di andrea gallazzi

“Oggi viviamo un momento cruciale nella storia di un percorso iniziato 20 anni fa, dopo il devastante ed ignobile attacco alle torri gemelle. In quell’occasione non furono attaccati solo gli Stati Uniti, ma l’intera Comunità Internazionale e i valori dell’Occidente. La minaccia alla democrazia e alla libertà posta da movimenti estremisti quali al-Qaeda era una minaccia posta a tutti noi. Qui in Afghanistan il nostro paese ha fatto la propria parte fin dall’inizio, partecipando all’operazione Enduring Freedom dal novembre 2001 al settembre 2003, prima operando dall’Oceano Indiano, poi direttamente in territorio afghano, al fianco dei nostri alleati per contribuire al ripristino della democrazia e delle libertà civili e alla protezione della popolazione afghana”.

Con queste parole il ministro della difesa Guerini ha annunciato la ritirata dell’Esercito Italiano dall’Afganistan. Come ha affermato nel suo discorso, questa è la conclusione di un percorso iniziato 20 anni fa, sì, ma 20 anni di fallimenti. Il nostro paese si è cimentato in questa folle avventura militare solo e solamente per servilismo nei confronti degli Stati Uniti d’America e per una minaccia che in realtà era solo uno specchietto per le allodole. Il preteso e presunto attacco alla “Comunità Internazionale”, entità praticamente metafisica che dimostra ancora una volta l’egocentrismo dell’Occidente, il quale in un attacco contro sé stesso vede un attacco a tutto il mondo, in realtà era solo un pretesto per iniziare una nuova guerra in un paese sperduto e che pochi sarebbero riusciti a indicare sulla mappa; perché, tanto, di un paese sconosciuto non se ne frega niente nessuno. Anche la retorica dei “valori dell’Occidente” dimostra ancora una volta come l’eurocentrismo sia unicamente un cancro che deve essere estirpato, in quanto questi “valori” sono unicamente il militarismo, la competizione sfrenata e la sottomissione dei più deboli. No, i valori dell’Occidente non sono la pace e la cooperazione, sono l’unione della grande borghesia in perenne guerra con i popoli e con i lavoratori dei propri paesi, la competizione sfrenata, la quale porta inevitabilmente a forme estremizzate di capitalismo, quali il fascismo e il nazismo: metodi utilizzati in guerra senza alcun ritegno. Ma il lato peggiore di questo discorso del ministro Guerini è proprio la retorica della lotta per la democrazia e le libertà civili: soldati stranieri e bombe non sono “protezione della popolazione afghana”, bensì proteggere gli interessi del grande Capitale, in questa fase del sistema che Lenin identificava come quella “suprema”, ovvero l’Imperialismo. Con questa ennesima guerra si voleva solamente evitare un’ulteriore crisi sistemica del capitalismo, infatti, non è una novità che gli investimenti militari diretti, e non, contribuiscono enormemente all’economia occidentale: dopo la Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti, vedendo gli effetti benefici che il conflitto aveva avuto sulla loro economia, non sprecarono neanche un secondo e si cimentarono, già negli anni ’50, nella Guerra di Corea, banco di prova della guerra in Vietnam, e così via con gli interventi/invasioni nella Repubblica Dominicana, in Libano, Grenada, Panama, Kuwait, Iraq, Somalia, Jugoslavia, Haiti, fino ad arrivare, appunto, all’Afghanistan.

Quest’ultima, cominciata a seguito dell’attacco alle Torri Gemelle nel 2001, doveva essere una delle tante guerre convenienti tanto all’economia Statunitense quanto all’egemonia politica, economica, culturale e militare dell’Occidente sul mondo. Tuttavia, non hanno tenuto conto di alcuni fattori cruciali: oltre ad essere un paese altamente insidioso dal punto di vista geografico, era (ed è tutt’oggi) una nazione di antiche tribù guerriere (come i Pashtun, che hanno riempito le fila dei talebani fin da subito) che, fino a pochissimi anni prima, erano impegnate in una guerriglia su scala nazionale contro la Repubblica Democratica dell’Afghanistan e contro l’Unione Sovietica. Questi fattori sono stati i motivi principali per cui lo Zio Sam è stato costretto a prolungare per così tanti anni questa guerra.

Ma perché questa guerra è stata cominciata realmente? Chiaramente, non è stato il vile attentato dell’11 settembre 2001 a spingere gli Stati Uniti a invadere l’Afghanistan, e lo si capisce dal fatto che manco un mese dopo i soldati americani erano già sul suolo del paese asiatico. Karl Marx ci può dare la soluzione: basta osservare questo semplice grafico per capire di cosa si parla.

Questo grafico rappresenta la caduta tendenziale del saggio di profitto. Molto brevemente, il saggio di profitto è il rapporto tra il plusvalore e il capitale investito, è la percentuale di profitto che i capitalisti fanno in relazione al capitale (costante, quindi quello impiegato sui macchinari, e variabile, quindi quello sui salari) impiegato nella produzione e al plusvalore estratto. Come spiega la teoria marxista, i capitalisti tendono a investire sempre più capitale sui macchinari e sempre meno sui salari, di conseguenza la percentuale di profitto diminuisce, in termini relativi ma non assoluti, drasticamente. La guerra blocca questa tendenza, perché si effettuano massicci investimenti economici sullo sviluppo industriale-militare, in una folle corsa alle armi nel nome del profitto. Tornando al grafico, si può notare, infatti, come in periodi di tensioni e guerre il saggio di profitto aumenta considerevolmente (1911-1917; 1935-1947) e, allo stesso modo anche se non con gli effetti sperati, in tutto il secondo Novecento, dove un periodo di guerra praticamente costante ha frenato, ma non fermato, questa tendenza. Arrivando al 2001 notiamo un aumento limitato, ma comunque degno di nota, ed è proprio quello dovuto alla corsa alle armi contro l’Afghanistan. Si capisce dunque che non esiste alcuna nobile lotta per la democrazia e la libertà dietro un intervento militare come questo, costruito ad arte dai grandi capitalisti con l’aiuto del governo americano. Tuttavia, insieme all’Iraq, questa si può dire che sia stata l’ultima campagna militare con dei risultati positivi (a breve termine) dal punto di vista economico. Purtroppo per i capitalisti, il loro problema è che vedono le cose sempre a breve termine, e mai a lungo termine, e quindi arriviamo a oggi, 2021, con il ritiro delle truppe dopo una disastrosa campagna militare.

In 20 anni non è stata conseguita alcuna vittoria militare di grande rilevanza strategica e, anzi, questa permanenza di truppe straniere sul territorio ha aiutato i talebani a “conquistare i cuori e le menti” degli abitanti, contribuendo dunque alla causa jihadista. Le ragioni di ciò sono da ritrovarsi nella strategia e nella tattica adottate. Gastone Breccia, insegnante di storia Bizantina ed esperto di strategia militare, spiega così l’asimmetria fondamentale che nel nostro secolo (ma non solo) ha dato e continuerà a dare un grandissimo vantaggio agli eserciti irregolari guerriglieri: “Il primo, decisivo vantaggio che le forze convenzionali dei nostri giorni regalano agli insorti , stabilendo come priorità l’illusorio principio delle zero casualties – “perdite zero”: le proprie, ovviamente – è di natura morale”, non è infatti complicato capire come tra chi è disposto a morire per una causa e chi vive nella costante paura di morire, anche con tutte le tecnologie di questo mondo, il primo è avvantaggiato, in quanto convinto di lottare per una causa legittima, mentre il secondo pensa soprattutto a portare a termine un ingrato compito professionale che potrebbe costargli la vita. E così prosegue: “Il secondo vantaggio di cui gode la guerriglia grazie alla priorità data alle zero casualties è, al contrario, di natura strettamente materiale. Per garantire alle truppe impegnate sul terreno l’elevatissimo livello di sicurezza considerato necessario, infatti, non si bada a spese: ogni singola operazione, anche il più banale pattugliamento di un villaggio “amico”, viene condotta se possibile sotto copertura aerea. Questo significa che un paio di cacciabombardieri sorvolano la zona, in costante contatto radio e video, verificando ogni possibile pericolo lungo il percorso, che si tratti di un’auto sospetta ferma a un incrocio o di un metro quadrato di terra smossa al margine della pista, che i sensori degli aerei riescono a distinguere dal terreno circostante rilevando la diversa temperatura superficiale. Tutto molto rassicurante ed efficace, ma anche estremamente, anzi eccessivamente, costoso: perché in questo modo ogni singolo giorno di campagna acquista un tale peso economico, anche per il ricco Occidente, da rappresentare una via verso la sconfitta, non verso il successo. In guerra finisce quasi sempre per prevalere non il più valoroso o il meglio armato, ma chi può tirare fuori dalle tasche el ultimo escudo”. Questa politica delle zero casualties è dovuta al fatto che in Occidente i capi di Stato devono rispondere di fronte all’opinione pubblica di ogni singolo caduto in guerra, di ogni ferito grave, di ogni materiale distrutto. Di conseguenza, oltre allo spreco economico si aggiunge la forte pressione delle associazioni di cittadini. Questo è stato, per esempio, uno dei motivi per cui la guerra in Iraq, trovando un iniziale appoggio, ha ben presto causato forti proteste negli USA e in Europa. Tuttavia, il vantaggio maggiore che deriva da questa politica delle zero casualties, a favore degli irregolari, è la questione dei cosiddetti “collateral damage”: quando le proprie truppe si trovano in seria difficoltà, la procedura standard degli eserciti regolari occidentali prevede l’utilizzo massiccio di artiglieria, elicotteri e aerei d’assalto al suolo; tutto ciò, com’è logico, provoca numerose vittime civili (vittime di serie B, o C, secondo gli occidentali) e distruzione di case e altri beni materiali degli abitanti. La questione si complica se si pensa che le truppe irregolari, in contesti urbani, utilizzano molto spesso infrastrutture civili come basi per sparare contro il nemico, così da aumentare le vittime civili e spingere la popolazione locale ad unirsi alla propria causa. L’Afghanistan è stato il perfetto esempio di tutto ciò, e così continua Breccia: “Gli insorti si sentono dunque moralmente più forti, perché disposti al sacrificio; sono poveri, ma con uno sforzo minimo possono mantenere in essere la minaccia di un’imboscata, o di un ordigno esplosivo nascosto al margine di una strada, riuscendo così a rendere insostenibile – o meglio, non sostenibile abbastanza a lungo – il costo della guerra per i loro nemici, che vogliono combatterla in condizioni di massima sicurezza; infine, con una buona dose di cinismo, possono volgere a proprio vantaggio i danni collaterali causati dalla potenza di fuoco avversaria, di cui sanno spesso provocare l’uso eccessivo. […] I governi democratici, dovendo rispondere ai propri elettori, tendono quindi a presentarle come missioni di peace-keeping quasi del tutto prive di rischi; cosa che può essere fatta – a prescindere dall’ipocrisia di fondo – solo se si riesce davvero a contenere, con ogni mezzo a propria disposizione, il numero dei caduti”. Comprendendo dunque la contraddizione della guerra di guerriglia contro guerra regolare si capisce perché l’Afghanistan è il più grande fallimento militare dal punto di vista strategico, tattico, economico e militare. Più i soldati mantenevano la loro permanenza sul luogo più i talebani si rafforzavano e si radicavano nella società afghana. Si potrebbe fare un paragone che a livello ideologico sarebbe quasi una blasfemia, ma che dal punto di vista militare centrerebbe in pieno la questione: quello che i talebani hanno fatto, fin dalla guerra contro l’Unione Sovietica, è una guerra di lunga durata che rispetta in tutto e per tutto le linee stabilite da Mao Tse Tung nei suoi scritti, primo fra tutti il famoso “Sulla guerra di lunga durata”; unica cosa, i talebani non hanno utilizzato a proprio favore il progresso politico e culturale del loro paese (dato che non esisteva), bensì il radicalismo religioso, che ha aiutato a istigare il popolo a insorgere contro i miscredenti: insomma, una guerra religiosa in tutti e due i sensi, una in nome di Dio e una in nome del dio denaro. D’altro canto, hanno sfruttato la loro conoscenza del territorio e le loro conoscenze in campo militare per protrarre il più possibile questa guerra, portando all’inevitabile decadimento degli aggressori dal punto di vista militare ed economico.

Parlando dell’Italia, oltre 8.5 miliardi di euro sono stati spesi per le operazioni di “peace-keeping” in Afghanistan, circa 3.700 truppe impiegate e 48 i caduti1. Proprio così, mentre in Italia la crisi (non solo quella del Covid-19) mandava per strada e uccideva migliaia di persone il nostro governo pensava a finanziare un’azione imperialistica in Afghanistan. Ma non solo questo: sono stati ben 369 i soldati italiani deceduti a seguito del ritorno in Italia a causa dell’ampio utilizzo da parte dell’Esercito Italiano di Uranio Impoverito. Si tratta di una vera e propria strage di Stato, il quale considera i propri militari solo come ingranaggi utili al fine di perseguire i propri interessi, ignorando completamente il lato umano. Chiaramente non ci si poteva aspettare altro, e allo stesso modo ci si poteva aspettare un negazionismo ad oltranza da parte delle Forze Armate, che continuano a contestare ogni correlazione tra uranio impoverito e le patologie che uccidono e ammalano migliaia di nostri soldati. Ci si potrebbe sentire meglio ora, pensando che finalmente le truppe italiane si ritirano dopo così tanto tempo e tornano in patria, ma non è così: come riferito dal ministro Guerini, l’Italia invierà i nostri militari in missioni in Africa e Iraq2

L’Afghanistan, in sostanza, è stato un totale fallimento che ci porteremo sulle spalle per molti anni. Ma questa lunga guerra ci ha insegnato (per la millesima volta) come l’inganno della “lotta al terrore” e della “lotta per la democrazia” non sia altro che una ridicola copertura per gli interessi economici di pochi potenti.

  1. The Costs of War to United States Allies Since 9/11 Jason W. Davidson1 May 12, 2021
  2. Afghanistan: rientrano 895 italiani ma altrettanti andranno in Africa e Iraq, www.ilsole24ore.com