A causa dello sforzo sempre maggiore dei media nel ritrarre qualsiasi voce discordante
come “complottista”, adoperando semplificazioni quando non palesi distorsioni della realtà, è
ora più che mai necessario interrogarsi su questo tema, andando a scoprire le ragioni di ciò
ponendo il fenomeno della lotta alle “fake news” e al complottismo in un preciso orizzonte di
classe.
Nella storia sono sempre avvenuti complotti, congiure, accordi sottobanco, piani segreti et
similia. Negare che ciò esista ancora è tanto ridicolo quanto ideologico. Lo Stato liberale
occidentale si propaganda come buono e libero per definizione, incapace quindi di tramare
alle spalle dei concorrenti internazionali, figuriamoci dei propri cittadini. Ma nella realtà non
solo gli omicidi politici e i sabotaggi sono all’ordine del giorno, pensiamo ai continui attacchi
alla rete energetica venezuelana, l’omicidio di Soleimani o a alla tentata uccisione di
Lukashenko, ma gli Stati liberali non hanno mai disdegnato l’intervento diretto e criminoso
sulla propria popolazione ai fini del mantenimento del potere, della ricerca militare o del
profitto. Sarebbero molteplici gli esempi passibili di essere chiamati in causa, dall’MK Ultra al
progetto ‘Blue Moon’, dalle intercettazioni di massa al finanziamento di gruppi armati e reti
stay-behind. Non solo: alle operazioni materiali si sono spesso affiancate quelle culturali e
mediatiche, volte a far accettare all’opinione pubblica particolari idee o ad additarle un
particolare nemico. Di esse ci sono precedenti storici e ben noti e documentati, tanto nella
storia recente quanto nei secoli scorsi, dalla “Red Scare” all’invasione islamica, dalla “guerra
al terrore” all’attuale russofobia. Spesso le forze statali non si sono limitate ad influenzare le
opinioni presentando una realtà distorta, ma cercando a tutti i costi di crearne il caso su cui
montare la propria narrazione: è il caso degli infiltrati, degli agenti provocatori, dei “false
flag”, pratica sviluppata scientificamente in Francia durante il Secondo Impero e da lì
diffusasi in tutti i paesi occidentali, arrivando fino ai giorni nostri. La denuncia dello stragismo
e delle provocazioni per quelle che sono, se non supportata da una pubblica ammissione da
parte delle autorità, spesso decenni se non secoli dopo i fatti, ricade facilmente nella
categoria del complottismo, che in particolar modo in questi frangenti dimostra il suo
carattere repressivo e propedeutico all’ordinamento liberal-borghese.
Il Capitale concentrandosi concentra anche l’informazione. Sei società (Sony, National
Amusements, Disney, TimeWarner, Comcast, News Corp) controllano la quasi totalità delle
emittenti televisive, delle case editrici, degli studi cinematografici occidentali. Questo
monopolio è ancora più stringente andando nel territorio della rete, dove colossi come
Facebook e Google la fanno da padroni, dominando in maniera quasi incontrastata interi
settori del web. Nello specifico in Italia vediamo che tutto il panorama della stampa e della
televisione ruota attorno a pochi nomi di grandi imprenditori: Berlusconi, Cairo, Agnelli, De
Benedetti. Tutto ciò non mette solo in crisi il concetto di libertà d’informazione, ma gli stessi
spazi democratici. Qualsiasi analisi in contrasto con gli interessi delle classi dominanti può
facilmente essere “silenziata”, quando non direttamente fatta passare per delirio di pochi
invasati al di fuori della “comunità scientifica” o dei “competenti” di sorta.
A dover essere scardinato è il concetto di neutralità della tecnica, di neutralità della scienza
e di neutralità dell’informazione. Queste tre produzioni umane risentono in maniera
fondamentale dei rapporti di potere e di quelli di classe, non potendo essere create senza
una struttura economica e una sovrastruttura politica sviluppate e capaci di servirsene: “Fino
a quando gli uomini non avranno imparato a discernere, sotto qualunque frase, dichiarazione e
promessa morale, religiosa, politica e sociale, gli interessi di queste o quelle classi, essi in
politica saranno sempre, come sono sempre stati, vittime ingenue degli inganni e delle illusioni”
(V. Lenin, “Tre fonti e tre parti integranti del marxismo”). Non è un caso che dopo il golpe contro il
governo Morales, Jeanine Áñez fra le sue prime azioni abbia fatto chiudere le emittenti
locali di Telesur ed RT: il monopolio dell’informazione è fondamentale al mantenimento
del potere, esso è propedeutico al disciplinamento delle masse e al raggiungimento
dell’egemonia.
L’avere il controllo dei media permette non solo la diffusione di certe analisi e concetti,
ma anche quella di fatti totalmente falsi o decontestualizzati. La psicosi per le “fake
news” dovrebbe essere diretta verso i primi diffusori di queste: gli Stati liberali occidentali
e i loro apparati mediatici. Dai Protocolli dei Savi di Sion al pericolo giallo, dalle armi di
distruzione di massa all’incidente del golfo del Tonkino, dalle armi chimiche di Assad fino
al genocidio degli Uiguri, l’Occidente è sempre stato il primo diffusore di notizie false,
notizie che hanno avuto ben altro effetto rispetto alle polemiche social, fornendo pretesti
per guerre e genocidi, per la morte di milioni di persone. E’ ovvio quindi come il concetto
di “fake news” non si focalizzi tanto sulla veridicità di una notizia, ma sul suo rapporto
con il fine del mantenimento del potere da parte dei regimi liberali. Ed ecco che fatti
inesistenti vengono elevati a verità assolute, mentre innegabili avvenimenti vengono
taciuti e censurati, il tutto in nome di una pretesa lotta per la verità che non è altro che
l’ennesimo strumento imperialista di dominio.
L’analisi delle teorie “complottiste” non può che partire dall’analisi del sistema a cui sono
reazione. Il rifiuto della narrazione “mainstream” non è sintomo di ignoranza, come
vorrebbero i liberali, ma di sano riconoscimento delle contraddizioni insite nel sistema
capitalista unito però ad un’incapacità di produrre analisi generali e totalmente veritiere.
La fine dei partiti di massa e la progressiva distruzione di spazi democratici e culturali da
parte del regime liberista ha causato una grave mancanza di punti di riferimento per le
masse, impossibilitate ad acquisire strumenti d’analisi se non individualmente. D’altra
parte il liberismo non ha avuto intenzione di fornire strumenti d’analisi opposti: l’adesione
ad esso è consuetudinaria e fideistica, si basa sulla negazione della possibilità di una
qualsiasi realtà diversa, non su di una progettualità politica e storica. Ciò, unito
all’incredibile mole di informazioni disponibili nella nostra epoca, porta chiunque sia
disincantato rispetto alla narrazione istituzionale a cadere spesso e volentieri in teorie
fantasiose, dagli ormai passati di moda rettiliani fino ai Q-anon, ma che in seno
contengono i germi del dissenso e dello scontro sociale. Il complottismo non è da
combattere col piglio di superiorità tipico di un certo “ceto medio creativo” pronto sempre
a giudicare il “popolino”, ma da far evolvere cercando di insinuare in esso elementi
d’analisi corretti. Il fatto che si denunci che i ricchi starebbero rapendo e consumando il
sangue dei bambini contiene due elementi: uno positivo, ossia i ricchi governano sulla
pelle del popolo, l’altro posticcio e squalificante, ossia l’ipotesi di una cabala cannibale.
Intervenendo senza senso di superiorità ma con impegno e spirito di crescita in queste
visioni si possono ottenere risultati importanti ed essenziali. In ultima analisi, il teorico
del complotto che crede che i rettiliani governino il pianeta è indiscutibilmente superiore
e politicamente più avanzato rispetto al telespettatore che, anche dall’alto di titoli di
studio altisonanti, crede insistentemente alla vulgata borghese.

COMMISSIONE POTERE POPOLARE E CULTURA RIVOLUZIONARIA