DELLA COMMISSIONE POTERE POPOLARE E CULTURA RIVOLUZIONARIA

Domenica 23 maggio gli agenti del KGB bielorusso riuscivano, tramite un’ingegnosa operazione, ad arrestare Roman Protasevich, agente dell’Occidente liberale e amministratore del canale telegram NEXTA, fra gli esecutori del tentativo di destabilizzazione che nella seconda metà del 2020 ha sconvolto il paese. Gli Stati liberali hanno duramente protestato per la perdita della loro pedina, spacciata per uno dei tanti “giovani in cerca della democrazia”. Ma è così? Indagando si scopre che Protasevich è tutt’altro che “democratico”: dall’esaltazione del Terzo Reich alle ambigue frequentazioni ucraine, sembra che egli non sia altro che l’ennesimo ultra-nazionalista reclutato dall’Ovest come quinta colonna, secondo un copione già visto in Ucraina e Russia, e prima ancora in Polonia, in Cecoslovacchia ed in Ungheria. Si grida alla dittatura e alla repressione, ma l’atto del presidente Lukashenko è un atto perfettamente antifascista. Si, antifascista, perché va a difendere la libertà ereditata dal popolo bielorusso dalla Rivoluzione d’Ottobre e conservata a duro prezzo dopo la caduta dell’URSS dai settori più sciovinisti, reazionari ed imperialisti dell’alta borghesia occidentale. Sarebbe giusto chiedersi come mai gli stessi Stati che hanno stipendiato il Protasevich si dicano “antifascisti” e non smettano mai di celebrare i valori della “democrazia”, facendo anche nuove guerre sante in suo nome. La spiegazione è facile: per loro, per i liberali, la retorica antifascista è un’arma: permette di difendersi da chi giustamente gli ricorda che i movimenti nazi-fascisti furono finanziati ed appoggiati da ampi settori alto-borghesi e da intellettuali liberali, mentre spinge gli antifascisti sinceri verso di loro, e verso il fascismo chi dissente rispetto alla loro narrazione. Facendo così essi controllano l’opposizione, e mimetizzano le loro vere intenzioni.
Questa è la verità: in molti casi chi si ammanta con l’antifascismo non è che il più virulento dei fascisti, mentre chi, in buona fede, vede nel fascismo un alternativa migliore del mondo attuale non vive che di una proiezione che gli è stata imposta. E’ necessario quindi svelare la verità, far capire a chi è rimasto ingannato perché questo sistema è in perfetta sintonia ideologica col fascismo storico, e perché le idee sociali e rivoluzionarie che vengono proiettate sul regime mussoliniano o sul movimento fascista sono semplicemente false.
Ma perché i regimi Liberali, che si vantano del loro presunto “antifascismo”, finanziano e tollerano certi individui e organizzazioni? La risposta è semplice, e farà storcere il naso a molti fascisti che non si rendono conto dell’inganno, della trappola in cui sono caduti:

Il Fascismo non è altro che la degenerazione del Liberalismo giunto alla sua fase terminale

Ma che cosa intendiamo con la “psicosi del Liberalismo”? Per quanto la verità sia difficile da digerire, sia per i fascisti, che per i liberali, storicamente parlando Il Fascismo scese al potere in Paesi dove la classe dirigente Liberale era impotente di fronte alla rabbia delle masse lavoratrici, la quali sfruttarono le tante amate libertà del Liberalismo – ovvero la libertà di assemblea e la libertà di parola – per denunciare la corruzione e l’entrata in guerra – che dopo il massacro di file di giovani soldati – aveva solo peggiorato le attuali terribili condizioni, e non migliorate, come tanto blateravano i propagandisti nazionalisti.

Fu così che il Liberalismo entrò in contraddizione con se stesso. Le poche libertà e diritti – che la classe operaia dovete guadagnare con estremi sacrifici – venivano ora usate come arma per delegittimare il dispotismo della classe borghese. La borghesia aveva bisogno di una nuova dottrina politica – di una nuova filosofia – per rimpiazzare il debole sistema liberale, e Giovanni Gentile era l’uomo più adatto per questo tipo di lavoro, un intellettuale originario della scuola liberale della Destra italiana, un uomo che non temeva criticare le pecche del Liberalismo che avevano consentito tale “degenerazioni”. La dottrina del Fascismo infatti non proponeva una vera rivoluzione, ma una contro-rivoluzione, un disperato tentativo di invertire le lancette dell’orologio, con il solo fine di proteggere una classe sociale obsoleta.

Il Fascismo critica il Liberalismo non perché aspira a superarlo per una nuova società libera dallo sfruttamento, ma perché esso non è capace di proteggere l’ordine borghese.

PERCHÉ’ IL FASCISMO HA VENDUTO L’ITALIA, ESATTAMENTE COME I GOVERNI LIBERALI

Il regime fascista si è sempre ammantato della retorica nazionalista per vendersi come un preteso “difensore della patria”. I motivi dell’orgoglio e della grandezza nazionale sono stati, e sono tutt’ora, fra i più frequenti nella retorica fascista. Ma cosa c’é di vero in questo? Bisogna prima di tutto far chiarezza su cosa si intende per “Italia”. Per quanto possa sembrare assurdo, la questione è più complessa di quel che si pensa. Non esiste un’unica Italia, ma più “Italie”, estranee e contrapposte. Esiste un’Italia di chi lavora, ed esiste un’Italia di chi sfrutta, esiste l’Italia popolare e proletaria, ed esiste l’Italia alto-borghese e liberale. A quale di questi due paesi il fascismo ha giurato fedeltà? Di quale Italia parlava nei suoi proclami? Vedendo il programma di San Sepolcro si potrebbe pensare che alla prima andavano le sue attenzioni, ma le parole sono un conto, le azioni un altro, e solo queste devono essere giudicate per vedere di chi si fecero gli interessi. E queste non possono che essere giudicate severamente.
Cos’è stato il regime fascista italiano? Cos’è stato al di là di ogni retorica, di ogni pregiudiziale così come al di là di ogni feticismo nostalgico?
Ebbene, prendiamo le parole di un fascista, una persona di certo non accusabile di partigianeria bolscevica, Berto Ricci:
«Una adunata non è Austerlitz, un treno festivo non è la marcia su Roma […] Discorsi che si aprono con alate invocazioni. Sedute inaugurali che si chiudono con la consegna di artistiche pergamene. Assemblee che scattano come un solo uomo…Fino a quando, Dio mio!»
Quest’immagine di un regime buffonesco nel voler conciliare una fiera retorica marziale ad una mollezza, un’inettitudine interna è peraltro la stessa che trasuda dalle pagine di “Marcia su Roma e dintorni”, di Emilio Lussu, in cui compaiono in sequenza davanti agli occhi dello scrittore una carrellata di personaggi più o meno improbabili ma egualmente grotteschi, animati tutti quanti da una confusa unione di opportunismo e voglia di fare.
Non bisogna, e sottolineiamo il bisogna, dimenticare che dietro alle parate, ai costumi, agli “A noi!” e al “popolo di Santi, di eroi, di poeti, di navigatori”, non solo esisteva prepotentemente la brutale ed ingiusta realtà di qualsiasi stato colonialista, di qualsiasi economia capitalista, di qualsiasi potere politico dei confindustriali e dei grandi latifondisti, ma su di essa si costruiva tutta l’impalcatura del regime, con la soppressione sistematica dei diritti sindacali, dei diritti sociali, dei diritti associativi, dei diritti politici, con “l’impresa di Addis Abeba” e i suoi migliaia di morti ammazzati, con l’intervento al fianco del golpista ultra-cattolico Francisco Franco, con le leggi razziali e i treni verso i campi di sterminio, con l’assassinio di Matteotti, dei Rosselli, l’incarcerazione di Gramsci, la paralisi di Secondari, l’incendio di giornali, di sedi sindacali, di case di lavoratori, con la connivenza con l’invasore nazista, i rastrellamenti ai danni di altri italiani, con il “qui si ammazza troppo poco”, con la perpetuazione di odi etnici di confine, con la negazione di “fratellanze, sorellanze e ogni altra parentela bastarda”, con il “Mussolini ha sempre ragione”, con le decine di migliaia di giovani ragazzi mandati a morire tentando l’occupazione di Francia, Grecia ed Albania, che per noi sono più che fratelli, con la guerra civile, la banda Koch, la banda Carità, la “Ettore Muti”, le “leggi fascistissime”, l’Armir sepolto dalla neve su territorio straniero, a migliaia di chilometri da casa.
Questo fu il fascismo.
Non gli spauracchi corporativi, non una fantomatica “terza via”, non il completamento di qualche bonifica e di qualche chilometro di autostrada, ma la brutale soppressione di ogni libertà, di ogni aspirazione, di ogni sogno e ogni sentimento del popolo italiano. E questo non è altro che il modello liberale, portato alle sue estreme conseguenze estetiche dalla crisi del capitalismo, lo stesso modello che noi oggi vediamo applicato con solerzia in Occidente. Si, perché nonostante la celere non abbia il fez, lavoratori, studenti e cittadini vengono comunque pestati, perseguitati e tenuti sotto controllo. E se non si cerca più la “quarta sponda”, l’Eni e altre compagnie italiane sono più impegnate che mai nei progetti neo-colonialistici in Africa, con tutto il bagaglio di forze speciali e di agenti segreti alle loro dipendenze. E i soldati dello Stato italiano sono ancora una volta schierati ad Oriente, pronti ad una nuova Operazione Barbarossa, mentre la stampa batte sui tamburi della guerra, ansiosa di lanciare una nuova “crociata europea contro il bolscevismo” e contro qualsiasi opposizione all’imperialismo statunitense, con basi militari straniere sulla nostra terre sempre più stracolme di armi e uomini.
L’Italia di oggi, quella che conta e che è composta dalla stragrande maggioranza degli italiani, l’Italia che lavora e che è oppressa, è venduta agli interessi del capitale imperialista straniero e della Confindustria nazionale. L’Italia di ieri, nonostante l’apparente fierezza, era egualmente venduta: ai latifondisti, agli industriali, al Vaticano, ai nazisti. I padroni sono solo in parte cambiati. Ecco perché non si può opporre all’Italia liberale l’Italia fascista, fra le quali non vi è soluzione di continuità, ma serve portare avanti gli ideali e gli interessi dell’Italia del popolo, l’Italia socialista.

PERCHÉ’ IL FASCISMO FU CAPITALISTA, E NON SOCIALISTA


Viene spesso detto che il fascismo rappresenti una terza via, un’alternativa sia al socialismo che al capitalismo, o per lo meno al pensiero liberista. Tale affermazione è totalmente falsa. È chiaro che il regime fascista, così come qualunque altro regime esistito nella storia, abbia comunque attuato saltuariamente qualche politica che abbia favorito almeno in parte il pubblico, sia essa fatta volontariamente o collateralmente – per via di necessità materiali, in quanto a lungo andare i paesi capitalistici sono destinati a centralizzare e statalizzare diversi settori –, ma queste non possono di certo mascherare tutte le politiche economiche che sono andate in forte contrasto con l’interesse collettivo e, soprattutto, della classe lavoratrice.
Sotto il fascismo il detentore dei mezzi di produzione fu sempre la classe borghese, e continuò quindi indisturbato il meccanismo di accumulazione del capitale; ciò comporta il fatto che il fascismo sia sì un sistema politico, almeno in teoria, contraddistinto dal sistema liberale, ma che perpetua tuttavia il sistema capitalistico, non mettendolo minimamente in discussione, anzi cercando di smorzare ogni forma di lotta di classe dal basso, estendendo una certa egemonia incentrata sul volontarismo per la nazione borghese, sulla suddivisione in corporazioni, reprimendo le masse e abolendo di fatto i sindacati (a parte il “sindacato” unico creato dallo stesso regime, con ovvie funzionalità).
Non ci vuol molto per riscontrare che nel 1923, solo un anno dopo esser salito a potere, si tagliò la spesa pubblica passando dal 35% al 13% del PIL. Dal ministro De Stefani si passò il testimone a Giuseppe Volpi, imprenditore che diventerà poi presidente di Confindustria nel ’34.
Mussolini almeno inizialmente si fece rappresentante della classe lavoratrice e piccolo-borghese – retoricamente, ovviamente –, questo è vero. Ma ci volle ben poco per passare, anche dal punto di vista retorico – sui fatti lo è sempre stato –, su posizioni tutt’altro che “socialisteggianti”.
Nel ’22 Mussolini pronuncia il discorso del bivacco: “il problema finanziario è fondamentale: bisogna arrivare colla maggiore celerità possibile al pareggio del bilancio statale”. Oltre che capitalista, anche liberista; tanto che Einaudi, elogiandolo sul Corriere, gli dirà di essere “sulla buona via”, in “netta continuità con la tradizione liberale classica (…) della marca più autentica e pura”.
Nel ’27 i salari furono ridotti per mezzo del contratto collettivo di lavoro del 15%, nel ’30 dell’8%, e nel ’34 ancora dell’8% (ed è da dire che dall’altra parte non c’erano molti servizi pubblici garantiti; perfino la scuola venne indirettamente sfavorita, invitavano i giovani ad andare a lavorare piuttosto che proseguire gli studi). Mussolini soppresse il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, vendette la maggior parte delle reti e dei servizi telegrafici di proprietà dello Stato a privati, riprivatizzò la società Ansaldo di macchinari industriali, e assegnò concessioni delle autostrade a pedaggio a imprese private. Non va ignorata nemmeno la privatizzazione del monopolio statale sui fiammiferi, visto che a quei tempi era un prodotto di larghissimo consumo.
“A riguardo dell’economia noi siamo dichiaratamente antisocialisti… io restituirò alle mani dei privati, le ferrovie e i telegrafi, perché il corrente stato delle cose è oltraggioso e vulnerabile in ogni sua parte, lo Stato etico non è lo Stato monopolista, lo Stato burocratico ma quello che riduca le sue funzioni allo stretti necessario. Noi siamo contro lo Stato economico”, disse Mussolini all’Augusteo. O ancora nel ’22: “Noi dobbiamo mettere fine alle ferrovie di Stato, alle poste di stato, alle assicurazioni di Stato. Noi dobbiamo porre fine allo spreco di denari dei contribuenti italiani e all’aggravio delle esauste finanze dello Stato italiano”.
Secondo le rettifiche di Repaci dei resoconti ufficiali del bilancio, il ’26 è stato il primo e l’ultimo anno in cui venne raggiunto un avanzo di bilancio.

Le otto ore di lavoro, stabilite sulla carta, non vennero che raramente rispettate, ed in alcune regioni si arrivò a dieci ore di lavoro giornaliere reali. Per i salariati agricoli gli orari di lavoro raggiungevano anche le tredici e le quattordici ore. Accanto allo sfruttamento del sopralavoro, durante tutto il periodo fascista si è avuta una disoccupazione elevatissima che, dopo il 1933, non scese mai sotto al milione di disoccupati. Lo sfruttamento della manodopera femminile ed infantile da parte degli imprenditori non ebbe limite ed il controllo dello Stato, dal punto di vista sociale, in questo campo non fu mai esercitato.
Il regime di fabbrica, basato sui sistemi polizieschi introdotti dal fascismo in tutta la vita del paese, fu tale da rendere insopportabile la vita dei lavoratori sui posti di lavoro. Negli stabilimenti furono immessi fascisti con funzioni puramente intimidatorie e di spionaggio.
Il riposo settimanale in molti casi non fu rispettato, quello annuale quasi mai. Gli operai venivano regolarmente licenziati prima dello scadere del termine del periodo che dava diritto al riposo annuale.
Il lavoro straordinario nel periodo 1919-21 veniva retribuito con aumenti del 25% per le ore successive all’ottava e fino alla decima e del 50% per le ore successive alla decima, dopo l’instaurazione del regime fascista venne retribuito con aumenti molto più bassi, e cioè del 15% per le prime due ore di lavoro straordinario e del 25% per le ore successive.
Matteotti desume la condanna oggettiva della politica del fascismo nei riguardi della classe operaia dai risultati dei primi anni del regime (e sappiamo la fine che fece):
-aumento della disoccupazione;
-aumento degli infortuni sul lavoro nell’industria, che da 134.336 del 1921 passano a 677.013 nel 1942, e nell’agricoltura, dove si passa da 94.280 nel 1922 a 213.408 nel 1940 e corrispondente aumento dei casi di morte per infortuni sul lavoro nelle industrie, che da 444 nel 1921 passano a 2177 nel 1941, e nell’agricoltura, che da 319 nel 1922 passano a 1557 nel 1939;
-diminuzione dei consumi dei generi alimentari, che denotano l’abbassarsi continuo del livello alimentare delle classi lavoratrici.

Insomma, delle paludi bonificate o dei treni in orario ce ne facciamo ben poco, prese singolarmente non sono politiche socialiste ma semplicemente d’intervento pubblico, qualcosa di comune a qualsiasi Stato.
Il fascismo si è sempre basato sull’affermazione della supremazia di chi detiene il capitale, e non ce n’è da stupirsi, visto che il fascismo fu una reazione spontanea da parte della borghesia al risveglio del proletariato, a seguito del Biennio Rosso.
Altre fandonie su cui spesso i nostalgici si attaccano è l’introduzione delle pensioni. Ebbene non furono introdotte dal regime fascista, ma dalla presidenza di Crispi nel 1895, mentre l’INPS fu istituito nel 1898; anch’esse sono un semplice frutto di lotte sindacali, scioperi, e pressioni varie, e non di certo nate per via di una certa benevolenza da parte dei borghesi allora al governo.
Viene spesso affermato che col fascismo, o con l’autarchia, si stava meglio; ciò è dovuto sicuramente al fatto che allora l’Italia, almeno nell’apparenza, non aveva alcuna entità sovranazionale a cui dipendesse politicamente ed economicamente – anche se nei fatti dipendeva per ovvie ragioni dalla Germania nazista –; non a caso, in genere, gli stessi che osannano l'”età d’oro” dell’Italia fascista, vedono di buon occhio anche l’Italia post-bellica, dove si dipendeva anche lì dalla NATO e quindi gli USA, ma la cui entità era meno onnipresente – nell’apparenza – nelle istituzioni nazionali, a differenza della UE.

PERCHÉ’ IL COLONIALISMO FASCISTA NON FU DIVERSO DAL COLONIALISMO LIBERALE

Uno degli aspetti nel consolidamento del fascismo governativo del suo potere autoritario fu il proseguimento della politica colonialista già iniziata dell’Italia a fine Ottocento (dopo la spartizione dell’Africa attuato dalle potenze europee) con la conquista o l’acquisto di territori in Eritrea e Somalia, ed in seguito con la guerra in Libia del 1911 promossa dall’italia liberale di Crispi e Giolitti, combattendo contro gli ottomani per contendersi il vasto territorio libico, che sarà poi veramente conquistato solo sotto il regime. Il Fascismo di fatto mostrando la sua natura reazionaria e anti-socialista, ricalcando in maniera folkloristica l’impero romano nei suoi simboli e nelle sue politiche imperiali, accrebbe il desiderio espansionistico dei suoi territori conquistati nell’Africa Orientale, in Nord Africa fino ai Balcani. Tale progetto va contestualizzato nella competizioni tra forze imperialiste, in particolar modo volto a contrastare la Francia e la Gran Bretagna, avendo come principale obiettivo il regno d’Etiopia, assieme alla Liberia unico Stato africano indipendente, aderente alla Società delle Nazioni. Ma ben presto per l’Etiopia del Negus Haile Selassie, la situazione cambiò poiché da nazione africana indipendente, dotata di proprie istituzioni monarchiche discendenti dalla dinastia Salomonica, e con un progetto debole ma ambizioso di unificazione con l’Eritrea divenne una nazione aggredita dell’Italia fascista in nome della “vendetta per la disfatta di Adua” e l’espansione nel Corno d’Africa, cosicché dal 9 Maggio 1936 anche l’Etiopia venne annessa all’AOI, l’Africa Orientale Italiana.

L’imperialismo nella dottrina del fascismo è sempre stato onnipresente, sin da quando si volle cambiare il vecchio programma “più socialisteggiante” di Sansepolcro del 1919, dove invece si ripudiava tale politica ai danni di altri popoli. Principalmente questo cambio di rotta impostato fu in primo luogo per accrescere il proprio consenso da parte della borghesia nazionale, le istituzioni clericali come il Vaticano e degli industriali facoltosi con cui Mussolini cercò sin da subito il compromesso, e che permetteva proprio a questa classe agiata di poter sfruttare i territori conquistati in investimenti sicuri per il loro capitale, oltre che di dotarsi di una valvola di sfogo per la disoccupazione e di avere gli strumenti atti alla creazione di una “aristocrazia operaia” sul modello inglese. Infatti anche l’immigrazione italiana verso le colonie fu ben controllata dal governo fascista, promuovendo una colonizzazione volta a creare nei territori africani quella disparità etnica e sociale tipica di ogni realtà coloniale, con due realtà la cui posizione gerarchica era strettamente codificata.

Tale politica imperialista e colonialista italiana si rivelò oltre che brutale con i suoi crimini di guerra in Libia ed Etiopia, oltre che fallimentare anche dal punto di vista economico per lo Stato italiano. Oltre al magro guadagno immediato, si devono considerare infatti le sanzioni a cui l’Italia fu soggetta da parte delle altre potenze coloniali la rapida conquista dell’impero da parte delle armate britanniche, che fin da subito tagliarono quasi completamente le comunicazioni fra l’africa Orientale e la penisola italiana
. Ad oggi tale excursus storico, dovrebbe far riflettere su come il Fascismo nelle sue manie di grandezza imperialiste mostri di fatto tutta la sua natura reazionaria e brutale. Appare quindi una contraddizione di fondo: come potrebbe essere considerato “socialista” un governo che fondò tanto la sua politica interna quanto quella esterna sul culto della lotta, la gerarchizzazione delle persone, la giustezza del dominio del forte sul debole? Il Fascismo non si pone come alternativa al capitalismo liberale, ma come sua logica continuazione.
Chiunque ad oggi si dichiari fascista e dica in buona fede di essere per “l’autodeterminazione dei popoli” dovrebbe mettere in conto che di per sé sta rinnegando la pratica mussoliniana e fascista, e trovare in questa contraddizione lo sprone per correggersi ed aderire al Socialismo reale e rivoluzionario, che ripudia lo sciovinismo razzista e imperialista fascista, abbracciando l’internazionalismo proletario e il mantenimento di una politica antimperialista e per l’autodeterminazione di tutti i popoli del mondo.