DI LEONARDO SINIGAGLIA

Per capire che fare serve prima di tutto chiedersi sempre se si ben comprende cosa stia succedendo nel mondo. Da questo, dalla “analisi concreta della situazione concreta” si può procedere all’azione. Diversi periodi necessitano di diversi programmi, diverse fasi di diverse parole d’ordine. Ci sono fasi in cui si è costretti sulla difensiva, in cui, schiacciati dalla reazione, alle forze rivoluzionarie non resta che ricostruire e riorganizzarsi, e fasi in cui invece è necessario e utile passare all’offensiva, in cui i colpi assestati contro il regime liberale vedono la loro potenza moltiplicata dalla crisi in cui il sistema riversa. Attaccare nel momento non opportuno è tanto dannoso quanto tergiversare al momento decisivo. E’ per questo che serve avere contezza dei rapporti di forza, contezza della propria organizzazione e soprattutto capacità d’analisi generale.

In che fase siamo ora? Per capirlo non serve unicamente valutare i rapporti di forza fra le classi entro i confini nazionali, ma anche e soprattutto quelli internazionali. E facendo questo scopriamo che il periodo di rafforzamento dell’imperialismo a seguito della caduta dell’Unione Sovietica si è concluso, che anzi esso è in piena ritirata. La guerra sarà ancora lunga, ma ormai a chi andrà la vittoria è chiaro: il regime nordamericano ha perso la sua battaglia di Stalingrado. Passeranno anni, cercherà di contrattaccare, probabilmente riuscirà a recuperare qualche posizione con i suoi ultimi colpi di coda, ma è oramai sulla via del tramonto. In tutto il mondo possiamo vedere come l’egemonia statunitense torna ad essere messa in discussione, non solo retoricamente, ma anche fisicamente. Sempre più paesi, dalle Filippine al Perù, seguendo diverse direttrici e per diverse forze, sono in procinto di staccarsi dal campo imperialista, che ha visto fallire le sue ultime offensive, non riuscendo ad innescare la controrivoluzione in Venezuela e a mantenere al potere i golpisti in Bolivia.

Abbiamo visto invece un cambio di rotta da parte delle forze antimperialiste: dalla difesa delle posizioni si è passati all’attacco, non limitandosi più a parare i colpi euro-atlantici, ma andando a denunciarli e a rispondere. Grazie alla risolutezza degli ultimi sforzi si è fatto crollare il terreno sotto i piedi all’opposizione liberal-fascista bielorussa, di cui lo scenografico arresto di Protasevich non rappresenta che la pietra tombale, sono stati rallentati gli sforzi bellici ucraini contro le Repubbliche Popolari, si è riaffermata la collocazione internazionale del Vietnam socialista, oltre che rilanciata la sfida per la corretta informazione tramite gli stessi canali social usati come arma dall’imperialismo. Non è un caso che il presidente Biden abbia dovuto rispolvera le teoria complottista (di regime) della creazione in laboratorio del Covid-19: la Cina fa sempre più paura agli Stati Uniti, che correttamente la identificano come la principale minaccia al loro dominio imperialista. D’altra parte il costante drenaggio di capitali a favore della RPC e a danno dell’Occidente avvenuto negli scorsi decenni sta dando gli esiti sperati: l’Ovest non è più in grado di essere auto-sufficiente, o anche solamente di potersi permettere l’aderenza alle politiche sanzionatorie statunitensi. Si vanno così a creare fratture inter-imperialistiche che il proletariato internazionale, con la RPC in testa, sta riuscendo a sfruttare per isolare, depotenziare e, in ultimo, eliminare l’imperialismo statunitense.

Abbiamo assistito ad un cambiamento di fase. Il momento cruciale è stata la battaglia di Aleppo, quella che il presidente Assad aveva giustamente identificato come una nuova Stalingrado. Se Aleppo fosse caduta le porte della Siria, e quindi del controllo totale del Mediterraneo, si sarebbero aperte agli Stati Uniti. Ne sarebbero cambiati i rapporti con la Turchia, ora “cane pazzo” dalla dubbia lealtà”, e anche la posizione regionale dell’Iran. Ma Aleppo ha resistito, e ha sconfitto le milizie islamiste che per più di quattro anni hanno tenuto d’assedio la città. Da quel momento la guerra ha visto una svolta. Gli Stati Uniti sempre più sono stati, sono e saranno costretti alla difensiva, e gli eventi recenti lo dimostrano.

Dal punto di vista internazionale è importante comprendere che non può esistere ambiguità nel posizionamento, e che la retorica degli “opposti imperialismi” è una presa di posizione a favore dell’imperialismo americano, unico in questo momento riscontrabile nella realtà. Serve capire che quindi le stesse constatazioni che portarono durante la Seconda Guerra Mondiale alla collaborazione con governi reazionari e capitalisti come quelli inglese, francese e americano per schiacciare il nazifascismo, manifestazione più aggressiva e violenta della borghesia imperialista, devono portare oggi alla collaborazione e all’intesa con governi politicamente distanti, ma situazionalmente alleati come quelli russo e iraniano, perché oppositori dell’imperialismo più violento e virulento, dell’internazionalismo dominate e principale ostacolo nella costruzione del Socialismo.

Occorre interrogarsi sui nostri compiti dal punto di vista nazionale, e chiarire quelli che sono i nostri alleati. Il cambio di fase a livello internazionale non ha lasciato immutata la nostra situazione locale. Anzi possiamo vedere che, complice la crisi legata al Covid-19, è iniziato un periodo di “guerra civile” in seno alla stessa fazione padronale, che, nonostante si trovi riunita dietro alla figura di Mario Draghi, non riesce a nascondere le sempre maggiori conflittualità interne e il crescente distacco dalla realtà del paese. Il progressivo sblocco dei licenziamenti, di cui un milione e più di lavoratori sono già stati vittima, e la crisi causata delle chiusure e dal contrarsi del mercato internazionale hanno causato la proletarizzazione di ampi spazi della piccola borghesia (si conta che il 11,3% del totale delle imprese sia stato chiuso, circa 305mila, con una previsione di rischio per un quinto del totale, dati Confcommercio), mentre sempre più ampi settori proletari vengono ricacciati nella pura sopravvivenza. In questo clima l’incapacità d’intervento dei paesi dell’eurozona, in particolare dei PIIGS, si è palesata in “sussidi” a puro scopo propagandistico, meri tappabuchi messi in campo nella vana speranza dell’arrivo dei soldi del Recovery Fund, vere e proprie nuove “Wundervaffe” che dovrebbero salvare l’Unione dal crollo politico e sociale. In risposta alla crescenti tensioni si sono delineati progetti per una ristrutturazione complessiva dell’esercizio del potere delle “democrazie” liberali d’Occidente, ristrutturazione resa possibile anche dalla retorica emergenziale pandemica.

Occorre quindi prendere contezza del cambiamento di fase anche a livello nazionale: continuare ora nella “costruzione” di “soggetti politici di classe”, qualsiasi cosa voglia dire, è codismo manifesto. Serve passare all’offensiva. Noi non disponiamo di forze ampie ed organizzate come quelle dei paesi socialisti, è vero, ma il nostro ruolo non sarà quello di guidare l’assalto. Noi saremo le quinte colonne nel cuore dell’Impero, saremo la guerriglia che scompagina le retrovie e fa crollare il fronte interno. Ma per far questo bisogna uscire dall’attendismo. Serve partire all’attacco, e ora come ora possiamo farlo unicamente in un modo: attaccare alla base lo Stato liberale italiano chiedendo una nuova Assemblea costituente, raggruppando dietro questa bandiera tutte le forze sane del paese.