DI CLAUDIO BARCA LEGRA

E’ un mantra ricorrente quello dell’unione. “Ci si deve unire”, lo ripetono in molti e con una dose indiscutibile di buona fede, ma vi è un errore di fondo: unità per cosa? Lo stare insieme per inseguire una maggiore probabilità di sopravvivenza non è tendenzialmente indice di una costruzione politica sana, anzi riflette unicamente una malcelata paura della morte, la coscienza di un trapasso che sembra sempre più inevitabile e al quale si reagisce semplicemente stringendosi assieme, sperando che l’essere in 150 invece di 75 possa rallentarne l’avvicinarsi.

Questa è la reale prospettiva, slegata da fraseologie rivoluzionarie di sorte, di tutti i patti d’azione, assemblee e “fronti” nati in questi anni: l’accompagnarsi reciprocamente nella tomba. Per capirlo è sufficiente porre la domanda “quali sono i vostri obbiettivi strategici?”. Sorpresa sorpresa, questi non esistono. “Ricostruire la coscienza di classe/il partito comunista/il movimento antagonista/il sindacalismo di base” non sono prospettive, ma unicamente richiami identitari che dovrebbero in qualche modo giustificare l’esistenza di chi li partorisce. E mancando una prospettiva reale che giustifichi l’azione politica, questa non può che tradursi in un triste tentativo di ribadire la propria esistenza, ormai slegata dalla lotta politica ma imperniata sull’identitarismo tribale.

Non si tratta di “ricomporre” una supposta area politica, ma nemmeno di “ricostruirla”. Il passato cede inevitabilmente passo al futuro, è insensato attaccarsi in maniera antistorica a determinate formule o simboli. Il movimento comunista sorto dalla mutazione genetica del PCI e dalla sua successiva esplosione è fallito. Non si tratta di ricostruirlo, di lottare per raggiungerne una ricomposizione o di recuperarne l’identità. Oramai esso va consegnato alla storia, va studiato, va interpretato, certamente, ma si tratta di un soggetto finito. Si può dire lo stesso per la cosiddetta area antagonista, peraltro rea di non essere riuscita in nessun caso a portare avanti una lotta politica reale e costruttiva. Non ha senso inseguire un modello non solo fallimentare, ma storicamente sorpassato.

Il compito a cui siamo chiamati non è quello di ricostruire, ma di costruire. Serve un nuovo progetto, una nuova prospettiva, una nuova area politica. Prima di tutto occorre indicare i fini, che non possono essere un vago orizzonte “anticapitalista”, o “di classe”, o ancora peggio dai contorni cosmopoliti e moralistici, ma dev’essere la concreta costruzione del Socialismo nel nostro paese come passo della rivoluzione internazionale. La questione della presa del potere, declinata nei termini reali della costruzione di un nuovo Stato, dev’essere messa nuovamente al centro dell’orizzonte politico. Per giungere ad esso serve uno strumento, che di certo non può essere quello della sollevazione armata, ma deve essere costruito avendo come riferimento la specificità euro-italiana e gli esempi vittoriosi della nostra epoca. E’ il rinnovo costituzionale, ossia la convocazione di una nuova Assemblea Costituente, supportato ed introdotto dalla costruzione di un potere popolare territoriale, a svolgere questo ruolo. Dal Venezuela alla Bolivia, dal Perù al Cile si vede che nel “laboratorio del neoliberalismo” è questo lo strumento che si offre ai popoli. E ciò conviene anche all’Italia.

Il semplice successo relativo alle elezioni parlamentari non farebbe che perpetuare l’eterno antagonismo della sinistra radicale. Serve qualcosa di più, di radicale e risolutivo. Serve la costruzione di un nuovo Stato, che possiamo ottenere solamente con una nuova Assemblea Costituente. E’ questo l’orizzonte da proporre: un movimento per una nuova Repubblica. Qualcosa di reale, concreto, il cui successo può essere misurato praticamente, e che soprattutto ci dona un’obbiettivo reale da indicare alle masse e a noi stessi.