnasso, “Antichità Romane”, libro I, Tito Livio, “Ab Urbe Condita”, I, IV; Plutarco, “Vite parallele, Romolo” 3, 1 per citarne alcuni). Non abbiamo nessuna fonte diretta di questo periodo, però diversi ritrovamenti archeologici confermano la fondazione di un insediamento stabile sui colli romani proprio attorno alla metà dell’VIII secolo avanti Cristo. Dobbiamo affidarci quindi agli indizi che a noi sono giunti attraverso i millenni, magari comparandoli con le situazioni reali conosciute di altri popoli e dei loro ordinamenti arcaici per creare una rappresentazione verosimile di cosa dovrebbe essere stata la primissima Roma.

Non esiste un mito unico della fondazione: Romolo e Remo ora sono inviati dal padre a fondare una città secondo una pratica diffusa presso gli insediamenti sovrappopolati, ora la creano partendo da banditi e rifugiati. Quello su cui vi è una generale concordia è che dopo la morte di Remo e la creazione di un limes, confine sacro fra Roma ed il mondo esterno, essa si diede una forma politica gentilizia, basata originariamente su tre “gens” ripartite in trenta curie, su di un assemblea dei “pater familias” di ogni gens e su di un “rex” dotato di imperium, ossia il potere di condurre gli uomini in guerra, ed eletto con carica vitalizia, la quale però era annualmente rinnovata dal voto dei comizi curiati, l’assemblea di tutti i cittadini ripartiti in base alla propria curia. Questa costituzione non fu assolutamente una particolarità romana. Come espone Engels nel suo saggio “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”, una simile composizione politica era tipica di tutti i popoli durante l’età superiore dello stadio che lui definisce come “barbarie”. Spaziando dagli irochesi alle popolazioni europee quali celti, germani ed ateniesi e prendendo questi a campione, Engels mostra come l’ordinamento gentilizio fondato su capi militari eletti, assemblee popolari sovrane, proprietà a livello gentilizio o famigliare dei beni e consigli degli anziani fosse comune e diffuso in maniera omogenea, pur presentando alcune differenze date dal livello di sviluppo politico (unioni solide presso Roma ed Atene, malferme e parziali presso le varie tribù fra gli irochesi, i celti ed i germani) o dalla composizione famigliare. Roma ha però una particolarità rispetto ad Atene: le gens che fondano l’Urbe sono ad “imitazione” di quelle naturali, sono create ex novo mescolando locali ed immigrati, latini ed etruschi, prigionieri di guerra fuggiti e mercanti. Ne da notizia Strabone nel suo “Geografia”: “Dopo la fondazione [Romolo] unì gli uomini errabondi, indicò loro come luogo d’asilo il territorio compreso fra la sommità del Palatino e il Campidoglio, e dichiarò cittadini tutti coloro dei villaggi vicini che si rifugiassero lì” (Strabone, “Geografia”, V 3,2). Questo produsse la creazione di diverse gens, il che è possibile che abbia causato col passare degli anni la ripartizione fra patrizi e plebei rispettivamente come abitanti originari dotati di diritti politici e di privilegi e immigrati accorpati alla città ma non attivi politicamente. Anche la struttura bellica della prima Roma si ricollega perfettamente al modello gentilizio-barbarico, in cui non vi era una distinzione tra “civile” e “militare” e di conseguenza nemmeno un esercito fisso. I romani maschi erano sì raggruppati in base alla propria curia e alla propria gens nella “legione”, ma le azioni militari erano spesso spontanee e limitate al saccheggio e al rapimento delle donne delle popolazioni vicine. Di questo non abbiamo solo memoria col celebre “Ratto delle Sabine”, ma anche con episodi bellici documentati come la successiva battaglia del Fiume Cremera, combattuta fra guerrieri della Gens Fabia e gli etruschi di Veio, i quali volevano cacciare i romani che stavano saccheggiando le loro terre, il 13 febbraio 477. (Tito Livio, “Ab Urbe Condita” II, 48-49). Roma quindi appare come una città di “briganti” e pastori, abitata da gente appena convertitasi alla sedentarietà e che per molti secoli non sarebbe stata che una fra le tante città dell’Italia centro-meridionale, stretta fra la Dodecapolis etrusca e la Magna Grecia. Ci sarebbero voluti guerre, profondi mutamenti economici, sociali e politici oltre che la creazione di una macchina bellica ed amministrativa solida per arrivare a ciò che fu la Roma del II e del I secolo avanti Cristo, durante l’apogeo della Repubblica.

Roma, nata come città stato di pastori, vinte le guerre puniche, provincializzate l’Acaia e l’Asia, estendeva il suo dominio da un capo all’altro del Mediterraneo. Ogni guerra vinta portava verso la capitale centinaia di migliaia di schiavi, e liberava sui territori conquistati grandissimi terreni, i quali erano destinati ad ospitare i campi di qualche cittadino o il sito di una futura colonia abitata da romani o da alleati di questi. E’ utile per rendersi conto dell’estensione dello stato romano ricordare alcune date: 

-290 a.C. fine delle Guerre Sannitiche, pacificazione del Sannio

-241 a.C. vittoria romana nella Prima Guerra Punica, espansione nella penisola Iberica, in Sicilia, Corsica e Sardegna

-196 a.C. con la sconfitta del Regno di Macedonia inizia l’egemonia romana sulla Grecia

-146 a.C. fine della Terza Guerra Punica e repressione dell’ultimo moto indipendentista greco-macedonico, provincializzazione dell’Africa, dell’Acaia e della Macedonia.

-133 a.C Attalo III Re di Pergamo devolve con un lascito testamentario il proprio regno alla Repubblica, creando così la Provincia d’Asia

Si parla di centinaia di città, porti, mercati e di milioni di individui, i quali non erano che una parte di una ben più vasta rete di clientele politiche ed alleanze militari.

Plebe, cavalieri, patrizi

L’espansione di Roma si doveva non solo ad una volontà d’imperio militare, ma anche alla necessità socio-economica di fornire sempre nuove terre alla plebe urbana come valvola di sfogo, nuovi mercati a quelli che sarebbero divenuti i cavalieri e nuovi latifondi per la classe senatoria. Tramontata la fase della città stato, Roma si incamminò in un sentiero che la obbligò ad una continua espansione. Ovviamente i cambiamenti non si ebbero con una profonda rottura, ma piuttosto con il progressivo emergere di certi ceti, la creazione di classi contrapposte ed una conseguente evoluzione del potere politico. Secondo la tradizione, Servio Tullio, il cui vero nome era probabilmente Mastarna, fu il sesto Re di Roma, secondo della dominazione etrusca, salito al trono nel 578 a.C. A lui si attribuisce la formalizzazione del primo grande cambiamento affrontato dalla società romana dai tempi dell’abbandono del nomadismo: l’abolizione della costituzione gentilizia. Servio Tullio è passato alla storia non solo per le grandi opere infrastrutturali e monumentali che gli vengono attribuite, ma anche per la ripartizione del popolo romano in classi basate sul reddito, l’esenzione della classe più povera e numerosa dal servizio militare, la creazione di quattro tribù territoriali (Collina, Palatina, Esquilina, Suburrana). Ovviamente queste riforme non furono che la ratifica formale di un cambiamento già avvenuto nella società romana nei secoli che separano l’Ordinamento Serviano dalla fondazione, ossia una maggiore stratificazione sociale, la presa di coscienza della necessità di un esercito di tipo oplitico, la crescita della popolazione sia autoctona che immigrata, la perdita della funzione sociale e politica delle curie e delle gens originarie. Il cambiamento più grande e più imponente si ebbe in campo politico: dove prima tutti i romani approvavano o respingevano col loro voto le leggi, ora vi erano unicamente le classi divise in maniera iniqua in centurie ad esprimere la propria opinione. Vi erano in totale 193 centurie, le quali potevano esprimere un voto ciascuna. Esse erano ripartite in cinque classi più i proletari, ossia coloro che disponevano di un patrimonio inferiore agli 11.000 assi, la maggioranza degli abitanti di Roma. Questi erano raggruppati in una sola centuria, ergo disponevano unicamente di un voto, mentre la prima classe, l’elite economica della città con un reddito superiore alle 100.000 assi, era ripartita in ben 80 centurie. Le votazioni procedevano fino all’ottenimento della maggioranza assoluta, ossia 97 voti. Bastava l’accordo delle prime due classi, della ricchissima minoranza aristocratica, per decidere delle sorti della cittadinanza. Da questa divisione fra ceti abbienti ammessi alla vita politica e grandi masse estranee ad essa nacquero i ceti contrapposti del patriziato e della plebe. Come per la fondazione della città, vi sono diverse per quanto riguarda la nascita di questi due gruppi sociali. Plutarco fa derivare il patriziato dai primi “patres” nominati da Romolo per comporre il Senato, le cui cariche sarebbero divenute nel tempo appannaggio di un gruppo ristretto di famiglie (Plutarco, “Vita di Romolo” 13, 3-4), e probabilmente così fu.

Le cariche magistratuali erano così appannaggio solamente di una piccola parte della popolazione, la quale godeva non solo di privilegi politici, ma anche economici, sociali e religiosi. Solo ai patrizi era consentito divenire aruspici e conoscere il calendario, come solo loro potevano essere dotati di imperium. Essi godevano inoltre di un trattamento di favore nell’assegnazione dell’“ager publicus”, ossia il terreno sottratto ai nemici dopo una guerra, che diveniva di proprietà dello stato romano e, diviso in lotti, veniva distribuito fra i cittadini o utilizzato per fondare una città. Il gruppo detentore di questi privilegi si tutelava dalle infiltrazioni promuovendo una ferrea endogamia, impedendo così qualsiasi commistione famigliare, e poneva sistematicamente ai suoi servigi la plebe attraverso l’elargizione di crediti impossibili da rimborsare che portavano alla schiavitù, prevista dalla legge come forma di compenso alternativa alla restituzione del capitale. La situazione si protrasse immutata per circa un secolo dall’introduzione delle riforme serviane, e sopravvisse anche alla cacciata dell’ultimo Re, Tarquinio il Superbo. La neonata Repubblica apportava un unico cambiamento alla struttura socio-politica: la magistratura suprema non sarebbe stata più individuale e vitalizia, ma collegiale ed annuale. Dal 509 a.C. sarebbero stati eletti ogni anno due Consoli, massime autorità dello stato, ovviamente scelti all’interno della classe patrizia. Appena quindici anni dopo, complice la ripartizione ineguale dei frutti dell’espansione nel Lazio, si arrivò però al punto di rottura con la prima “Secessio Plebis”. Dopo una prima rivolta dei debitori nel 495 a.C., la parte plebea dell’esercito arruolato per combattere i razziatori volsci, equi e sabini si ritirò sul Monte Sacro per protestare contro la mancata realizzazione delle promesse fatte dai consoli dell’anno precedente, i quali avevano garantito la sospensione dei debiti dei soldati e l’immunità delle loro famiglie di fronte ai creditori (Tito Livio, “Ab Urbe Condita” 2,24). L’esercito smobilitò quando fu raggiunto un accordo, ossia la creazione di una carica politica riservata ai plebei e garante degli interessi di questa classe: il Tribunato della Plebe. Ad essi era concessa tramite la lex sacrata l’inviolabilità e la sacralità, il che significava la condanna a morte per chiunque avesse osato colpire i Tribuni, oltre che la facoltà di intervenire giuridicamente a favore di qualsiasi plebeo, di porre il veto sulle leggi ritenute ostile alla plebe, far arrestare chiunque e di convocare i “concilia plebis”, ossia la riunione di tutti i plebei, e più tardi anche il diritto di convocare il Senato. Queste prerogative furono ottenute progressivamente nel corso dell’epoca repubblicana. Lo scontro fra gli opposti ceti andò avanti per diversi secoli, con un patriziato all’inizio ostile a qualsiasi concessione ma via via sempre più incline a trovare soluzioni diplomatiche. E’ importante vedere come questa contrapposizione, spesso violenta, fu fonte di progresso per la società romana. Fu proprio la lotta delle classi subalterne a garantire periodi di maggiore giustizia, progresso e sicurezza: “[…] sono in ogni Repubblica due umori diversi, quello del popolo e quello de’ grandi: e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente di può vedere essere seguito in Roma; […] li buoni esempli nascano dalla buona educazione, la buona educazione dalle buone leggi, e le buone leggi da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano; perché chi esaminerà bene il fine d’essi, non troverà ch’egli abbiano partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del bene comune, ma leggi e ordini a beneficio della pubblica libertà. […] E se i tumulti furono cagione della creazione de’ Tribuni meritano somma laude; perché oltre al dare la parte sua all’amministrazione popolare, furono constituiti per guardia della libertà romana […]” ( Niccolò Machiavelli, “Note sulla prima Deca di Tito Livio”, I, IV)

Tra 451 e 450 a.C. una commissione presieduta da Appio Claudio fu incaricata di creare le 12 tavole, la prima raccolta di leggi scritte del mondo romano, acconsentendo così alla richiesta plebea di avere leggi note e consultabili in qualsiasi momento. Pur senza intaccare eccessivamente i rapporti di forza, le leggi qui contenute miglioravano la situazione dei plebei, attenuando il controllo su di essi esercitato dai creditori patrizi. Pochi anni dopo, nel 444 a.C., i plebei poterono accedere alle magistrature dotate di imperium, non già in qualità di Consoli ma come tribuni militari, che da quest’anno fino al 367 a.C. affiancheranno nella gestione del potere i magistrati supremi, per ora ancora patrizi. Nel 367 a.C. si ebbe infatti la più grande vittoria plebea con l’emanazione delle leggi Licinie Sestie, le quali sancivano l’accesso dei plebei al Consolato, che veniva reintegrato nella sua forma pre-444 a.C., la possibilità di dilatare nel tempo la retribuzione del credito ricevuto e, misura fondamentale per le vicende future, l’individuazione di un tetto massimo di “ager publicus” che fosse possibile possedere e di un numero limite di bestiame da far pascolare sopra questo. La lotta era stata dura: vi erano state diverse “secessio plebis” dopo la prima, scontri a volte sanguinosi e instancabile lotta politica, ma dopo il 367 a.C. la strada era in discesa per la plebe: nel 326 a.C. la legge Poetelia  Papiria eliminò con effetto retroattivo la schiavitù per debiti, affrancando tutti i debitori, e nel 287 a.C. la lex hortensia resi vincolanti per tutto il corpo sociale le deliberazioni dei “concilia plebis“, mentre già nel 445 a.C. era stato abolito il divieto di matrimonio fra patrizi e plebei.  Grazie a queste misure tramontava l’antica aristocrazia patrizia a favore di una classe dirigente mista raggruppante anche i facoltosi plebei. Il braccio di ferro non fu vinto politicamente dall’azione rivoluzionaria delle masse sfruttate, ma dalla necessità da parte delle élite patrizie di scendere a patti con l’emergente ceto dei plebei arricchiti, i quali stavano diventando sempre più influenti socialmente e necessari all’economia romana.  In seno all’alta società romana si aprì col tempo un conflitto dato da due diversi tipi di ricchezza: quella mercantile e quella agricola. Nonostante le leggi Licinie Sestie, l’espansione romana dei secoli III e II avanti Cristo portò alla creazione di latifondi sempre più grandi, ottenuti ora tramite l’acquisto dei terreni dei piccoli proprietari ora tramite l’elusione delle norme relative all’assegnazione dei terreni conquistati. Contemporaneamente le nuove rotte commerciali fecero la fortuna del ceto mercantile, che si trovò a gestire non solo capitali sempre più ingenti, ma anche enormi masse di schiavi ed altrettanto grandi quantità di merci. I differenti interessi si manifestarono anche in opposte direttrici d’espansione: una marittima e volta al Mediterraneo voluta dal ceto mercantile, di cui esempi sono le guerre Pirriche e Puniche, l’altra continentale e volta alla conquista di terreni per campi e pascoli, che si risolse nelle campagne verso i territori gallici a Nord. L’enorme afflusso di schiavi non fece solo la fortuna dei mercanti di uomini,  ma anche dei latifondisti, i quali poterono godere di mano d’opera a bassissimo prezzo e ad alta disponibilità, il che causò il progressivo aumento di un proletariato urbano composto sia da ex-lavoratori liberi agricoli che da piccoli proprietari costretti a vendere, il quale divenne fonte di grandi tensioni sociali. L’aristocrazia terriera, pur attaccata duramente, resisteva ai vertici dello Stato: nel 218 a.C. con la lex Claudia si esclusero dal Senato tutti i possessori di navi commerciali, chiudendo l’accesso all’assemblea a tutto il ceto mercantile. Questo però godeva ormai di potere immenso, dato non solo dai propri capitali, ma anche dai servizi resi allo stato tramite le società dei publicani, ai quali la Repubblica appaltava la riscossione delle imposte e i lavori pubblici. Una mediazione si raggiunse nel 129 a.C. con la creazione dell’Ordine dei Cavalieri, nominati fra i cittadini più ricchi non aventi i requisiti per divenire senatori. A questi si conferiva il secondo posto nella piramide sociale, il che era reso manifesto da particolari simboli e gradi militari, come il tribuno angusticlavio e il cavallo donato agli appartenenti al ceto equestre dallo Stato. 

Le tentate riforme dei Gracchi

Se la plebe “grassa” era riuscita a raggiungere l’accordo col patriziato volto al riconoscimento da parte di questi del potere dei nuovi ricchi, tanto non valeva per la stragrande maggioranza dei plebei, ancora vessati da un sistema sempre più oligarchico ed ostile a qualsiasi mutamento. Le condizioni generali per i piccoli proprietari e la plebe urbana si erano fatte col tempo sempre più insopportabili. Questi strati sociali avevano inoltre perso la possibilità di qualsiasi rappresentanza politica, in quanto la “grande borghesia” romana, ottenute le riforme desiderate, era celermente passata dalla parte dell’ordine e della reazione. Il loro scontento andava a sommarsi a quello degli alleati italici, legati a Roma grazie a conquiste di questa o da sottomissioni preventive. Ai supplizi antichi, debiti insolvibili e appropriazione indebita di terre, si aggiungevano i più recenti, ossia la concorrenza delle grandi ville schiavistiche e le lunghe campagne militari sempre più lontano dalle proprie case. I contadini erano costretti a chiedere prestiti a tassi altissimi per sostenere i costi della loro assenza durante il periodo bellico (il servizio militare non era ancora retribuito in maniera fissa, e i piccoli proprietari fornivano il nerbo numerico dell’esercito), e tornati da esso spesso erano costretti a vendere allo stesso creditore il proprio terreno per pagare il debito o perché non più in grado di sostenere la famiglia. Le conquiste militari non portavano grandi ricchezze se non nelle mani di chi già ne possedeva, e questo spesso ricorrendo a frodi, utilizzo di prestanome oppure palese abusivismo. Il contadino e la sua famiglia, persa ogni ricchezza materiale e con in tasca solo i pochi soldi derivati dalla (s)vendita del podere andavano a cercar fortuna nel centro del Mondo: Roma. La popolazione della città crebbe vertiginosamente, arrivando a contare al censimento del 135 a.C. ben 317.993 abitanti. La maggioranza di questi vivevano non nelle ampie e sontuose abitazioni del patriziato, ma in sovraffollati edifici a più piani, le insule, le cui stanze erano spesso affittate a più famiglie, e la cui espansione verticale era affidata a pericolanti costruzioni lignee spesso distrutte da incendi. Gli abitanti di queste vivevano un’esistenza totalmente precaria e “flessibile”, procacciandosi da vivere con piccoli lavori mal pagati, con l’elemosina e divenendo “clienti” dei patrizi. Quest’ultima condizione era particolarmente sfruttata dall’aristocrazia romana, in quanto permetteva la creazione di “milizie” da sfruttare come arma politica e per esercitare il controllo sulla città. Il cliente otteneva dal proprio patrono protezione legale e sostentamento alimentare in cambio della fedeltà assoluta. Vi erano inoltre distribuzioni, gratuite o a prezzo politico, di grano ed olio, generalmente occasionali. Non solo impoverimento diffuso e problemi di ordine pubblico, ma anche crisi militare: con la creazione di proletari l’esercito perdeva nuove reclute. Infatti, come già stabiliva l’ordinamento serviano, i “capite censi” erano esentati dal servizio militare, i costi del quale erano per loro insostenibili. Armi ed equipaggiamento erano a carico del singolo soldato, e nonostante il ripetuto abbassamento della soglia di reddito che separava gli “absidui” dai proletari, sempre meno uomini avevano le carte in regola per essere arruolati. In questo contesto di fortissime tensioni sociali e di progressiva sottomissione dei ceti popolari i Tribuni della Plebe rappresentavano l’unica forma di controllo “democratico” della popolazione sullo Stato. Questi, sempre di famiglia abbiente in quanto le spese per la campagna elettorale erano ingenti, non rappresentavano spesso gli interessi delle fasce più deboli, quanto della plebe arricchita, la quale sfruttava la rabbia dei poveri aizzandoli con misure tanto velleitarie quanto demagogiche. Nonostante ciò si ebbero seri tentativi di riforma volti a cambiare i rapporti di forza e a garantire al popolo un’esistenza più serena.

Il 10 dicembre 134 a.C. Tiberio Sempronio Gracco venne eletto al Tribunato dalla Plebe per l’anno successivo. Imparentato da parte di madre con Scipione l’Africano, Tiberio venne in amore alla cittadinanza romana dopo che ottenne la liberazione di 20.000 soldati romani tenuti prigionieri dai numantini. Il suo intervento diplomatico ottenne reazioni opposte: i soldati e le loro famiglie salutarono l’allora questore come salvatore, mentre il Senato, indignato per l’accordo da esso ritenuto umiliante per Roma, rifiutò e denunciò il trattato ottenuto da Tiberio Gracco (Plutarco, “Vita dei Gracchi” 7). Egli aveva avuto esperienza sul campo non solo della crisi dell’esercito romano, ma anche della povertà delle campagne e dei soprusi dei latifondisti. Fu subito chiaro il suo programma: confiscare e ridistribuire i terreni ottenuti illegalmente, applicazione della legge Licinia Sestia relativa al limite massimo di terreno possedibile. Varò quindi una legge, la Lex Sempronia Agraria, con la quale si voleva intervenire duramente per ripristinare la piccola proprietà terriera. La massima estensione di “ager publicus” possedibile era fissata a 500 iugeri (approssimativamente 1,25 chilometri quadrati), ai quali ne erano aggiunti 150 per ogni figlio senza però poter superare i 1000 iugeri totali. I terreni eccedenti sarebbero stati confiscati dallo Stato e, divisi in lotti di 30 iugeri, sarebbero stati distribuiti in parte ai cittadini nullatenenti e in parte agli alleati italici, lotti la cui proprietà sarebbe stata ereditaria ed inalienabile. In verità la proposta originale di Tiberio era ben più moderata nell’esecuzione, prevedendo indennizzi da versare agli occupanti abusivi in cambio dell’abbandono del terreno, ma la legge, respinta dal veto del collega filo-aristocratico Marco Ottavio, venne radicalizzata (Plutarco, “Vita dei Gracchi” 9-10). Ovviamente la nobiltà terriera, sia romana che italica, si schierò in maniera compatta e risoluta contro la proposta di legge, giudicata, come riporta Plutarco, atta a “sovvertire lo stato e causare una rivoluzione generale” (Plutarco, “Vita dei Gracchi” 9,3).  Tiberio Gracco si appello quindi al popolo per votare la destituzione del collega tribuno in quanto egli per ben tre volte aveva posto il veto sulla legge, andando così contro gli interessi della plebe. La destituzione venne approvata dai comizi tributi, ma non senza interferenze e tentativi di sabotaggio e prospettive omicide (Plutarco, “Vita dei Gracchi” 10, 1-3). Intanto però i veti e le discussioni avevano messo in pericolo l’attuazione della legge, in quanto il mandato tribunizio sarebbe finito prima di una sua completa esecuzione. Per questo, violando la norma stabilita dalla legge Villia Annalis del 180 a.C., Tiberio si candidò nuovamente al tribunato per l’anno successivo, sostenendo, intanto, che i territori ereditati grazie al lascito testamentario di Attalo III avrebbero dovuto essere redistribuiti fra la plebe. Subito la nobiltà senatoria sfruttò l’occasione per tacciare il Tribuno di mirare alla Tirannide, accusa particolarmente infamante presso i romani, tradizionalmente avversi alla monarchia e fieri del proprio ordinamento repubblicano. La resa dei conti però arrivò solamente il giorno delle elezioni, quando i sostenitori della fazione aristocratica sfruttarono l’agitazione diffusa presso gli avversari, informati dell’esistenza di un complotto mirato all’omicidio del candidato, per marciare sul Campidoglio armati guidati dal Pontefice Massimo Publio Cornelio Scipione Nasica. Qui avvenne una terribile strage in cui vennero massacrati più di trecento romani sostenitori di Tiberio Gracco, e dove lo stesso fu ucciso a bastonate. Il cadavere del Tribuno, non ancora trentenne, venne gettato nel Tevere, estremo gesto di disprezzo degli ottimati verso il campione della causa del popolo. La cittadinanza era in tumulto per l’atto criminoso appena compiuto, e il Senato non poté che promettere la futura attuazione della legge promossa da Tiberio Gracco ed esiliare Nasica. La situazione restò però pressoché immutata negli anni seguenti, tanto che nel 123 a.C. venne eletto per l’anno seguente Tribuno il fratello di Tiberio, Gaio Sempronio Gracco, che, come riporta Flavio Carisio nella “Ars grammatica”, volle portare a termine ciò che era stato iniziato dieci anni prima: “Pessimi uomini hanno ucciso il mio ottimo fratello. Ecco! Ora vedrete quanto io gli somigli!”. Caio, più giovane di Tiberio di ben nove anni, aveva passato un lungo periodo dopo la morte del fratello lontano dalla politica. Nominato questore nel 126 a.C., fu mandato in Sardegna dal Senato sia per allontanarlo da Roma che per aprire la strada a future accuse di concussione, strumento politico che sarà usato anche in futuro. Infatti, tornato in città, subito fu portato in giudizio con l’accusa di comportamenti illegali, malversazione e corruzione. “Sono rimasto in provincia in quanto ritenevo fosse utile a voi, e non perché lo ritenessi proficuo alla mia ambizione: non mi sono avvicinato a nessuna taverna, e non ho lasciato oziare nemmeno i giovani di immacolata bellezza, mentre i vostri figli erano più interessati ai banchetti che all’esercito. E in provincia ho vissuto in modo che nessuno potesse affermare che io avessi ricevuto in dono anche un soldo solo o effettuato spese personali. Ho trascorso ben due anni nella provincia, e se una prostituta si è introdotta in casa mia, o se lo schiavetto di qualcuno è stato sedotto da me, potete ritenermi la persona più scellerata e depravata del mondo; ma considerando che mi sono così castamente tenuto alla larga dai loro servi, potrete rivalutare il modo in cui voi credete io mi sia comportato con i vostri figli! E così, o Quiriti, quelle borse che all’andata erano piene d’argento, al mio ritorno a Roma le ho riconsegnate vuote, mentre altri hanno riportato a casa piene di soldi quelle anfore che si erano portati dietro piene di vino” (Gellio, “Noctes Atticae”, 15,12). Le accuse caddero, e Gaio ottenne riuscì a candidarsi e a vincere. Furono molte le leggi fatte approvare da lui nel corso del suo mandato, nel quale si dimostrò politicamente più scaltro del fratello, riuscendo, senza mai rinnegare i propositi di riforma sociale, a garantirsi l’appoggio di una parte del ceto equestre e degli italici. Misure come la Lex Iudiciaria, che dava ai cavalieri la prerogativa esclusiva di essere giudici per quanto riguarda i casi di concussione nelle province, erano indirizzate a dividere il campo aristocratico, soffiando sul fuoco delle mai sopite rivalità fra la nobiltà senatoria e i cavalieri. La legge di Tiberio, mai abrogata, venne rinnovata, e per assicurarsi una sua sicura attuazione fece approvare una legge che consentiva la rieleggibilità dei Tribuni della Plebe. Furono intanto garantite grazie alla lex Frumentaria distribuzioni di grano a prezzo politico per la plebe, mentre grandi deduzioni coloniarie in tutti i territori della Repubblica furono annunciate. Era imperativo infatti riuscire ad allontanare quanti più proletari possibili dalla capitale e garantire a quelli rimanenti la possibilità di vivere senza doversi condannare al servaggio. Ottenuto nuovamente il Tribunato per il 122 a.C., Gaio si fece promotore di un disegno di legge ardito e dalla difficile realizzazione: la concessione della cittadinanza agli italici. Questi infatti, pur essendo gravati da pesanti obblighi nei confronti di Roma, non godevano i privilegi dei cittadini dell’Urbe. Il “diritto latino”, al quale erano legati, si basava fondamentalmente su tre “ius”: “connubii”, il quale sanciva la possibilità di contrarre matrimonio con un cittadino romano, “commercii”, che decretava il diritto a commerciare con Roma, e “migrandi”, grazie al quale il latino poteva trasferirsi a Roma e qui esercitare il diritto di voto. Seppur in condizione privilegiata rispetto ai “peregrini”, gli stranieri, alle varie comunità italiche era tolta qualsiasi possibilità di incidere veramente nella politica della Repubblica. L’estensione della cittadinanza fu profondamente osteggiata dal Senato, ma anche da parte della plebe, egoisticamente convinta di dover impedire ad altri di poter godere dei medesimi, magri, privilegi. Fu utilizzato nuovamente un altro Tribuno per screditare il lavoro del Gracco. Livio Druso fece ricorso alla demagogia e a promesse irrealizzabili per screditare presso il popolo Gaio, per minarne la popolarità e l’autorità. In un destino che sembrava dover ricalcare il triste fato del fratello, Gaio si avviò verso il Campidoglio, dove avrebbe difeso la sua proposta di legge. Ne nacquero feroci scontri che permisero al nuovo console, Lucio Opimio, di innescare una feroce repressione, che portò alla morte di Gaio Sempronio Gracco e di tremila suoi partigiani asserragliati sul colle Aventino. Era ormai chiaro che nessun tentativo di riforma legale sarebbe stato possibile. 

La Guerra Sociale

Gaio Gracco fu ucciso a causa del suo ultimo “affronto” all’aristocrazia romana: la concessione della cittadinanza agli italici. Nonostante la repressione violenta di tale provvedimento la situazione rimase tutt’altro che distesa. Il conflitto latente covò per diversi anni, fino all’ulteriore prova della manifesta volontà della nobiltà romana di preferire il sangue all’estensione dei diritti. “La morte di Druso scatenò la guerra italica che covava già da molto tempo” (Velleio Patercolo, “Historiae Romanae” 2,15). Questa volta l’omicidio politico non mise a tacere l’opposizione, ma anzi diede il segnale per la rivolta. Marco Livio Druso, figlio del Livio Druso avversario politico di Gaio Gracco, dopo aver inizialmente parteggiato per l’ala senatoria, si rese presto conto dell’insostenibilità della situazione. Nel 95 a.C. i Consoli in carica, Lucio Licinio Crasso e Quinto Muzio Scevola, fecero approvare una legge, detta “Licinia Muzia”, con la quale si inaspriva la repressione contro gli italici non dotati di cittadinanza a Roma e nelle colonie e si creava un tribunale speciale dedito al giudizio di coloro che godeva abusivamente dei “cives” romani a pieno titolo. Questa misura comportò l’espulsione di moltissimi italici dai centri abitati, e contribuì ad aumentare la tensione, che arrivò al picco con la totale chiusura da parte del Senato nei confronti della legge proposta da Livio Druso, che non venne nemmeno votata. Nel novembre del 91 a.C. alcuni sicari assassinarono il Tribuno. Livio Druso morì perché circondato da nemici: non solo i patrizi romani, ma anche i possidenti italici, timorosi di possibili redistribuzioni e comunque di veder mutato lo status quo in maniera imprevedibile. L’insurrezione scoppiò spontaneamente.

Alla notizia della morte del loro amico e difensore, i cittadini ascolani, approfittando dei ludi del 90 a.C., uccisero le autorità della Repubblica in loco, in particolare il Pretore ed il suo Legato. Marco Velleio Petercolo, autore che scrisse alla fine del I secolo a.C., tramanda come assieme alle alte cariche furono uccisi più di tremila cittadini romani (Velleio Petercolo, “Hisotriae Romanae” 2,15). Situazioni analoghe si verificarono in tutta l’Italia centro-meridionale, senza tuttavia coinvolgere la totalità delle popolazioni non romane: mentre piceni, sabini, marsi, frentani, sanniti ed irpini insorgono, rimangono nell’incertezza le città etrusche ed umbre, le cui oligarchie godevano di condizioni favorevoli nei confronti di Roma. Rimasero tendenzialmente estranei al conflitto i greci d’Italia, mentre i popoli campani, lucani e dell’Apulia si schierarono diplomaticamente con i ribelli. Il dominio dell’Urbe era quindi insidiato non lungo un fronte continuo ed unico, ma piuttosto da molte direzioni e con focolai di lotta sparsi a macchia di leopardo per tutta la Penisola. Gli Italici, consci che per opporsi al potere di Roma ci sarebbe voluta l’unione e la coordinazione delle loro varie forze, crearono una Lega che prese il nome di “Lega Italica”, ponendo la loro capitale nella città di Corfinium (spostata poi ad Isernia) e mutuando dalla città nemica il sistema di governo e le cariche politiche. La Lega iniziò a battere propria moneta e ad organizzare diversi eserciti, posti sotto il comando generale dei consoli Poppedio Silone, marsicano, e Caio Papio Mutilo, sannita. A contrapporsi a loro vi erano Lucio Giulio Cesare e Publio Rutilio Lupo, che disponevano di forze grossomodo numericamente simili. Il primo periodo della guerra fu estremamente favorevole per gli italici, i quali riuscirono a respingere i romani assedianti Ascoli e ad infliggere loro pesanti sconfitte ad Alba Fucente e presso il fiume Toleno. Andò invece alle legioni della Repubblica la battaglia di Acerra, nella quale si distinse Lucio Cornelio Silla, futuro dittatore. L’anno successivo fu l’anno del contrattacco romano, con la conquista non solo di gran parte delle città conquistate dagli italici, ma persino della stessa Ascoli, culla dell’insurrezione. La guerra durò ancora per parte dell’88 a.C. contro gli irriducibili sanniti, poi domati dalla furia romana.

La vittoria della Repubblica non fu ottenuta unicamente grazie alle doti militari dei suoi comandanti o al coraggio delle sue truppe, ma anche grazie ad una perspicace offensiva politica volta a dividere il campo avversario: già nell’89 a.C. il console Lucio Giulio Cesare fece approvare con un plebiscito una legge, la lex Iulia, con la quale si concedeva la cittadinanza romana agli italici non ribellatisi e a quelli dimostratisi valorosi sotto comando romano, estesa poi a tutti i soci filo-romani l’anno successivo dalla lex Calpurnia. Nell’89 a.C. la lex Plautia Papiria causò l’abbandono delle armi da parte di numerosi insorti, in quanto premiava coloro che si sarebbero arresi entro due mesi con la cittadinanza romana, mentre, sempre lo stesso anno, si estendeva la cittadinanza latina a tutti gli abitanti delle terre a sud del Po’. Nonostante il fallimento della ribellione degli italici, Roma era stata costretta a concedere la cittadinanza ai propri alleati. E’ con questo conflitto che si costituì per la prima volta l’idea di Italia come insieme comunitario dei popoli abitanti la penisola. Importante è notare come l’Italia non nacque già su basi etniche, religiose o culturali, ma come comune aspirazione di libertà. Nacque contro la tirannia dell’aristocrazia romana e i suoi affiliati locali, come unione dei popoli oppressi da un comune nemico. L’opposizione è ben rappresentata anche dalle monete giunte fino a noi passando attraverso i secoli. Su di esse vediamo rappresentati il giuramento degli Italici dopo l’assassinio di Livio Druso, oppure il Toro -simbolo degli Italici- che vince la Lupa romana. L’origine della nazione italiana  non va quindi ricondotta ad un fatto etnico di parentela o ad uno meramente geografico di vicinanza, ma nella costruzione di un “demos”, una comunità politica che si scoprì tale in quanto composta da soggetti egualmente sottoposti al dominio parassitario delle élite romane e private degli strumenti “parlamentari” per far valere le proprie ragioni, unita dalle medesime aspirazioni di libertà e di rinnovamento sociale. E’ ovvia l’opposizione di questa verità storica alla propaganda nazionalistica e sciovinista, che volle rappresentare e rappresenta l’Italia come “fatto etnico”, basando l’identità nazionale su quella “razziale”. Questa concezione del tutto sbagliata è in aperto contrasto con la realtà dei fatti, è una mistificazione di ciò che che è sempre stato l’Italia: crogiolo di etnie, culture, vicende sviluppatosi in maniera proficua nel corso dei secoli riuscendo a creare una comunità nazionale fondata principalmente su valori e principii condivisi.

La rivoluzione di Lucio Sergio Catilina

Durante il conflitto muove i primi passi in seno all’esercito un giovane soldato, Lucio Sergio Catilina, che a fine conflitto si ritrova agli ordini del console in carica, Lucio Cornelio Silla. Siamo nell’88, e il Re del Ponto Mitridate ha pianificato di cacciare i romani dalla regione. Diede inizio così all’invasione della Grecia e delle province anatoliche. Il Senato incaricò il console Silla di partire immediatamente per ricacciare nei suoi confini il nemico, ma non è di questo avviso il tribuno della plebe Sulpicio Rufo, il quale fa approvare dai comizi una legge che rimuove Silla dal comando per porre al suo posto Gaio Mario, diverse volte console ed eroe dei Campi Raudi. Silla, indispettito dalla manovra della plebe, marcia su Roma, e fa strage del partito dei popolari prima di partire per l’Oriente. Inizia così un sanguinosissimo conflitto civile che si concluderà con il ritorno di Silla a Roma, una nuova ondata di stragi e leggi volte a distruggere il potere dei tribuni della plebe. Silla, divenuto dittatore, rinuncerà alla sua carica nel 79 a.C, l’anno dopo morirà.

Questo conflitto, che ebbe indubbiamente anche un aspetto politico, rappresentò principalmente lo scontro tra due grandissime personalità, Mario e Silla, le quali avevano radunato intorno a sé grandissime masse di sostenitori. Catilina si trovò militante del partito sillano, sicuramente il più conveniente per uno della sua classe sociale, ma ad esso non partecipò da un punto di vista politico, limitandosi ad ubbidire ai suoi superiori in quella che per lui, giovanissimo, doveva apparire come una guerra non diversa da quella combattuta in Oriente. E’ interessante evidenziare come all’interno di questo conflitto, dopo la morte di Gaio Mario, un suo ufficiale, Quinto Sertorio, diede vita ad un sodalizio fra i populares romani e gli indigeni nelle provincie iberiche nelle quali si era ritirato. Qui, dopo aver attuato importanti provvedimenti a sostegno delle popolazioni locali ed aver espulso i sillani dalla ragione, venne assassinato da una congiura di palazzo organizzata da elementi romani conservatori.

Avendo i requisiti anagrafici, l’anno della morte di Silla Catilina viene eletto questore, entrando così in Senato. Sarà l’inizio di una fulminea carriera politica, che lo porterà a salire tutti i gradini del “cursus honorum” in poco più che un decennio. Sarà legato in Macedonia al tempo dello scoppio della seconda guerra Mitridatica. Nello stesso periodo sarà processato ed assolto per un’accusa di violenza sessuale ai danni di una vestale imparentata con Cicerone. Questa accusa, frutto di una mossa politica volta a contrastare l’ascesa di un carismatico trascinatore, sarà in seguito sfruttata dalla propaganda dei suoi avversari e dagli storici per dipingerlo come un mostro senza morale. Come se non bastasse l’assoluzione, pochi anni dopo, nel 70 a.C, il Senato viene epurato da tutti gli elementi ritenuti “indegni” per la loro condotta politica e personale. Sessantaquattro senatori su trecento si vedono privati della loro magistratura. Catilina, che lo stesso anno sarà eletto edile, non è fra questi, mentre invece risulta fra loro Sallustio, che anni dopo scriverà il “De coniuratione Catilinae” presentando ai suoi lettori un Catilina completamente distorto, malvagio e senza scrupoli in un’opera di pura propaganda dal però raro successo storico.

Propretore in Africa nel 67, l’anno successivo ritorna a Roma per proporre la sua candidatura, che egli caratterizzò con un’ardita battaglia di riforma sociale. Essa venne respinta per un supposto ritardo, e in parallelo si intentò contro di lui una causa per malversazione durante la sua precedente carica di governatore dell’Africa. Il processo, che gli impedì di candidarsi nel 65, terminò con la sua totale assoluzione. A questo punto, nonostante l’oggettiva campagna di boicottaggio nei suoi confronti, Catilina ci riprova presentandosi come esponente del partito popolare, supportato dai potentissimi Licinio Crasso e Giulio Cesare. Ma i suoi “alleati”, che pensavano col loro endorsement di guadagnare, assieme ai voti della plebe più radicale, un manovrabile alleato si troveranno presto spaventati non solo dall’enorme fascino di Catilina, ma soprattutto dal suo programma politico-economico caratterizzato dalla redistribuzione delle terre ai nullatenenti e dall’esproprio di quelle indebitamente occupate dai latifondisti in Africa, provincia da lui oramai conosciuta. Fu per questo che le alte cariche del partito popolare si incontrarono con i loro avversari ottimati, e strinsero un patto volto a far convogliare i voti dei propri elettori su Marco Tullio Cicerone e su Antonio Ibrida, estromettendo così Catilina dalla competizione elettorale. Nonostante i suoi sforzi arrivò terzo, primo fra i non eletti.

Abbandonato dai suoi potenti finanziatori, Catilina reagisce radicalizzando ulteriormente la sua proposta politica: alla riforma agraria egli unisce la cancellazione dei debiti, il riconoscimento della personalità giuridica degli schiavi e la cancellazione del potere delle varie oligarchie. Questa proposta immensamente democratica e rivoluzionaria gli guadagnò un enorme supporto nelle campagne e presso il proletariato urbano. Tutti gli umili si stavano coalizzando intorno al loro campione, una persona dotata di tanto coraggio da sfidare la totalità del corrotto sistema romano a favore di una società più giusta. Intollerabile per la nobiltà latifondista e i creditori, Catilina fu nuovamente boicottato, le elezioni furono spostate dai consoli in carica di due settimane, ottenendo così la mancata affluenza di moltissimi rurali che non potevano permettersi due viaggi presso l’Urbe. Nuovamente battuto grazie a testimoniati brogli, Catilina si rende conto che davanti ha una sola strada: l’insurrezione.

Siamo negli ultimi mesi del 63, momenti tesissimi nei quali Catilina e i suoi, un insieme eterogeneo di nobili indebitati, contadini poveri, proletari, donne emancipate e giovani sovversivi, sono impegnati in una partita a scacchi col potere costituito, che percepisce la congiura ma che non ha le prove per renderla pubblica. Moltissime armi vengono comprate ed inviate nelle zone dove più forte è il sostegno per le tesi rivoluzionarie di Catilina. Il piano è di condurre un duplice attacco allo Stato, insorgendo all’interno nella città e in contemporanea facendo marciare verso di essa eserciti da nord e sud. E’ il 23 settembre quando l’amante di uno dei congiurati rivela alcune informazioni a Cicerone, dandogli così la possibilità di imbastire un’accusa che, seppur mancante di prove materiale, avrebbe potuto porre in difficoltà il suo avversario politico. La situazione si fa tesa. i catilinari in Etruria insorgono, e il governo reagisce. L’accusa si fa pubblica l’8 novembre. Il discorso che passerà alla storia come prima della Catilinarie, infarcito tanto di vaghe accuse quanto di elementi inventati di sana pianta, spinge Catilina, inferocito, ad abbandonare il Senato. Per alimentare lo stato di emergenza vengono diffuse notizie false su di un presunto piano di distruzione della città, che sarebbe stata incendiata e avrebbe visto la sua popolazione sterminata. Di questo non vi sono prove, ma la diceria, alimentata dai Consoli, si espande. Circa a metà novembre Catilina lascia Roma per ricongiungersi con i suoi compagni in Etruria. Con lui vi è un numeroso esercito, al quale pone innanzi le insegne appartenute a Mario, cimelio della guerra civile e legame ideologico con le classi subordinate. Arrestati ed ammazzati i congiurati ancora presenti in Roma in seguito ad una delazione di alcuni emissari degli Allobrogi, popolo celtico col quale i catilinari speravano di poter stringere un’alleanza, Catilina si rende conto del fallimento dei suoi piani. Vengono da lui congedati tutti gli schiavi, gli uomini sprovvisti di armi o senza addestramento in prospettiva di uno scontro finale con le truppe statali, che arriverà il 5 gennaio nei pressi di Pistoia, dove un piccolo esercito di irriducibili rivoluzionari affrontò fino all’ultimo uomo un grosso esercito inviato dal Senato.

Catilina trovò la morte assieme a tutti i suoi compagni, immolandosi per una giusta causa contro il dispotismo e la corruzione dello stato romano. Con la sua morte il dominio delle classi possidenti non ebbe più oppositori politici, e la decadenza della Repubblica porterà, appena un trentennio più tardi, all’avvento del principato. Catilina, complici le vili descrizioni create dal suo nemico Cicerone e dallo storiografo suo contemporaneo Sallustio, passerà alla storia come “d’animo malvagio e malato” (Sallustio, “De Catilinae Coniuratione” 1,5), estremo esempio dello stato di corruzione e decadenza in cui versava la Repubblica, come ebbe cura di esporre Marco Tullio Cicerone nelle sue “Catilinarie”, discorsi contro Lucio Sergio Catilina pronunciati per lo più in sua assenza. Nel volto morente del ribelle Sallustio vedrà ferocia, noi vogliamo invece pensare all’orgoglio e alla dignità di chi si è opposto fino all’estremo sacrificio all’oppressione del popolo romano.

Spartaco e le guerre servili

Non bisogna mai dimenticarsi che la società antica era prima di tutto una società schiavista. Ovviamente il fenomeno schiavitù non può essere considerato perfettamente omogeneo nei modi e nell’intensità, ma è constatabile come la schiavitù di massa sia stata una caratteristica di tutte le società antiche che più si svilupparono a livello politico, militare ed economico. Ciò è particolarmente vero per Roma, in quanto il progressivo sviluppo delle ville schiavistiche fu sia il prodotto delle campagne di espansione nel Mediterraneo, sia la base dell’aumento della produzione necessario a sostenere non solo i sempre maggiori sforzi bellici, ma anche metropoli in costante crescita. La condizione degli schiavi poteva variare molto: vi erano gli schiavi impegnati come maestri o precettori, quelli che si trovavano nella varia condizione di schiavo domestico, in balia di padroni che potevano essere tanto amichevoli quanto sadici (“Ogni mormorio è prontamente domato dal bastone e sono colpiti anche per qualsiasi movimento involontario, per uno starnuto, per un colpo di tosse, per un singhiozzo. Ogni minima interruzione del silenzio si paga a caro prezzo: restano muti e digiuni per tutta la notte”, Seneca, “Lettere a Lucilio”, 47), quelli “pubblici” impegnati nella manutenzione dei servizi cittadini, quelli costretti alla vita nei campi o nelle massacranti miniere -questi spesso posti in questa condizione dopo una condanna- (“Gli schiavi, dunque, che consumano la vita nel lavoro delle miniere, mentre procacciano ai padroni incredibili profitti, giorno e notte logorano i loro corpi nelle gallerie sotto terra e molti muoiono per gli eccessi degli stenti”, Diodoro Siculo, “Biblioteca”, V 38), o ancora schiavi destinati ai giochi gladiatori, posseduti dalle palestre. 

la Sicilia in particolare si dotò di una forte popolazione schiavile, dedita a garantire l’afflusso di cereali a Roma. L’isola infatti fu per lungo tempo il “granaio d’Italia”, destinata poi a perdere d’importanza dopo la conquista dell’Egitto.  Fu questo il teatro di alcune delle più grandi e cruente rivolte di schiavi che infiammarono la Penisola, tanto da passare alla storia come “Guerre Servili”. Nel giro di pochi decenni ci furono ben due sollevazioni di schiavi, destinate non solo a mettere in crisi la Repubblica, ma a suscitare diversi, anche se sfortunati, tentativi di imitazione in tutto il Mediterraneo. “Mai si verificò una rivolta di schiavi tale quale fu quella che scoppiò in Sicilia.[…] tutta l’isola corse il rischio di cadere in mano agli schiavi”, così racconta Posidonio di Apamea riguardo alla rivolta del 136 a.C, scoppiata per le disumane condizione di vita di questi ampi strati di popolazione costretti al lavoro coatto ed equiparati giuridicamente e culturalmente a qualsiasi proprietà materiale. “I Siculi, grandemente arricchitisi in quel periodo, cominciarono a comprare un’enorme quantità di schiavi che usavano bollare a fuoco con un marchio subito dopo l’acquisto. […] Essi trattavano gli schiavi con durezza e rigore e non si preoccupavano minimamente del loro vitto e del loro vestiario” (Diodoro Siculo, “Biblioteca”, XXXIV). Privati della loro umanità e costretti a condizioni insopportabili, gli schiavi insorsero.

La prima Guerra Servile inizio ad Enna, nel 136 a.C., con l’uccisione del padrone Damofilo, che Diodoro descrive come superbo e crudele. La ribellione fu capeggiata da Euono, schiavo di origine siriaca, che dopo aver fatto strage dei nobili della città, si ritrovò a capo di una forza di seimila uomini in “tre giorni”, come racconta Diodoro. La ribellione di Enna accese la miccia della sollevazione generale: moltissimi altri schiavi si unirono all’esercito ribelle, il quale riuscì a vincere le truppe romane stanziate in loco. Non passò un mese che un’altra grande insurrezione scosse la Sicilia: Cleone, uno schiavo cilicio, radunò attorno a sé ben 5.000 ribelli e, distruggendo le speranze dei romani che speravano in uno scontro fra i due eserciti, con questo si unì alle forze di Euno. Forti di un grande esercito e delle armi sottratte ai presidi locali, gli schiavi si impadronirono delle città di Catania e Tauromenio, mentre gli eserciti inviati dalla Repubblica al comando di diversi pretori venivano sistematicamente sconfitti. Basti pensare che nella battaglia contro il pretore Lucio Ipseo gli insorti poterono schierare ben 20.000 uomini, sommergendo l’esercito romano, reclutato in fretta e furia nella stessa regione e avente meno della metà delle forze (Diodoro Siculo, “Biblioteca” XXXV). I ribelli continuavano ad avanzare, forti ormai di centinaia di migliaia di uomini stanziati in buona parte della Sicilia centrale ed orientale. le loro vittorie ispirarono altri schiavi ad emulare i loro compagni siculi. ci furono tentativi di rivolta a Delo, nell’Attica, finanche a Roma, ma furono tutte represse duramente. Fu durante l’assedio di Messina, a tre anni dall’inizio dell’insurrezione, che le sorti della guerra mutarono. Qui, infatti, gli schiavi ribelli furono respinti dal console Lucio Calpurnio Pisone. Persa l’iniziativa, gli schiavi non poterono impedire ai romani di occupare ogni città conquistata. L’anno successivo cadde Tauromenio dopo un lungo assedio e solo grazie al tradimento di uno dei capi dei rivoltosi, tale Serapione Siro. Diodoro Siculo racconta che le condizioni in città furono tanto terribili da spingere gli assediati ad atti di cannibalismo. Pur non essendo tale pratica del tutto sconosciuta in tempi d’emergenza, è possibile che tale descrizione serva a rappresentare con un’imperbole l’empietà degli schiavi, rei di turbare l’ordine costituito e di violare i limiti della loro condizione terrena, fatto ben rappresentato dall’infanticidio e dal cannibalismo. Cadde, l’anno successivo, anche Enna, dove si erano asserragliati gli ultimi ribelli rimasti guidati da Euno e Cleone. Il secondo fu ucciso in una sortita, e fu allora che Eurono decise di tentare l’evacuazione della città per continuare la guerriglia nel territorio circostante. Presi seicento uomini abbandonò Enna, ma inseguito, inseguito dall’esercito romano, fu catturato ed imprigionato a Morgantina, dove morì “mangiato dai pidocchi” (Diodoro Siculo, ibid).

La rivolta degli schiavi del 136 a.C. fu sintomatica di un sistema economico brutale che, in nome della maggiore produzione, arrivava ad infliggere indicibili sofferenze a uomini e donne la cui unica strada possibile era la ribellione. Gli schiavi non erano ritenuti soggetti giuridici, non godevano di diritti, erano “strumenti parlanti”(Varrone, “De re rustica” I,17), e in quanto tali sfruttati il più possibile. La prima Guerra Servile segna un importante punto di svolta in quanto sollevazione generale, di grande respiro e rivolta all’emancipazione di tutti gli schiavi. Non si è davanti alla fuga o alla ribellione di singoli individui o di piccoli gruppi, ma di decine e decine di migliaia di persone che, consce della comune condizione, si organizzano in eserciti e presidi per lottare per la propria libertà. La sconfitta dei ribelli, i quali opposero comunque una strenua resistenza, ha le proprie origini nella mancata insurrezione vittoriosa degli schiavi in altre regioni: la Sicilia orientale non poteva disporre degli strumenti materiali ed umani per opporsi a tempo indefinito contro gli eserciti della Repubblica e contro gli aristocratici locali.

Passarono trent’anni dalla caduta di Enna allo scoppio della Seconda Guerra Servile,  di minore entità ma sintomo di una condizione sociale immutata nel corso dei decenni. Il nuovo conflitto scoppiò nella Sicilia occidentale, ma dilagò fino alla parte centrale dell’isola. A scatenare la rivolta fu la mancata liberazione di molti schiavi che ritenevano la loro condizione ingiusta, in quanto, essendo cittadini liberi, sarebbero stati rapiti e venduti dai predoni. Il propretore Licinio Nerva, infatti, era stato spinto da Roma ad esaminare la situazione a causa della difficoltà di reclutamento nella regione. E’ sempre Diodoro Siculo a raccontarci come le autorità locali denunciassero il completo spopolamento di certe regioni a causa dell’attività dei predoni (Diodoro Siculo, “Biblioteca”, “, 3-6). Il piano di liberazione degli schiavi incontrò le resistenze dei latifondisti locali, i quali riuscirono ad evitare la realizzazione del progetto. Immediatamente gli schiavi insorsero, arrivando ad occupare molte città e a spingere gli assalti fino alla città di Morgantina, nella Sicilia centrale. Ancora una volta sottovalutati dall’esercito romano, gli schiavi ribelli riuscirono a battere le truppe del governatore nerva a più riprese, rinforzandosi ad ogni vittoria delle armi tolte ai nemici e dei nuovi uomini accorsi fra le fila dell’insurrezione. Arrivati ad essere 60.000 gli schiavi fortificarono la città di Caltabelotta, la quale cadde dopo un lungo assedio delle forze romane nel 98 a.C., reso possibile dall’invio di nuove forze da Roma guidate dal console Manio Aquilio, collega di Gaio Mario, all’ora console per la quinta volta. 

Come accadde per il precedente conflitto, anche la Seconda Guerra Servile si chiuse in un’orgia di violenze volte ad imprimere a fuoco nella mente di tutti gli schiavi il destino di chi tentava di ribellarsi all’ordine costituito. Ciò che non avevano compreso i romani era che serve a ben poco il minacciare con la morte chi vive l’inferno, perché per chi non ha nulla da perdere la ribellione è sempre l’unica alternativa possibile, anche se  potenzialmente letale.

“Spartaco è l’uomo più folgorante della storia antica.Un grande generale, un personaggio nobile, veramente rappresentativo del proletariato dell’antichità” così scriveva del gladiatore ribelle Karl Marx in una lettera del 17 febbraio 1861. Ma chi era Spartaco? Di lui è abbastanza certa l’origine tracica, dove sarebbe nato intorno al 109 a.C., secondo quanto è riportato da Plutarco nella parte delle “Vite parallele” dedicata a Crasso. La Tracia era per Roma una regione di difficile gestione a causa del diffuso banditismo e del territorio favorevole alla guerriglia. Qui nacque probabilmente in una tribù di pastori, e, forse spinto dalla necessità economica o forse da accordi diplomatici, prestò poi servizio come ausiliario nell’esercito romano, stanziato in Macedonia. Qui si era rivoltato. Forse unitosi ai banditi o forse ribellatosi agli occupanti romani, Spartaco aveva disertato e, catturato, fu condannato alla schiavitù, pena frequente in una società sempre più bisognosa di forza lavoro coatta (Appiano, “Guerre Civili” I, 539). Fu acquistato da un lanista, tale Gneo Cornelio Lentulo Batiato, proprietario di una palestra gladiatoria a Capua, fra le più importanti del tempo. I giochi gladiatori erano per i romani importanti eventi sociali. Non bisogna immaginarsi una sequenza di combattimenti mortali, ma un insieme di duelli, rappresentazioni storiche, acrobazie e giochi di prestigio. Essi duravano uno o più giorni, e si aprivano tipicamente con le “venationes”, ossia scontri fra animali selvatici e “venatores”. Verso mezzogiorno vi era un’interruzione nella quale era possibile assistere alternativamente a spettacoli di giocoleria o alle esecuzioni capitali. (Seneca, “Lettere a Lucilio” I,7, 4-5). Nel pomeriggio i combattimenti riprendevano, e potevano veder contrapposti tanto singoli individui quanto gruppi, anche intenti a rievocare particolari eventi storici, non solo riguardanti battaglie sulla terra ferma, ma anche scontri navali. Si sa, infatti, che i principali anfiteatri potevano essere allagati per rappresentare questo tipo di eventi. Raramente si arrivava alla morte dei contendenti, in quanto il costo di un gladiatore era relativamente alto. L’esito era deciso dalla resa dell’avversario, o dal suo non essere più in grado di difendersi. Gli spettatori sviluppavano una forma di attaccamento e stima per i guerrieri da loro preferiti, e testimonianza di ciò sono anche i numerosi documenti epigrafici giunti sino a noi attestanti donazioni di loculi o di onoranze funebri ai gladiatori caduti da parte di loro tifosi. I gladiatori non erano solamente schiavi, anche uomini liberi andavano a lavorare nella palestre in cerca di gloria o sostentamento. La differenza fra questi e quelli nella condizione di Spartaco stava nel fatto che i secondi fossero proprietà del lanista, oggetti paragonabili alle armi e alle armature. Passò solo due anni in queste condizioni, perché una notte del 73 a.C., insieme a 70 compagni, Spartaco forzò l’armeria della palestra, e fuggi nei pressi del Vesuvio (Plutarco, “Crasso”, 8, 1-2, il quale però parla di un collina, contraddetto da altri autori come Appiano). Il Senato, preoccupato dalla possibile minaccia arrecata ai latifondi dei suoi componenti ma allo stesso tempo sicuro della facile vittoria su un piccolo gruppo di schiavi ribelli, mandò due pretori, Gaio Claudio Glabro e Publio Varinio. Glabro mosse per primo contro il gladiatore, raccogliendo sul suo percorso una truppa assai improvvisata composta da coscritti, peraltro poco motivati date le scarsissime possibilità di trarre grandi compensi da quell’operazione (Plutarco, “Crasso”, 9,2). Glabro cinse d’assedio l’accampamento dei ribelli bloccando l’unico sentiero che ad esso portava, sperando di indurre così quelli che riteneva nemici poco propensi alla lotta alla resa. Ma gli schiavi ribelli, i quali avevano eletto come loro capi assieme a Spartaco i galli Enomao e Crisso, aggirarono le truppe romane calandosi ai piedi del monte, e attaccato l’accampamento dei loro nemici di sorpresa ne fecero completa strage. Il secondo pretore non fu battuto in maniera meno netta, anzi Spartaco stesso arrivò ad appropriarsi del cavallo di Varinio e quasi a catturare lo stesso pretore (Appiano, “Guerra Civili” I, 543). Le file dell’esercito ribelle crebbero a dismisura dopo queste vittorie, radunando schiavi fuggitivi e pastori della zona.

Infatti l’insurrezione di Spartaco va contestualizzata nel medesimo contesto sociale di sistematico impoverimento delle popolazioni rurali e dei piccoli proprietari, e gli stessi che si sarebbero schierati con Catilina ed i suoi insorti ora si unirono al Trace cercando di emanciparsi da una condizione altrettanto bestiale di quella schiavile. Inoltre, l’esercito dei gladiatori attirava anche per il suo sistema egualitario: i capi erano eletti, il bottino ripartito egualmente  ed era fatto divieto di introdurre oro e argento nel campo (Appiano, ibid, I, 539-559). Si arrivò così ad avere un esercito di decine di migliaia di uomini, che poté passare l’inverno in tranquillità alimentandosi con saccheggi e requisizioni nei territori circostanti. Solo in primavera vennero formati due eserciti consolari, guidati da Lucio Gelio Publicola e Gneo Cornelio Lentulo Clodiano, che si diressero contro le forze spartachiste. All’interno di queste si stava consumando intanto una scissione: vi erano da una parte Enomao e Crisso che volevano portare la guerra a Sud, e Spartaco che “non si preoccupava se non della ritirata verso le Alpi” (Sallustio, “Historiae” III). Giunti in territorio pugliese, Crisso e le sue truppe furono affrontati e massacrati. Lo stesso Crisso fu ucciso insieme ai due terzi del suo esercito dai soldati romani agli ordini del console Gelio. Nel mentre Clodiano inseguiva Spartaco, con l’obiettivo di superarlo e di bloccargli la fuga. L’esercito ribelle assaltò improvvisamente le forze del console posizionato a nord, vincendole, per buttarsi poi su quelle di Gelio, che incalzavano da Sud, riportando anche qui una vittoria (Appiano, “Guerre Civili”, 548Sallustio, “Historiae”, IV, 337-340). Dopo aver battuto anche l’esercito del governatore della Gallia Cisalpina, con un esercito forte di 120.000 uomini Spartaco si diresse verso sud, accampandosi nei pressi della città magnogreca di Thurii.

L’esercito romano si stava nuovamente mostrando in crisi davanti alle schiere di ribelli e schiavi in lotta per la libertà. Non solo i condottieri degli insorti godevano evidentemente di un acume tattico invidiabile, ma la corruzione e la decadenza degli uffici militari della tarda Repubblica produssero truppe poco motivate ed ufficiali mediocri, più adatti ai compiti amministrativi, dove tentare di intercettare quanto più denaro possibile, che ai fatti bellici. Mentre l’esercito spartachista imperversava nel sud continentale, otto legioni furono poste al comando del proconsole Marco Licinio Crasso. Di queste facevano parte  anche le due legioni consolari uscite sconfitte dai confronti con l’esercito di Spartaco, le quali furono decimate dal nuovo comandante come punizione per il disonore dell’essersi fatti sconfiggere da un esercito di schiavi, disertori e pastori. Si possono paragonare gli opposti comportamenti dei due eserciti e rapportarli alla loro natura: da una parte abbiamo armate di leva, composte in gran parte da plebei costretti, de iure o de facto, al servizio militare, consapevoli di andare incontro a grandi rischi senza la prospettiva di ricevere molto in cambio, dall’altro individui in situazioni intollerabili, ma unitisi alla lotta per propria volontà, per desiderio di libertà; da qui traggono origine gli opposti estremi degli atteggiamenti, ossia un Crisso col suo esercito smanioso di combattere e battere e le legioni dei consoli, vinte rapidamente dagli eserciti di schiavi e decimate per codardia. Intanto in Sicilia era scoppiata una nuova rivolta degli schiavi locali, galvanizzati dall’eco delle gesta del trace. Spartaco quindi marciò verso lo stretto, nel tentativo di unirsi ai nuovi ribelli. Giunto presso l’istmo di Catanzaro non poté però attraversare lo stretto, in quanto coloro i quali si erano offerti per il trasporto, un gruppo di pirati cilici, vennero a patti col governatore romano dell’isola, e rifiutarono l’aiuto agli spartachisti. Spartaco e i suoi si trovarono così isolati all’estremità della Calabria, circondati dalle otto legioni di Crasso, che nel mentre avevano dietro ordine del console scavato un fossato atto ad isolare i nemici (Plutarco, “Crasso” X, 4-5). Tuttavia i ribelli non si diedero per vinti: forzarono il blocco e, con la prospettiva di risalire l’Italia, si diressero verso il territorio dell’Apulia, ingrossandosi ancora lungo il tragitto. Nei pressi di una località chiamata Petelia si arrivò allo scontro finale.

Siamo nel 71 a.C., a due anni dall’inizio della ribellione. Spartaco e le sue forze hanno combattuto lungo tutta l’Italia, sconfiggendo moltissimi eserciti degli arroganti comandanti romani restando pressoché imbattuti. Ma questa volta i nemici sono troppi, sono troppo esperti ed hanno a condurli un ufficiale temuto e sicuramente più competente dei propri predecessori. Spartaco, ferito alla coscia da un giavellotto ed impossibilitato a muoversi, cadde combattendo fino alla morte, circondato da un pugno dei suoi. L’esercito dei ribelli, decapitato, venne massacrato dai legionari romani. I seimila sopravvissuti resi prigionieri furono crocifissi nudi lungo la Via Appia. fra questi non vi era Spartaco, ucciso in battaglia e reso irriconoscibile per le ferite subite (Appiano, “Guerre Civili”, I, 555-559). Con la morte di Spartaco e la fine della terza delle Guerre Servili finì l’epoca delle grandi sommosse degli schiavi romani.  Vi furono continuamente nuove piccole insurrezioni e scontri localizzati, ma non si riuscì mai più sul territorio della Repubblica e poi dell’Impero ad organizzare armate da decine di migliaia, se non centinaia, di rivoltosi. 

Con l’avanzare del nuovo millennio la società romana cambiò profondamente: non solo la diffusione del cristianesimo contribuì ad un diverso atteggiamento nei confronti degli schiavi, ma vennero a meno sia le tradizionali fonti di questi, ossia le grandi campagne di conquista, sia il tipo di economia ad essi collegata. Col tempo sorsero nuovi sistemi produttivi, resi necessari dallo spopolamento delle campagne, dalle continue carestie e dall’instabilità politica, fondati ora sul lavoro di uomini liberi ma costretti a vivere in un determinato territorio e considerati parte di esso. Questo particolare sistema emerse intorno fra il IV ed il V secolo dopo Cristo, e sarebbe stato la base per il feudalesimo ed il sistema curtense.