DI LEONARDO SINIGAGLIA

Difficilmente la pace è stabile. Anzi, la Storia ha dato riprova di come ogni deposizione delle armi altro non sia che una tregua momentanea, un momento nel quale si riprende fiato o ci si concentra su altri avversari. La prospettiva accettata da Kant accetta lo stato di guerra latente come quello caratteristico della dimensione naturale dell’uomo: “Lo stato di pace tra gli uomini, viventi gli uni a lato agli altri, non è uno stato di natura (status naturalis) ché anzi questo è piuttosto la guerra, se anche non continuamente dichiarata, alla vigilia di esserlo” (Kant, I. “Per la pace perpetua”, Milano, Sonzogno, 1883). Appare quindi chiaro che per ottenere una pace che non sia unicamente una momentanea cessazione di un conflitto gli uomini debbano dotarsi di un’autorità mediatrice: questa autorità sono i sovrani, che impediscono all’interno di un popolo lo stato di guerra permanente. Ma i conflitti non esplodono unicamente fra i singoli o fra le famiglie, ma anche fra gli Stati stessi. Kant allora sostiene la necessità di un “foedus pacificum”, non un trattato, ma bensì un’alleanza, una federazione atta a prevenire per sempre la possibilità dell’insorgenza del conflitto. Il raggiungimento della “pace perpetua” è quindi collegato ad un progetto politico particolare, che parte da una visione conflittualistica della natura umana per arrivare alla costruzione di determinati presupposti per una convivenza pacifica degli individui e degli Stati. Questi presupposti sono d’ordine politico, morale ed economico.

Il presupposto politico della pace perpetua è la costituzione del “foedus pacificum”, da attuarsi attraverso una propedeutica regolamentazione delle azioni degli Stati: fine degli eserciti permanenti, divieto di trasmettere per via ereditaria uno Stato indipendente alla sovranità di un altro, non intervento negli affari interni degli altri Stati, evitare nelle guerre condotte infide e scorrette. Kant attribuisce a queste misure la forza di scoraggiare i conflitti e di costruire progressivamente una sempre maggior fiducia fra gli Stati, necessaria al raggiungimento dello scopo della costruzione dell’alleanza pacifica. Non solo: la costituzione interna degli stati ha da rendersi repubblicana, dove con questo termine non si intende un’istituzione popolare o democratica, ma unicamente, in una dicotomia rispetto alla Stato tirannico, la separazione dei poteri e il riconoscimento dell’uguaglianza giuridico-formale della cittadinanza. Kant delinea perfettamente la sua condanna ad ogni ipotesi democratica: la Democrazia è una forma di tirannia, in quanto ogni potere sta in mano al medesimo soggetto, il popolo. “Meno sono le persone al potere, quanto maggiore è invece la loro rappresentanza, tanto più la costituzione si avvicina alla possibilità di repubblicanesimo”. Il sistema repubblicano di Kant si delinea quindi come anti-democratico, fondato sul riconoscimento di diritti formali e sulla presenza di istituzioni non solo aperte al dialogo con i filosofi, ma la cui azione politica sia strettamente connessa con la morale. E’ nell’ultima parte del testo che egli chiarisce il rapporto fra la politica e la morale, e quindi anche fra i sovrani e i filosofi: “La vera politica adunque non può fare passo alcuno, senza prima aver consultata la morale; e benché la politica sia, per sé, un’arte difficile, tuttavia l’accordo di essa con la morale non è punto un’arte, poiché, non appena si trovino in contrasto, la morale tronca i nodi che la politica non è in grado di sciogliere” (Ibidem). Ai filosofi, tramite il discreto consiglio ai sovrani, spetta quindi l’incarico di guidare l’azione politica tramite la morale. Kant non vuole sul modello platonico rendere sovrani i filosofi, né tantomeno rendere filosofi i sovrani, in quanto “il possesso della forza inevitabilmente sconcerta il libero giudizio della ragione”, ma di instaurare fra questi due soggetti un virtuoso rapporto di scambio ed interesse.

Se questi sono i presupposti politici e morali del foedus, i presupposti economici sono concentrati nel raggiungimento completo del libero scambio. La Natura, secondo Kant, ha in maniera provvidenziale sospinto l’uomo, fuggendo la guerra, ad abitare tutta la Terra, la quale è perfettamente abitabile da esso, e lo ha costretto ad intrattenere rapporti con i suoi simili. La natura umana è fondata sul conflitto, essenzialmente violenta ed anti-sociale: è solo per la forza di una minaccia esterna o di una forza superiore riconosciuta che esso si “civilizza”, diventa parte di una comunità, che esiste quindi esclusivamente in virtù del principio d’autorità e della sottomissione volontaria ad esso, che in realtà altro non è che il risultato di un moto meccanico dato dal bisogno di soddisfare le nostre esigenze di approvvigionamento e di protezione. E’ con il processo innescato dalla nascita degli Stati e della proprietà che si arriva al commercio, relazione capace di collegare, direttamente o indirettamente, soggetti anche letteralmente agli antipodi del mondo. Tramite di esso “i continenti lontani fra loro possono stabilire pacifiche relazioni, che a lungo andare, divengono legali ed avvicinano via via il genere umano ad una costituzione cosmopolitica” (ibidem). E’ infatti la garanzia del libero commercio, e quindi del libero spostamento di merci e persone, a comporre il presupposto economico della pace perpetua. Kant sostiene che il libero commercio possa, mettendo in relazione e contatto i diversi popoli, portare al progressivo avvicinamento di questi e all’insorgere di legami incompatibili con lo stato di guerra. Arriva ad affermare che lo “spirito commerciale” non possa coesistere con la guerra. Questa prospettiva non solo è storicamente confutabile, ma errata anche da un punto di vista teorico, poiché procede nell’analisi ponendo al centro della stessa non già i reali soggetti collettivi, ma astratti soggetti-individui, presupponendo nel rapporto commerciale non già un rapporto di forza, ma unicamente il mutuo soddisfacimento di un desiderio.

Non si possono pensare i rapporti economici come rapporti fra individui. Essi fanno riferimento prettamente ad un campo collettivo, sia direttamente che indirettamente, tramite l’accessibilità delle risorse, il livello di sviluppo delle forze produttive, la presenza di infrastrutture e la capacità da parte di un mercato di assorbire un dato livello di merci. Non possiamo ridurre il rapporto tra venditore e compratore ad un rapporto astratto, ma occorre calarlo in quella che è la realtà materiale. Scopriamo così che questi due soggetti non rappresentano se non espressioni particolari di un sistema sociale più ampio, una rete di interazioni che hanno origine nella produzione, e che fra loro sussistono precisi rapporti di forza. Non vi è uguaglianza tra chi vende e chi compra: disponibilità e scarsità, possibilità d’attendere e bisogno immediato, scarsità o abbondanza di opzioni. Da qui ne risulta che il rapporto commerciale concreto non è mai totalmente libero, e anzi all’aumentare della precarietà e della mancanza di disponibilità economica, più obbligate diventano le scelte. La libertà formale del compratore e del venditore cedono il passo alla realtà materiale, che vede la forza come reale discrimine: si può essere obbligati alla vendita così come all’acquisto, non solo dal ricatto del bisogno, ma anche dalla forza delle armi. E questi meccanismi non agiscono unicamente all’interno delle astrazioni individuali, ma nella realtà concreta nei rapporti di classe e fra gli Stati. Possiamo vedere come l’apertura di nuovi mercati, quindi l’imposizione dell’apertura delle frontiere a persone e capitali, sia stata forzata con la guerra, come nel caso delle guerre dell’Oppio in Cina, o come la vendita di terreni e risorse sia stata obbligata “manu militari” in modo più o meno palese, come nel caso della colonizzazione europea del Nord America, o nell’ancora attuale spoliazione delle risorse dei paesi del Sud del Mondo ad opera delle multinazionali euro-americane. Appaiono quindi fuori dalla realtà le parole dell’economista liberale Frederic Bastiat, il quale sostenette che “dove non passano le merci, passano gli eserciti”. In realtà le merci passano spesso al seguito degli eserciti, o di concerto ad essi, come strumento di dominio ed espressione di un potere.

Più che un principio ideale o uno strumento per la pace, possiamo vedere la libertà di commercio come una particolare istanza dei settori di borghesia che hanno raggiunto abbastanza forza ed autonomia all’interno dei confini nazionali per tentare l’assalto al mercato internazionale. Lontano dall’essere dicotomicamente contrapposto alla libera circolazione delle merci, il protezionismo non ne rappresenta che la prima causa: “Il protezionismo è un mezzo che serve all’impianto della grande industria in un dato paese e gli apre con ciò la necessità del mercato internazionale e quindi di nuovo il bisogno del libero scambio. Il protezionismo sviluppa inoltre la libera concorrenza nei confini nazionali. Perciò nei paesi nei quali la borghesia comincia a farsi valere come classe — esempio la Germania— essa fa ogni sforzo per ottenere misure protettive. Queste misure le servono come arme contro il feudalismo e l’assolutismo e come mezzo per, concentrare le sue forze e realizzare il libero scambio all’interno.” (Marx, K. “Discorso sul libero scambio”, tratto da “Discorso sul libero scambio di Carlo Marx con un proemio di Federico Engels”, Milano, Critica Sociale, 1894). E’ la tutela garantita dall’intervento statale volto ad allontanare la competizione straniera che permette ad un’industria di rafforzarsi e sgominare ogni opposizione entro i confini nazionali, andando a cannibalizzare la piccola produzione locale, prima di gettarsi nella grandissima opportunità per l’accumulo del Capitale data dalla libera circolazione delle merci. Ne risulta quindi che il libero commercio, lontano dall’essere uno strumento di pace, non è altro che un’arma in quell’eterna arena in cui Kant vede la natura umana, ma che non è altro che il prodotto della società classista e, in particolare, della competizione capitalista.

La libertà dei traffici storicamente si è espressa progressivamente sempre più come libertà di circolazione del capitale finanziario. I beni, che componevano la parte predominante delle esportazioni e delle importazioni all’epoca di Kant, sono stati sempre più accompagnati, ed infine superati in grandezza dal capitale finanziario: “In generale il capitalismo ha la proprietà di staccare il possesso del capitale dall’impiego del medesimo nella produzione, di staccare il capitale liquido dal capitale industriale e produttivo, di separare il rentier, che vive soltanto del profitto tratto dal capitale liquido, dall’imprenditore e da tutti coloro che partecipano direttamente all’impiego del capitale. L’imperialismo, vale a dire l’egemonia del capitale finanziario, è quello stadio supremo del capitalismo, in cui tale separazione raggiunge dimensioni enormi. La prevalenza del capitale finanziario su tutte le rimanenti forme del capitale importa una posizione predominante del rentier e dell’oligarchia finanziaria, e la selezione di pochi Stati finanziariamente più “forti” degli altri. In quali proporzioni si verifichi tale processo, ci è dimostrato dalla statistica delle emissioni di titoli di ogni specie.[…] Per il vecchio capitalismo, sotto il pieno dominio della libera concorrenza, era caratteristica l’esportazione di merci; per il più recente capitalismo, sotto il dominio dei monopoli, è diventata caratteristica l’esportazione di capitali” (Lenin, V. “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”, tratto da “Opere scelte”, Mosca, Edizioni Progress, 1971). Il capitale finanziario, approfittando delle frontiere aperte, si insinua attraverso prestiti ed investimenti sui territori degli altri Stati, arrivando quindi ad influenzarne la produzione, l’estrazione delle risorse e il debito pubblico. Si configura quindi come strumento di dominio, di estensione del potere politico degli Stati e delle imprese. Quale pace può venir fuori da questo meccanismo? La libera circolazione delle merci, fra le quali vi sono ovviamente denaro e lavoro, porterà inevitabilmente alla creazione di monopoli e alla “colonizzazione” da parte di questi di ogni singolo spazio che siano capaci di occupare, spesso portando la concorrenza fino all’estrema conseguenza: l’intervento armato. Non basterebbe un libro intero per citare ogni singolo intervento militare fatto per poter estendere o proteggere le creazioni del capitale finanziario monopolistico: l’interventismo americano nelle cosiddette “guerre delle banane”, o i più recenti gole -o tentati golpe- in Africa ed America Latina sono sufficientemente eloquenti. Vediamo ovunque dove le risorse occupate dal Capitale vengano riscattate dalle popolazioni locali sorgere conflitti, alimentati da operazioni di destabilizzazione o portati direttamente attraverso gli eserciti imperialisti. Non si può certamente additare la colpa di non aver previsto gli sviluppi monopolistici del Capitale a Kant, ma ciò non cambia la totale non aderenza con la realtà delle sue teorie sulla pace perpetua. Le stesse campagne imperialiste di conquista non sono state che un riflesso della necessità da parte delle lobby nazionali di poter continuare a competere sui mercati internazionali, riuscendo ad ottenere il controllo di più risorse e basi dove investire i propri capitali: “Chamberlain predicava l’imperialismo, come <>, riferendosi alla concorrenza che l’Inghilterra doveva sostenere sul mercato mondiale contro la Germania, l’America e il Belgio. La salvezza sta nei monopoli […] e si affrettavano ad arraffare le parti di mondo non ancora divise” (ibidem).

A queste constatazioni non si può che arrivare attraverso lo studio della situazione reale: l’astrazione che Kant compie ponendo come attori “Stati” quando non “popoli” o “continenti” è puramente immaginaria. Ad entrare in contatto sono gli attori materiali del mercato e della produzione, in un contesto reale e collettivo, in qualità di soggetti sociali ed economici. Il “Continente”, come peraltro il “popolo”, in questo contesto non significano nulla. Un Investimento non avvicina un popolo ad un altro, ma unicamente una certa quantità di profitti nelle tasche di un gruppo particolare di capitalisti. Andando dal piano internazionale a quello nazionale, possiamo dire che il libero commercio, almeno qui, ponga un freno al conflitto? Assolutamente no. La visione accettata da Kant pone la creazione dello Stato e della proprietà come atto attraverso il quale si pone una pace sociale, solo in periodo eccezionali sconvolta. La verità è l’opposto: la proprietà privata divide la società in due campi irriducibili che vanno progressivamente polarizzandosi, i proprietari e i non proprietari. Lo Stato non è l’entità terza che garantisce una pace, per quanto limitata, ad ogni individuo, ma un la forma di organizzazione più complessa della classe dominante, la quale, trasformando il suo potere economico in potere politico, e quindi ideologico, morale e culturale, rende la sua autorità un fatto oggettivo e “neutro”. La libera circolazione delle merci non permette una migliore distribuzione dei beni, e non mette nemmeno un freno alla sempre crescente concentrazione della proprietà privata. “Che cos’è dunque il libero scambio nella società presente? E’ la libertà del Capitale. E’ il Capitale che, abbattute le barriere nazionali, assicura al proprio sviluppo un libero campo d’azione. Finché esistono Capitale e salario, ogni scambio di merci, sia pure fatto nelle migliori condizioni, darà sempre lo sfruttamento ad una classe ad opera di un’altra” (Marx, K. “Discorso sul libero scambio”, tratto da “Discorso sul libero scambio di Carlo Marx con un proemio di Federico Engels”, Milano, Critica Sociale, 1894): il libero scambio è uno strumento per ampliare il potere dei settori della borghesia capaci di sostenere i rischi ad esso connessi. Esistono vantaggi per la massa dati da questa politica? Se analizziamo la situazione dal punto di vista dei “consumatori”, la “perfetta concorrenza”, alla quale per semplificare possiamo dire tenda un regime di libero commercio privo di ingerenze esterne, porterebbe ad un abbassamento dei prezzi. Il problema è che la prospettiva del “consumatore” è, alla meglio, unicamente parziale. La stragrande maggioranza dei “consumatori” non lo sono in quanto percettori di rendite o capitalisti, ma in quanto lavoratori. Essi offrono sul mercato quello che hanno, ossia la loro forza lavoro, che nel sistema capitalista è una merce qualsiasi. Alla perfetta concorrenza dei vari venditori di forza lavoro va di pari passo l’abbassamento del prezzo di questa al “minimum”, ossia al puro reddito di sussistenza che consentirebbe appena la sopravvivenza e la riproduzione della classe.

Un errore di Kant consiste nel considerare il momento dello scambio di merci in maniera astratta, a priori della produzione di queste, che rappresenta invece il vero inizio dal quale far partire un’indagine che si voglia attinente alla realtà. Questo approccio impedisce di rendersi conto della reale portata del conflitto fra venditore e compratore, fra prestatore d’opera e datore di lavoro, fra salariato e padrone. Questo errore impedisce una lettura attinente alla realtà dei processi economici, e invalida ogni possibilità di dedurne eventuali effetti benefici alla pace internazionale o sociale. L’individualismo kantiano non solo impedisce di porre in termini materiali e concreti la questione della pace e della guerra, ma individuando nella libertà di commercio il fondamento della pace va a rafforzare invece l’origine di ogni conflitto, ossia la proprietà privata. Il conflitto è, in termini sociali, sempre il conflitto per il controllo delle risorse, per la proprietà di queste e della produzione. E’ ben evidente come la deduzione di Rousseau fosse ben più corretta, per quanto più simbolica che storica: “Le premier qui, ayant enclos un terrain, s’avisa de dire: Ceci est à moi, et trouva des gens assez simples pour le croire, fut le vrai fondateur de la société civile. Que de crimes, de guerres, de meurtres, que de misères et d’horreurs n’eût point épargnés au genre humain celui qui, arrachant les pieux ou comblant le fossé, eût crié à ses semblables: Gardez-vous d’écouter cet imposteur; vous êtes perdus, si vous oubliez que les fruits sont à tous, et que la terre n’est à personne” (Rousseau, Jean-Jacques, “Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes”)

C’è una sola prospettiva che consente di porre in correlazione lo sviluppo del libero mercato con il raggiungimento della “pace perpetua”: il libero mercato non è altro che la “libertà del capitale” (Marx, K. “Discorso sul libero scambio”, tratto da “Discorso sul libero scambio di Carlo Marx con un proemio di Federico Engels”, Milano, Critica Sociale, 1894). Il libero mercato polarizza lo scontro di classe, consente al capitale un maggiore accentramento: in poche parole accelera la strada verso il superamento in senso rivoluzionario del capitalismo, e l’inizio della costruzione socialista!