di Eros R.F.

«Potrei… provare che, se si vede un pugno di potenti e di ricchi al culmine della grandezza e della fortuna, mentre la folla striscia nell’oscurità e nella miseria, ciò si deve al fatto che i primi tengono in pregio le cose di cui godono solo in quanto gli altri ne sono privati, e che, senza mutar condizione, smetterebbero di essere felici se il Popolo smettesse di essere miserabile.»

Jean-Jacques Rousseau. Discorso sulla disuguaglianza (Parte II).

Ciò che si evince dalla prima lettura degli scritti di Rousseau e di Marx ed Engels e che contraddistingue profondamente il filosofo ginevrino dai due tedeschi è la motivazione centrale che spinge l’avvento di una rivoluzione. In Rousseau è chiaro come tutto ciò che non sia razionale e vada in conflitto con il principio di sovranità dei cittadini è semplicemente illegittimo. Marx ed Engels prendono senza dubbio in considerazione il fatto che lo Stato – detenuto dalla minoranza – è appunto basato sull’irrazionale e pregno quindi di contraddizioni, ma la motivazione centrale che spinge al cambiamento di tale ordine è il sovvertimento dei modi di distribuzione, quindi un aspetto economico. Ciò che li accomuna su questo punto è il fatto che, in ambo le visioni che si hanno sulla costrutta legittimità di uno Stato, le contraddizioni che si porta dietro uno Stato particolare, sia esso legittimato o meno dalla maggioranza, è destinato a soccombere a quest’ultima per superare tali contraddizioni – anche se, ovviamente, il pensiero marxista si caratterizza inoltre nella sua lettura dello Stato di per sé come contraddizione, e dello Stato proletario, maggioritario, non come fine ma come fase di transizione verso un’estinzione dello Stato stesso –; uno punta al sovvertimento della tirannia, e vede nell’eguaglianza una necessità per trovare un equilibrio ed una giustizia dal punto di vista sia economico che politico: il fine ultimo è il raggiungimento di un’armonia dal punto di vista politico; mentre gli altri due vedono nel sovvertimento politico, ma incentrato sull’aspetto innanzitutto economico, un mezzo per il raggiungimento dell’emancipazione materiale, che porta da sé anche l’emancipazione politica.
Ciò che evince dalla prima lettura, piuttosto superficiale, degli scritti dei tre è che riguardo all’illuminista svizzero sembra che si dia per scontato il sovvertimento dello Stato illegittimo; pare quasi che il popolo sia visto come una massa da sempre pronta ad esplodere e farsi sentire, ma che, tuttavia, non ci riesce; sembra che si stia parlando di una massa ingenua e benevola e, paradossalmente allo stesso tempo, una massa capace di riconoscere, o che perfino già comprende, le contraddizioni che si celano dietro ad uno Stato che si regge in piedi senza il consenso popolare.
In Rousseau non è certamente ignorato il fatto che il popolo possa essere abbindolato, afferma infatti nel Libro II, Cap. III del “Contratto sociale” che «il Popolo non viene mai corrotto, ma spesso viene ingannato e allora soltanto sembra volere ciò che è male». Rousseau vede però, come si nota in tale passaggio, il popolo come un qualcosa di puro, ingenuo, intrinsecamente buono e che desidera sempre il proprio bene collettivo: “non viene mai corrotto”, ma “viene ingannato”.
Così come secondo il pensiero marxista, Rousseau – e lo vedremo meglio più avanti – riconosce lo Stato e la proprietà come mali adottati per necessità negli albori della storia, ma non li considera tuttavia in alcun modo legittimi, e crede che il popolo, anche se in un certo rapporto di dipendenza, sia semplicemente costretto ad obbedire allo Stato despotico. Rousseau considera la forza come unica legittimazione che sorregge il regime di un despota, e, sulla stessa legge della forza su cui il despota ha affidato la propria legittimità (azione), dovrà soccombere, prima o poi, ad una medesima usurpazione da parte di terzi (reazione); tale circolo vizioso cesserà solo quando il potere verrà preso dal popolo, unico sovrano legittimo “per natura” (o meglio per raziocinio): «Cedere alla forza è un atto necessario, non volontario; al massimo è un atto di prudenza» [C.S., L. I, C. III], quindi «Finché un Popolo è costretto a obbedire, obbedisca; fa bene a far così; se appena può scuotere il giogo lo scuote farà anche meglio; infatti recuperare la libertà in base al medesimo diritto che gliel’ha strappata, o fa bene a riprenderla, o hanno fatto male a togliergliela» [C.S., L. I, C. I].
Per despota teniamo ricordare che Rousseau intendeva «colui che si mette al disopra delle leggi» [C.S., L. III, C. X]; ma per comprendere meglio il senso di questa apparentemente misera e scontata frase dobbiamo prima tuffarci nel concetto di sovranità e di legge. Prima di continuare con l’analisi del concetto di Stato ricordiamo quindi tali princìpi:
La sovranità appartiene a chi fa le leggi. Le leggi le deve fare, in un sistema democratico, il Popolo, e cioè colui che allo stesso tempo le deve rispettare.
Il Popolo dovrebbe esser dunque sovrano. Se il Popolo non è padrone di se stesso, e quindi non decide da sé le proprie leggi, è (solo) suddito. Non c’è una via di mezzo, perché «La sovranità non può venir rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale e la volontà non si rappresenta: o è essa stessa o è un altra; una via di mezzo non esiste. I deputati del Popolo non sono dunque e non possono essere i suoi rappresentanti, sono solo i suoi commissari» [L. III; C. XV]; in quanto la legge non è «nient’altro che la manifestazione della volontà generale, evidentemente il Popolo non può essere rappresentato nel potere legislativo» [Ibidem].
Se il Popolo non è sovrano, ma suddito di una cerchia di individui, questi ultimi «non possono concludere nulla», ciò che si ostinano a chiamar legge «non è una legge», perché «Qualunque legge che non sia stata ratificata dal Popolo in persona è nulla» [Ibidem] – potrà essere, al massimo, una legge arbitraria, e quindi non sarà legittima nei termini del contratto sociale; in tal caso, Rousseau afferma che «è soltanto una volontà particolare o un atto di magistratura; tutt’al più è un decreto» [L. II; C. II].
La verità è che chi si crede libero in un sistema liberale è in grave errore: «è libero solo durante l’elezione dei membri del parlamento; appena avvenuta l’elezione, è schiavo; è niente. Nei suoi brevi momenti di libertà ne fa un uso per cui merita senz’altro di perderla» [L. III; C. XV].
Tutto questo concetto può esser riassunto in una frase; trovo personalmente che questa massima di Rousseau contenga uno dei messaggi politici più profondi che si possano esprimere: «l’impulso del solo appetito è schiavitù, e l’obbedienza alla legge che ci siamo prescritta è libertà»; questa «sola rende – infatti – l’uomo veramente padrone di sé» [L. I; C. VIII]. Dietro a questa potentissima frase, che di primo acchito a molti potrebbe sembrar priva di senso o totalmente astratta, si cela forse uno dei fondamenti più importanti su cui si poggiano tutti i pensieri socialisti. “L’impulso del solo appetito”, cioè i nostri istinti e le reazioni agli stimoli esterni, cioè azioni frutto di necessità, non sono che schiavitù: sono azioni che noi compiamo perché costretti da certe condizioni decise praticamente mai da noi, ma arbitrariamente da altri o dalla natura stessa. “L’obbedienza alla legge che ci siamo prescritta è libertà”: le leggi che abbiamo deciso democraticamente sono state stabilite da tutti noi, nel bene o nel male; sono regole auto-imposte per una buona convivenza, col fine fondamentale che è la conservazione di ogni individuo, molto più difficile da raggiungere da soli in natura; e, una volta raggiunta la civiltà – stadio superiore alla semplice società –, l’obiettivo è non più la sola conservazione, ma il progresso. Da questo ne consegue che, se la legge non è stata accettata democraticamente, ma attraverso la rappresentanza, l’uomo sarà ancora schiavo, perché dovrà seguire regole alla cui approvazione o proposta (la maggioranza) non ha dato il benché minimo contributo.
«Le leggi non sono propriamente che le condizioni dell’associazione civile. Il Popolo sottomesso alle leggi deve esserne l’autore: solo a coloro che si associano spetta di stabilire le condizioni della società» [L. II; C. VI]. Concludiamo la lunga parentesi ricordando che «Repubblica» è «ogni Stato governato attraverso le leggi» [Ibidem].
Da tutti questi ragionamenti – che si possono riassumere dicendo che se il popolo non detiene il potere legislativo non esistono leggi ma, al massimo, decreti –, ripescando il passaggio da cui abbiamo iniziato – il despota «è colui che si mette al disopra delle leggi» –, possiamo dire «che, esaminando bene le cose, si conclude che pochissime Nazioni hanno leggi», quindi poche Nazioni sono in verità repubbliche, e solo pochi Stati non sono dunque despotici.
Tornando quindi alla questione dello Stato; Rousseau ci offre finalmente la sua definizione nel Cap. VI del Libro I del “Contratto sociale”; riportiamo qui il passaggio più esteso per comprendere al meglio il concetto: «(…) al posto della persona singola di ciascun contraente, quest’atto di associazione produce un corpo morale e collettivo composto da tanti membri quanti sono i voti dell’assemblea, il quale riceve da questo stesso atto la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica che si crea così dall’unione di tutte le altre si chiamava una volta Città [che deriva da Civiltà; insieme di civili, cittadini] e ora si chiama Repubblica o corpo politico; quest’ultimo viene detto dai suoi membri Stato quando è passivo, Sovrano quando è attivo, Potenza quando lo si raffronta con analoghe entità politiche. Per quanto riguarda gli associati, prendono collettivamente il nome di Popolo e si dicono in particolare Cittadini in quanto partecipi dell’autorità sovrana, Sudditi in quanto soggetti alle leggi dello Stato».
Da qui si evince che lo Stato è il lato passivo del corpo politico, cioè l’organismo che applica le leggi; a differenza del Sovrano, le cui leggi invece istituisce o ratifica; la somma dei due aspetti compone nella sua interezza – se stiamo parlando del popolo intero come Sovrano – la Repubblica. Sotto questo punto di vista anche Rousseau riconosce dunque nello Stato l’autorità, l’organismo repressivo del corpo politico – cioè un mezzo con cui il Sovrano (cioè il popolo, nel modello repubblicano) applica le leggi, i diritti e i doveri nella realtà.
In un altro passaggio, presente nel Cap. XV del Libro III del Contratto sociale [che chiameremo spesso C.S. per abbreviare], Rousseau denuncia la presenza di più Stati, cioè interessi, posti in contrapposizione e il cui unico Stato veramente legittimo (si parla di borghesia e popolo: la maggioranza) è posto solo al terzo posto: «Così l’interesse particolare di due ordini [o classi] è collocato al primo e al secondo posto, mentre l’interesse pubblico non è che al terzo». «È quello che in certi Paesi si osa chiamare Terzo Stato». O ancora, «Quanto più accordo c’è nelle assemblee, ossia quanto più i pareri si accostano all’unanimità, tanto più anche si afferma il predominio della volontà generale; ma i lunghi dibattiti, i dissensi, il tumulto, rivelano il dilatarsi degli interessi particolari e il declino dello Stato. Questo appare con meno evidenza quando due o più ordini entrano nella sua costituzione», facendo l’esempio di Roma con i patrizi e i plebei giunge quindi alla conclusione che «allora, per il vizio inerente al corpo politico, si hanno, per così dire, due Stati in uno; ciò che non è vero dei due presi insieme, vale per ciascuno di essi separatamente» [L. IV, C. II].
Tuttavia, si può ben dedurre per tutto il Contratto sociale che per Rousseau uno Stato propriamente detto è solo il corpo politico che è tenuto insieme dalla volontà generale, e non quella particolare. Da tale ragionamento si comprende il passaggio presente nel Cap. I del Libro IV: «Fino a quando parecchi uomini riuniti si considerano come un solo corpo, non hanno che una volontà sola, diretta alla comune conservazione e al benessere generale. In tal caso tutti i meccanismi dello Stato sono saldi e semplici, le sue regole chiare e manifeste, non ci sono interessi intricati e contraddittori, il bene comune si mostra ovunque in modo evidente (…)». «Ma nel momento in cui il legame sociale inizia a rallentarsi e [quindi] lo Stato a indebolirsi, quando gli interessi particolari cominciano a farsi sentire e le piccole società cominciano a influire sulla grande, allora l’interesse comune si guasta e trova oppositori, l’unanimità non domina più nelle votazioni, la volontà generale non è più la volontà di tutti». «Infine quando lo Stato, vicino alla sua fine, non sussiste più se non in una forma fittizia e vuota,» cioè quando lo Stato esiste oramai solo formalmente come una espressione di una qualche volontà od interesse generale che non è più condivisa, «quando il legame sociale è infranto in tutti gli animi, quando il più meschino interesse si abbellisce sfacciatamente con il sacro nome di bene pubblico, allora la volontà generale diviene muta»; la volontà generale tuttavia, per Rousseau, come avevamo notato più sopra parlando della bontà intrinseca del popolo, «è sempre costante, inalterabile e pura, ma è subordinata ad altre che prevalgono su di essa. Ciascuno, separando il suo interesse dall’interesse comune, vede bene che non può separarlo del tutto; ma la parte del male collettivo che subisce anche lui gli pare nulla confrontata al bene esclusivo che pretende di ottenere per sé.»
È però nel Libro III, Cap. X, che si comprende finalmente l’interpretazione che Rousseau dà al contrasto tra interesse particolare prevalente ed interesse pubblico, con un cambio dell’ordinamento politico: «Il caso della dissoluzione dello Stato può sopravvivere in due modi.
In primo luogo allorché il Principe [che in poche parole equivale al governo] non amministra più lo Stato secondo le leggi e usurpa il potere sovrano. Allora si produce un considerevole cambiamento: non il Governo, bensì lo Stato si restringe; intendo che il grande Stato si dissolve e se ne forma un altro al suo interno, composto soltanto dai membri del Governo e che, per il resto del popolo, non è più nient’altro se non il suo Padrone e il suo Tiranno. In tal modo, nel momento stesso in cui il Governo usurpa la sovranità, il patto sociale è infranto e tutti i semplici Cittadini, rientrati di diritto nella loro libertà naturale, sono forzati ma non obbligati ad obbedire.»
Da questo passaggio si nota come secondo Rousseau lo Stato, col cambiamento della classe dominante, rimane nella sua forma il medesimo Stato, ma ristretto: “si restringe”; allo stesso tempo, si afferma che “il grande Stato [in quanto si parla di una repubblica] si dissolve e se ne forma un altro”. Questo pensiero viene sviluppato allo stesso modo da Marx ed Engels, come possiamo notare in questi passaggi che andremo a citare; nell’ultima prefazione ad una edizione tedesca del “Manifesto del Partito Comunista” i due socialisti diranno infatti che «La Commune, specialmente, ha fornito la prova che “la classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi propri fini”» [Il virgolettato è preso dalla loro opera “La guerra civile in Francia”]; come riassunto da Lenin nel Cap. III pt. I di “Stato e Rivoluzione”, «L’idea di Marx è che la classe operaia deve spezzare, demolire “la macchina statale già pronta”, e non limitarsi semplicemente ad impossessarsene». Ma in che modo lo Stato rimase – e nel caso di una rivoluzione dovrebbe rimanere – Stato, pur cambiando totalmente la propria forma, e ponendo allo stesso tempo come obiettivo – in quanto marxisti – la sua stessa distruzione? Prendendo sempre in analisi l’esperienza della Commune di Parigi, Marx risolve tale contraddizione nella sua “Guerra civile in Francia”: la Commune fu «una repubblica che non avrebbe dovuto eliminare soltanto la forma monarchica del dominio di classe, ma lo stesso dominio di classe»; il primo indizio fu che «il primo decreto della Commune fu la soppressione dell’esercito permanente, e la sostituzione ad esso del popolo armato», «Sbarazzatisi dell’esercito permanente e della polizia, elementi della forza fisica del vecchio governo, la Commune si preoccupò di spezzare la forza di repressione spirituale, il “potere dei preti” (…). I funzionari giudiziari furono spogliati di quella sedicente indipendenza (…) dovevano essere elettivi, responsabili e revocabili»; allo stesso modo erano trattati i politici: «La Commune fu composta dei consiglieri municipali eletti a suffragio universale nei diversi mandamenti di Parigi, responsabili e revocabili in qualunque momento. La maggioranza dei suoi membri erano naturalmente operai, o rappresentanti riconosciuti dalla classe operaia». «Lo stesso venne fatto per i funzionari di tutte le altre branche dell’amministrazione. Dai membri della Commune in giù, il servizio pubblico doveva essere compiuto per salari da operai. I diritti acquisiti e le indennità di rappresentanza degli alti dignitari dello Stato scomparvero insieme coi dignitari stessi».
E non possiamo non notare come anche questi princìpi seguiti dalla Commune – e che dovranno un giorno essere seguiti –, siano anch’essi già presenti in Rousseau: Marx parla di «Non soltanto eleggibilità ma anche revocabilità ad ogni istante», e che «dovevano essere (…) responsabili», Rousseau dice che «i depositari del potere esecutivo non sono i padroni del popolo, ma i suoi funzionari, e il popolo può nominarli [traducibile anche in assumerli] e destituirli quando meglio crede; che, per loro, non è questione di contrattare ma di obbedire, e che, incaricandosi delle funzioni imposte dallo Stato si limitano a compiere il loro dovere di cittadini, senza alcun diritto di discuterne le condizioni» [C.S.; L. III, C. XVIII], e infatti «La Commune non doveva essere un organismo parlamentare, ma di lavoro» [Marx, “La Guerra civile in Francia”]; e soprattutto, citando Marx, «Invece di decidere una volta ogni tre o sei anni quale membro della classe dominante deve rappresentare e opprimere il Popolo nel Parlamento, il suffragio universale deve servire il popolo costituito in Comuni» [Ibidem]: per Rousseau abbiamo già visto più sopra che le elezioni periodiche sono una farsa, ma aggiungiamo inoltre che secondo il filosofo svizzero il popolo deve costituirsi in Assemblee, dove eserciterà il potere legislativo e dove eleggerà – o revocherà – chi dovrà detenere il potere esecutivo, e tali assemblee, «oltre le assemblee straordinarie che casi imprevisti possono richiedere», «devono esservene di fisse e periodiche che nessuna ragione possa abolire o aggiornare, in modo che al giorno stabilito il Popolo sia convocato per legge in maniera legittima senza che allo scopo ci sia bisogno di altra convocazione formale», «perché allora il principe non potrebbe impedirle senza infrangere apertamente la legge, dichiarandosi nemico dello Stato» [C.S.; L. III, C. XVIII]; il corpo politico del Contratto sociale, ciò che Marx ora chiama Commune – o Stato non propriamente detto, fase embrionale della Commune – e ciò che Rousseau chiama ancora Stato (in forma realmente repubblicana), è sì centrale in quanto «l’autorità sovrana è semplice e una, quindi non si può dividerla senza distruggerla», ma è comunque «un male riunire parecchi agglomerati urbani» [L. III, C. XIII], ed è per questo che il popolo deve esser «costituito in Comuni» [Marx, “La Guerra civile in Francia”], decentralizzati e locali; finalmente – a dispetto di Proudhon e Bakunin – la contraddizione tra centralità ed autonomia locale è risolta: «In un abbozzo sommario di organizzazione nazionale che la Commune non ebbe il tempo di sviluppare è detto chiaramente che la Commune doveva essere la forma politica anche del più piccolo borgo», e «Le poche ma importanti funzioni che sarebbero ancora rimaste per un governo centrale, non sarebbero state soppresse, come venne affermato falsamente in mala fede, ma adempiute da funzionari comunali, e quindi strettamente responsabili»: «L’unità nazionale non doveva essere spezzata, anzi doveva essere organizzata dalla costituzione comunale, e doveva diventare una realtà attraverso la distruzione di quel potere statale che pretendeva essere l’incarnazione di questa unità, indipendente e persino superiore alla nazione stessa, mentre non era che un’escrescenza parassitaria»; «In realtà, la costituzione della Commune metteva i produttori rurali sotto la direzione intellettuale dei capoluoghi dei loro distretti, e quivi garantiva loro, negli operai, i naturali tutori dei loro interessi. L’esistenza stessa della Commune portava con sé, come conseguenza naturale, la libertà municipale locale, ma non più come un contrappeso al potere dello Stato ormai diventato superfluo» [Ibidem].
Insomma, «È questo precisamente un caso» – come direbbe Hegel – «di “trasformazione della quantità in qualità“: da borghese che era, la democrazia, realizzata quanto più pienamente e conseguentemente concepibile, è diventata proletaria», centrale e locale allo stesso tempo; «lo Stato (forza particolare destinata a opprimere una classe determinata) s’è trasformato in qualche cosa che non è più propriamente uno Stato» [Lenin, Stato e Rivoluzione; Cap. III, pt. 2]. Lo Stato in quanto organo repressivo – e non amministrativo – inizia da quel momento ad estinguersi: «questo Stato proletario comincerà a estinguersi subito dopo la sua vittoria, poiché lo Stato è inutile e impossibile in una società senza antagonismi di classe» [Stato e Rivoluzione; Cap. II, Pt. 1]; «solo il Comunismo rende lo Stato completamente superfluo, perché non c’è da reprimere nessuno, “nessuno” nel senso di classe, nel senso di lotta sistematica contro una parte determinata della popolazione» [Stato e Rivoluzione; Cap. V, Pt. 2]. 

Una cosa forse manca in Rousseau, come abbiamo già accennato all’inizio: la visione marxista, comunista, vede nello Stato una fase transitoria; quando lo Stato si estinguerà, si estinguerà anche la democrazia. Alla prima lettura di tale affermazione sembra che ci si voglia imboccare in qualche altra forma nuova, distopica di despotismo, o ad una totale anarchia. Vanno però riconosciute le definizioni delle varie parole, spesso concepite differentemente in relazione a chi usa tale terminologia, [in questo scritto stiamo utilizzando la terminologia marxista]. Per Rousseau la democrazia non esiste; la democrazia è una forma diversa da quella repubblicana che concepisce lui: mentre la Repubblica, come abbiamo visto, necessita del popolo (maggioranza) come detentore del potere legislativo e dei magistrati (minoranza eletta e revocabile) come detentori del potere esecutivo, nella democrazia ambo i poteri sono in mano al popolo (o almeno la maggioranza di esso): «Il sovrano può, in primo luogo, fare depositario del governo tutto il popolo o la maggior parte di esso, in modo che tra i cittadini i magistrati siano più numerosi dei semplici privati. A questa forma di governo si dà il nome di democrazia» [C.S.; L. III, C. III]; «Volendo prendere il termine nella sua rigorosa accezione, una vera democrazia non è mai esistita e non esisterà mai», «Non si può immaginare che il popolo resti senza interruzione adunato per attendere agli affari pubblici» [C.S.; L. III, C. IV]. Per i marxisti invece la definizione è ben diversa, e coincide praticamente con la definizione che dà Rousseau alla Repubblica da lui auspicata: come riassunto da Lenin in “Stato e Rivoluzione” [Cap. IV, pt. 6], «La democrazia non si identifica con la sottomissione della minoranza alla maggioranza. La democrazia è uno Stato che riconosce la sottomissione della minoranza alla maggioranza, cioè l’organizzazione della violenza sistematicamente esercitata da una classe contro un’altra, da una parte della popolazione contro un’altra». E tale democrazia, appunto, si estingue, e con essa si estingue la forma repubblicana che Rousseau sognava: «Noi ci assegniamo come scopo finale la soppressione dello Stato, cioè di ogni violenza organizzata e sistematica, di ogni violenza esercitata contro gli uomini in generale. Noi non auspichiamo l’avvento di un ordinamento sociale in cui non venga osservato il principio della sottomissione della minoranza alla maggioranza. Ma, aspirando al socialismo, noi abbiamo la convinzione che esso si trasformerà in comunismo, e che scomparirà quindi ogni necessità di ricorrere in generale alla violenza contro gli uomini, alla sottomissione di un uomo a un altro, di una parte della popolazione a un’altra, perché gli uomini si abitueranno a osservare le condizioni elementari della convivenza sociale, senza violenza e senza sottomissione» [Ibidem]; e non solo: quando oramai tutti avranno le redini dell’amministrazione dello Stato, di molto semplificato ed agevolato dall’automatizzazione e dalla tecnica dell’industria, «da quel momento la necessità di qualsiasi amministrazione comincia a scomparire», «Quanto più la democrazia è completa, tanto più vicino è il momento in cui essa diventa superflua», «Quanto più democratico è lo “Stato” composto dagli operai armati, che “non è più uno Stato nel senso proprio della parola”, tanto più rapidamente incomincia ad estinguersi ogni Stato» [Stato e Rivoluzione; Cap. V, pt. 4].
Dunque mentre Rousseau vede nella realizzazione del Contratto sociale il fine, il marxismo vede in tale Repubblica democratica uno stadio transitorio: il potere della maggioranza che obbliga la minoranza a sottostare alle leggi egualitarie è solo un mezzo per raggiungere una società, di fatto, senza né maggioranza né minoranza, dunque senza alcun conflitto vero e proprio e senza alcuna necessità nei mezzi repressivi od oppressivi. Il passaggio dove Rousseau sottolinea tale sostanza del Contratto sociale non l’abbiamo ancora citato, ma ho trovato opportuno esporlo solo ora, dopo aver analizzato gli altri aspetti e temi fin’ora affrontati.
«C’è una sola legge che per sua natura esiga un consenso unanime: è il patto sociale; infatti, l’associazione civile è, fra tutti, l’atto volontario per eccellenza; essendo l’uomo nato libero e signore di se stesso, nessuno può, sotto nessun pretesto, assoggettarlo senza il suo consenso. (…) Se pertanto, al momento del patto sociale, ci sono degli oppositori, la loro opposizione non invalida il contratto, solo impedisce che essi vi siano inclusi; sono degli stranieri in mezzo ai cittadini. Quando lo Stato è costituito il consenso si esprime nel risiedervi; abitare il territorio significa sottomettersi alla sovranità.
Al di fuori di questo contratto originario, la decisione della maggioranza obbliga sempre tutti gli altri; è una conseguenza del contratto stesso. Ma ci si chiede come un uomo possa esser libero e costretto a conformarsi a volontà diverse dalle sue. Come gli oppositori possono essere liberi e soggetti a leggi cui non hanno acconsentito? Rispondo che il problema è posto male. Il cittadino consente a tutte le leggi, anche a quelle che passano nonostante il suo voto contrario, anche a quelle che lo puniscono se egli osa violarne qualcuna. La volontà costante di tutti i membri dello Stato è la volontà generale; è la volontà generale che li fa cittadini e liberi. Quando nell’assemblea del Popolo si propone una legge ciò che si chiede loro non è precisamente se approvano o no la proposta, ma se questa è, o no, conforme alla volontà generale che è la loro volontà; ciascuno, votando, dice il suo parere in proposito, e dal computo dei voti si ricava la dichiarazione della volontà generale. Quando dunque prevale l’opinione contraria alla mia, ciò prova solo che mi ero sbagliato, e che credevo volontà generale ciò che non lo era. Se la mia opinione particolare si fosse imposta, avrei fatto cosa diversa da ciò che volevo: e allora non sarei stato libero.
Questo presuppone, è vero, che tutti i caratteri della volontà generale siano ancora nella maggioranza; quando smettono di esserci, qualunque decisione si prenda non c’è più libertà» [L. IV, C. II].
Tutti questi princìpi sono addirittura presenti nel centralismo democratico elaborato da Lenin, ma soprattutto, se guardiamo il quadro del Contratto sociale nel suo complesso, considerando tutto ciò che abbiamo esposto sopra e comprendendo in tale schema gli ultimi princìpi qui citati, possiamo affermare che il sistema di cui Rousseau parla è esattamente la dittatura del proletariato, ben prima che questa venga elaborata (e ben più strutturata dialetticamente) da Marx ed Engels. Se infatti per Rousseau il Contratto sociale è realizzabile solo se vige un regime di eguaglianza dove non esistono né ricchi né poveri, dove l’unica legittima proprietà è quella che è frutto del proprio lavoro, dove i mezzi di produzione sono per loro natura della collettività, e dove la minoranza deve sottostare alla maggioranza in tutte tali regole, ne consegue che la borghesia, i ricchi, dovranno cedere forzatamente i mezzi di produzione e la propria ricchezza in eccesso per partecipare alla vita politica e quindi il Contratto sociale; tutti quelli che non aderiscono al patto sono comunque liberi ed hanno il diritto di andarsene via dal territorio repubblicano, secondo Rousseau. Stando alla definizione di Lenin possiamo addirittura spingerci quindi a dire che Rousseau fu un marxista ante-litteram, perché «Marxista è soltanto colui che estende il riconoscimento della lotta delle classi sino al riconoscimento della dittatura del proletariato» [Stato e Rivoluzione; Cap. II, pt. 3].
Tuttavia è da notare una cosa, che rende il tutto ancor più complesso: Rousseau, come ricordiamo, nella sua definizione di Stato piuttosto generica ed omnicomprensiva parla di corpo politico passivo, cioè il corpo politico che applica e fa rispettare le leggi scelte dal Sovrano. Vien da sé, come già detto poco sopra, che la forma repubblicana rousseauiana sia pressoché la stessa cosa della dittatura del proletariato; ma una volta realizzata tale eguaglianza economica e politica, una volta raggiunta la libertà, cosa succede? Rousseau non ci parla né del come, né di cosa avviene seguendo il suo modello; parla solo di come il Contratto sociale sia un puro frutto di logica, volto a risolvere le contraddizioni che abbiamo più volto accennato. Rousseau non ci parla né di esercito né di repressione nel senso esplicito e materiale del termine; parla di applicazione delle leggi: il come è, anche qui, omnicomprensivo. Possiamo quindi addirittura giunger a conclusione che il Contratto sociale non solo sia valido per una fase di transizione, per il socialismo, ma per il Comunismo. Lenin spiega piuttosto bene come le regole col Comunismo vengano mantenute, in quanto indispensabili per il vivere civile: «Noi non siamo utopisti e non escludiamo affatto che siano possibili e inevitabili eccessi individuali, come non escludiamo la necessità di reprimere tali eccessi. Ma anzitutto, per questo non c’è bisogno di una macchina speciale, di uno speciale apparato di repressione; lo stesso popolo armato s’incaricherà di questa faccenda con la stessa semplicità, con la stessa facilità con cui una qualsiasi folla di persone civili, anche nella società attuale, separa le persone in rissa o non permette che venga usata la violenza contro una donna»; questo perché «la principale causa sociale degli eccessi che costituiscono infrazioni alle regole della convivenza sociale è lo sfruttamento delle masse, la loro povertà, la loro miseria. Eliminata questa causa principale, gli eccessi cominceranno infallibilmente a “estinguersi”» [Stato e Rivoluzione; Cap. V, Pt. 2]. Se per Stato intendiamo quindi ciò che intende Rousseau, e cioè corpo politico che fa applicare le leggi o le regole di convivenza civile scelte dal Sovrano (tutto il popolo, in questo caso), allora sì, anche ciò che nel linguaggio marxista chiamiamo Commune possiamo farlo rientrare nella logica del Contratto sociale. Nel linguaggio marxista lo Stato si contraddistingue dalla Commune (anche) perché la prima, a differenza della seconda, è una «macchina speciale», che reprime «una parte determinata della popolazione» «nel senso di classe», mentre la Commune può sì reprimere, ma solo gli «inevitabili eccessi individuali», non quindi «nel senso di classe» [Ibidem]; per Rousseau è possibile far comprendere al corpo politico passivo (lo Stato) l’intera popolazione, mentre per il marxismo «dal momento che è la maggioranza stessa del popolo che reprime i suoi oppressori, non c’è più bisogno di una “forza particolare” di repressione [Stato]» [Stato e Rivoluzione; Cap. III, Pt. 2]. Come possiamo vedere, è solo una differenza di terminologie; ciò che per il marxismo si trasforma in Commune, per Rousseau rimane per definizione Stato – ma oltre a tale dettaglio, è difficile notare altre differenze sostanziali, specialmente se parliamo dei sistemi antecedenti al Comunismo avanzato.

Ricordiamo, come abbiamo già fatto all’inizio, che mentre per Rousseau il popolo deve scrollarsi di dosso le catene dei tiranni per via di un logico ragionamento basato sulla legittimità del primo nel detenere il potere politico dello Stato, in Marx, Engels e i loro successori il popolo – o, più precisamente seguendo la nozionistica marxista, i lavoratori – sono destinati a sovvertire lo Stato borghese per via di un processo dialettico volto a risolvere le innumerevoli contraddizioni che porta con sé il capitalismo. Insomma, mentre per Rousseau tutto gira attorno alla politica, per i marxisti tutto gira attorno all’economia.
Questa differenza che può sembrar lieve agli occhi di chiunque, cela dietro, in verità, una visione del mondo diversa. Rousseau ovviamente è figlio del suo tempo, e non lo dobbiamo quindi incriminare per la sua concezione di libertà citata prima, che è paradossalmente sia in contrapposizione che in concordanza con la definizione che dava invece Hegel: come riassunto da Engels nell’Antidühring [Pt. I, Cap. XI], «Hegel fu il primo a rappresentare in modo giusto il rapporto di libertà e necessità. Per lui la libertà è il riconoscimento della necessità. “Cieca è la necessità solo nella misura in cui non viene compresa”. La libertà non consiste nel sognare l’indipendenza dalle leggi della natura, ma nella conoscenza di queste leggi e nella possibilità, legata a questa conoscenza, di farle agire secondo un piano per un fine determinato». Rousseau invece, come abbiamo visto, definisce la libertà come seguire leggi prescritte da noi stessi, e non doverci quindi inchinare agli istinti e agli impulsi, alle condizioni esterne. Ciò non è pienamente in contraddizione con la definizione di Hegel, in quanto, proprio per raggiungere la libertà propugnata da Rousseau e raggiungere quindi “un fine determinato”, è d’obbligo innanzitutto avere “conoscenza” delle proprie necessità, dei propri limiti naturali, di “queste leggi”, ed utilizzare ciò che rientra in tali limiti a nostro favore. «La libertà consiste dunque nel dominio di noi stessi e della natura esterna fondato sulla conoscenza delle necessità naturali: essa è perciò necessariamente un prodotto dello sviluppo storico» [Ibidem].
I due pensieri non sono assolutamente in contrasto tra loro. È interessante come, – così come con la questione della libertà esposta sopra, – affinché si realizzi finalmente il mondo ideale di Rousseau, sia indispensabile portare avanti la lotta contro il potere economico detenuto dalla borghesia, che è esercitato attraverso la proprietà dei mezzi di produzione da parte appunto di questo. E anche tale ragionamento non è assolutamente assente in Rousseau: seppur sia stato esposto in maniera piuttosto astratta e non strutturato od approfondito abbastanza nei propri scritti, possiamo ricordare vari passaggi in cui il filosofo ginevrino sottolinea come affinché esista una Repubblica incorruttibile e senza vizi – senza quindi la possibilità di collassare internamente –, sia indispensabile risolvere la contraddizione della diseguaglianza.
In una nota presente nel Cap. IX del Libro I del Contratto sociale è evidente infatti come prenda in considerazione il fatto che le leggi, pur legittime ed emanate democraticamente, non possono che esser contraddittorie se fatte in un sistema dove ci siano ricchi e poveri: «Di fatto le leggi sono sempre utili a chi possiede e nocive a chi non ha nulla. Perciò lo stato sociale giova agli uomini solo in quanto posseggono tutti qualcosa e nessuno di essi abbia qualcosa di troppo». Tuttavia, apparentemente in contraddizione col concetto esposto prima, afferma anche, nel Cap. I del Libro II, che «la volontà particolare tende per sua natura al privilegio, e la volontà generale all’uguaglianza». Riemerge quindi per più volte il pensiero rousseauviano del popolo intrinsecamente buono: se il sistema politico vigente è realmente democratico, le contraddizioni economiche si risolvono assieme a quelle politiche, perché eguaglianza e libertà sono strettamente collegate; tale ragionamento viene esposto nella maniera più chiara possibile nel Libro II, Cap. XI, dove sottolinea: «Se si cerca di stabilire in che cosa precisamente consiste il bene più grande di tutti che deve essere il fine di ogni sistema legislativo, si troverà che si riduce a questi due principali oggetti: libertà e uguaglianza. Libertà, perché ogni dipendenza particolare è altrettanta forza sottratta al corpo dello Stato; uguaglianza, perché la libertà non può sussistere senza di essa.» Poco più avanti chiarisce cosa si intende per uguaglianza – concetto ancora oggi reso grottescamente utopico volutamente da borghesi volti a ridicolizzare il socialismo, e involontariamente da ignoranti che danno ascolto alla borghesia –: «riguardo all’uguaglianza, non bisogna intendere la parola come se significasse che i gradi di potere e di ricchezza devono essere esattamente gli stessi, ma, quanto al potere, nel senso che esso non deve giungere a nessuna violenza e deve sempre esercitarsi sulla base del grado e delle leggi; quanto alla ricchezza, che nessun cittadino deve essere abbastanza ricco da poterne comprare un altro, e nessuno tanto povero da esser costretto a vendersi». Chiaramente per “comprare” e “vendersi” non si intende necessariamente lo stato di schiavitù, ma semplicemente il rapporto di forza che tende un povero a vendere la propria forza lavoro, il proprio tempo, quindi parte della propria vita (nel caso della schiavitù tutta la propria vita e tutta la propria forza lavoro) in cambio di una qualche sussistenza da parte del detentore di ricchezza (o capitale, mezzo di produzione); insomma solo l’uguaglianza garantisce l’indipendenza dei singoli – o meglio, si restringe il rapporto di dipendenza, escludendo la dipendenza cittadino-cittadino ed includendo la sola dipendenza (reciproca) cittadino-collettività.
Ma è nel “Discorso sulla disuguaglianza” che Rousseau approfondisce al meglio la contraddizione della ricchezza, dell’associazione, della dipendenza tra individui, e quindi della disuguaglianza, scrutando, anche qui attraverso ragionamenti logici e partendo da un esempio astratto ma pur sempre impostato sull’analisi del mondo reale, l’origine di tutti questi mali. Vediamo qui infatti come, verso la conclusione della Parte I, paragonando lo stato di civiltà e lo stato di natura, si possa trovare dipendenza e disuguaglianza solo nel primo: «Sento ripetere di continuo che i più forti opprimono i più deboli; ma mi si spieghi che si vuol significare col termine oppressione. Gli uni dominano con la violenza; gli altri gemeranno asserviti a ogni loro capriccio: è proprio ciò che vedo accadere tra noi, ma non immagino come si potrebbe dire lo stesso degli uomini selvaggi, a cui si durerebbe una gran fatica per far capire cos’è servitù e cos’è dominio. Un uomo potrà benissimo impadronirsi dei frutti che un altro ha colto, della selvaggina che ha ucciso, dell’altro che gli serviva da asilo; ma come potrà mai arrivare a ottenerne l’obbedienza, e quali catene di soggezione potranno esserci fra uomini che non posseggono nulla? Cacciato da un albero sono libero di andarmene sotto un altro; se sono tormentato in un luogo, chi mi impedirà di andarmene altrove? Può esservi un uomo tanto superiore a me per forza, e inoltre abbastanza depravato, pigro e feroce, da costringermi a provvedergli i mezzi di vita mentre se ne sta in ozio? Deve risolversi a non perdermi di vista nemmeno per un istante, a tenermi legato con la massima cura quando dorme, per paura che io non abbia a fuggire o a ucciderlo: è obbligato cioè a esporsi volontariamente a una fatica molto più grande di quella che vuole evitare e di quella che impone a me.» Insomma i rapporti di dipendenza, nello stato di natura, non possono che essere surreali, irrazionali e, al massimo, casi sporadici finiti male; «Senza dilungarsi inutilmente su questi particolari, ognuno deve capire che, nascendo i legami della servitù solo dalla mutua dipendenza degli uomini e dei reciproci bisogni che li tengono uniti, non è possibile asservire un uomo senza prima averlo messo in condizione di non poter fare a meno del suo simile; situazione che, non esistendo nello stato di natura, vi lascia ognuno libero dal giogo e rende vana la legge del più forte».
La forza, nello stato di natura, non è esercitata dunque per opprimere (cronicamente), ma per reprimere (temporaneamente); posso usare la forza per allontanare un mio simile o comunque un altro predatore se questo vuole condividere la mia preda e io la voglio tenere tutta per me, così come posso scacciare qualcuno da un “mio” limitato territorio pieno di frutti, ma tutto ciò ha un carattere temporaneo, ed anche se un ipotetico conflitto può comportare la morte di qualcuno per mano di un soggetto con più forza (o con più ingegno; o, meglio ancora, il più adatto), il tutto, nel suo complesso, non comporta alcuno stato di dipendenza. Semplicemente non ce n’è la necessità: tutto è praticamente di tutti, e l’unica cosa che legittima un uomo (o un qualsiasi animale) a possedere qualcosa è il proprio lavoro impiegato nell’ottenerlo – e la forza, nel caso sia usata per strapparglielo dalle mani, è la medesima contraddizione risolvibile nello stesso modo con cui abbiamo affrontato il tema della tirannia e dell’usurpazione più sopra –; nella Parte II del Discorso dice infatti: «(…) è impossibile far nascere l’idea di proprietà da qualcosa che non sia la mano d’opera». Tutte le altre legittimazioni di proprietà non sono altro che costrutti, certo necessari e nati spontaneamente col corso dello sviluppo, ma pur sempre costrutti, e ne parla soprattutto nel Contratto sociale, trattando comunque il “diritto del primo occupante” come il più ragionevole tra i vari diritti di dominio “artificiali”.
Con queste considerazioni possiamo vedere come ci sia dunque un certo cambiamento che ha portato gli uomini ad assoggettarsi a vicenda, un certo cambiamento che ci ha portati sì alla civiltà, ma anche a tutti i mali che son presenti nella nostra società, come viene eccellentemente detto all’apertura della Parte II: «Il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare, “questo è mio”, e trovò persone abbastanza ingenue da credergli fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quante uccisioni, quante miserie e quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che strappando i paletti i colmano il fossato, avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dall’ascoltare questo impostore. Se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, voi siete perduti”.»
È questo forse l’incipit di tutto il saggio; narrando nella tipica maniera di Rousseau, si giunge quindi ad una conclusione che oramai, almeno noi marxisti o socialisti, diamo per scontato, ma che nei tempi in cui il filosofo svizzero è vissuto, agli albori della classe borghese, nessuno pensava di porre come vaso di Pandora. La fonte di tutti i mali è dunque non la proprietà di per sé, ma la proprietà dei mezzi di produzione: la proprietà privata.
Ovviamente Rousseau è cosciente che il passaggio alla proprietà, e cioè alla civiltà, non sia stato così drastico come nell’esempio, più che altro narrativo e simbolico, esposto sopra; sempre nella Parte II afferma che «è molto probabile che allora le cose fossero già arrivate al punto di non poter durare così com’erano; infatti quest’idea di proprietà, dipendendo da parecchie idee antecedenti che non sono potute nascere se non in successione di tempo, non si formò tutt’a un tratto nello spirito umano: fu necessario fare molti progressi, acquistare molto abilità e molte cognizioni, trasmetterle ed arricchirle di generazione in generazione, prima di giungere a quest’ultimo termine dello stato di natura.» E più avanti: «Alla coltivazione delle terre seguì necessariamente la loro spartizione, e dal riconoscimento della proprietà derivarono le prime norme di giustizia; infatti, per attribuire a ciascuno il suo, bisogna che ciascuno possa avere qualcosa; inoltre, poiché gli uomini cominciavano a guardare all’avvenire, rendendosi conto di avere tutti qualche bene da perdere, nessuno si sottraeva al timore di subire le rappresaglie dei torti che poteva arrecare ad altri.» Infatti, come riassume l’origine materiale della proprietà anche Engels nell’Antidühring: «(…) i contadini trovano che è precisamente nel loro interesse che la proprietà privata del campo subentri alla proprietà comune. Anche la formulazione di un’aristocrazia naturale (…) in un primo tempo non poggiò affatto sulla violenza, ma sul consenso e sulla consuetudine. Dunque si costituisce la proprietà privata, questo accade in conseguenza di mutati rapporti di produzione e di scambio, nell’interesse dell’aumento della produzione e dell’incremento del traffico: quindi per cause economiche» [Pt. II, Cap. II].
Allo stesso modo si nota come già Rousseau capì che, oltre alla proprietà, la stessa autorità – che alla fine possiamo denominare come Stato e le sue leggi –, nata inizialmente come istituzione volta alla salvaguardia della libertà e della giustizia, finì per diventare uno strumento repressivo in mano ad una certa classe ora legittimata oltre che dal potere economico anche da quello politico. «Né sarebbe più ragionevole credere che i popoli, fin dal primo momento, si siano gettati in braccio a un padrone assoluto, incondizionatamente e irrevocabilmente, e che il primo mezzo di provvedere alla comune sicurezza escogitato da uomini fieri e indomiti sia stato di precipitarsi nella schiavitù. Infatti, perché si sono dati dei capi, non per così dire, gli elementi costitutivi del loro essere? (…) Pertanto, senza possibilità di contestazione, la massima fondamentale del diritto politico è che i popoli si sono dati dei capi perché difendessero la loro libertà e non perché li asservissero. “Se abbiamo un principe – diceva Plinio a Traiano – è perché ci guardi dall’avere un padrone”» [Discorso sulla disuguaglianza; Pt. II].
Engels naturalmente ci ricorda la medesima cosa più volte nell’Antidühring; qui un passaggio riassuntivo: «(…) lo Stato, al quale raggruppamenti naturali di comunità dello stesso ceppo erano giunti nel loro progressivo sviluppo in un primo tempo solo al fine di tutelare i loro interessi comuni (…) e per proteggersi dall’esterno, da ora in poi assume, nella stessa misura, il fine di mantenere con la forza le condizioni di vita e di dominio della classe dominante contro la classe dominata» [Pt. II, Cap. I].
Tornando alla questione della disuguaglianza, possiamo dire che questa è nata quindi dalla dipendenza tra individui, la cui esistenza della proprietà è strettamente legata, ma è allo stesso tempo dimostrabile che i frutti di tale male erano, in quel momento, più o meno inevitabili: la proprietà, già prima della sua istituzionalizzazione per via dello Stato e delle leggi, era di fatto presente per via di varie condizioni e fattori che l’hanno portata appunto a nascere, non di colpo, ma gradualmente e col passare del tempo, col perpetuarsi del possedimento di una terra: «Solo il lavoro dando dei diritti al coltivatore sul prodotto della terra che ha arato, gliene conferisce, di conseguenza, anche sul fondo, almeno fino alla raccolta, e così d’anno in anno, costituendo un possesso continuo che si trasforma facilmente in proprietà» [Discorso sulla disuguaglianza; Pt. II]. Alla fine «la disuguaglianza, essendo pressoché nulla nello stato di natura, trae la propria forza e il proprio incremento nello sviluppo delle nostre facoltà e dal progresso dello spirito umano, divenendo infine stabile e legittima per l’istituzione della proprietà e delle leggi» [Ibidem].
Insomma, seppure il Discorso sulla disuguaglianza sia esposto “alla Rousseau”, seguendo ragionamenti logici prendendo, realistici che siano, esempi e congetture astratte, il ginevrino nella sua opera segue comunquesia un processo dialettico, già prima che Hegel “formalizzasse”, “scoprisse” tale “modo di pensare”.
Rousseau ci mette infatti in guardia sin da subito alle sue congetture, nella Prefazione del Discorso: «Ho cominciato con qualche ragionamento; ho azzardato qualche congettura, meno nella speranza di risolvere il problema che nell’intento di chiarirlo e di ricondurlo ai suoi veri termini. Altri potranno facilmente proseguire per la medesima strada senza che per nessuno sia facile arrivare al termine. Non è infatti un’impresa da poco sceverare nella natura attuale dell’uomo ciò che è originario da ciò che è artificiale e conoscere bene uno stato che non esiste più, che forse non è mai esistito, che probabilmente non esisterà mai, e di cui tuttavia bisogna avere nozioni giuste per giudicar bene del nostro stato presente».
Rousseau nella sua opera parte infatti dall’individuo: l’uomo, da solo, è selvaggio, ma uguale agli altri; col passare degli incontri, delle interazioni, e con la realizzazione del fatto che più individui insieme abbiano più possibilità di sopravvivere – e su questo rimandiamo agli studi condotti da Kropotkin ne “Il mutuo appoggio” –, nasce l’associazione; quest’ultima porta in sé il seme della discordia: la consequenziale nascita della dipendenza tra individui, della proprietà, e di tutto ciò che deriva da essa: dalla “semplice” avarizia ed egoismo, alla povertà, alla guerra, al fraticidio. L’uomo è totalmente cambiato: pur non dovendosi più preoccupare di morire per via della natura, ora rischia di finir male o morire per via dei propri simili con cui si è associato; da essere ingenuo, semplice, e – secondo Rousseau – puro e buono, è passato all’essere sì razionale, ma arrogante, malvagio ed invidioso. Sempre nella Prefazione riesce a fare un paragone azzeccato: «Simile alla statua di Glauco, che il tempo, il mare e la tempesta avevano sfigurato a tal segno da renderla simile più a una bestia feroce che a un Dio, l’anima umana, alterata in seno alla società da mille cause che si ripresentano senza posa, dall’acquisizione di una quantità di conoscenze e di errori, dai mutamenti sopraggiunti nella costituzione dei corpi e dall’urto continuo delle passioni, ha, per così dire, mutato aspetto fino a diventare quasi irriconoscibile; e al posto di un essere che agiva sempre in base a princìpi certi e immutabili, al posto di quella celeste e maestosa semplicità a cui il suo creatore lo aveva improntato, si trova solo il contrasto informe della passione che crede di ragionare e dell’intelletto che delira.»
Per Rousseau, come ormai abbiamo capito, l’uomo, se non fosse condizionato da fattori esterni, è per per sua natura buono. Dall’ultimo passaggio citato possiamo però notare come Rousseau ammetta che l’uomo, ora civile, sia oramai cambiato: non è più buono come una volta. Seppur diversa, questa visione è tuttavia simile a quella dialettica di Hegel e poi di Marx ed Engels: l’uomo non è necessariamente né buono né cattivo: sono le condizioni materiali che lo costringono ad adattarsi, e “darwinisticamente” trionfa per forza di cose la tendenza ad adattarsi a tali condizioni. Ma queste condizioni non sono permanenti: la società, la civiltà umana, è passata per varie fasi, stadi che portavano con sé diverse contraddizioni che hanno alla fine, ad un certo punto, portato a stadi successivi, a susseguirsi. L’uomo ha dunque la possibilità, la potenzialità, e anche la necessità di cambiare finalmente pagina, levandosi di dosso quel fardello che è la proprietà privata, fin’ora stata strumentale e necessaria, ma che un giorno – anzi in teoria già ora – non servirà più. Proprietà privata: un vaso di Pandora che porta in sé pressoché tutti i conflitti presenti in una società civile, ma nata paradossalmente per necessità, col passare del tempo, in una associazione di individui.
Il “Contratto sociale”, come abbiamo visto analizzando i vari passaggi esposti sopra, pone una soluzione a tutti questi dilemmi, e la pone egregiamente. Tuttavia, Rousseau si limita ad esporre il modello politico ideale in maniera appunto… ideale. Non espone infatti i modi con cui raggiungere tale sistema, ma espone invece i ragionamenti che l’hanno portato ad elaborare un tale modello, volto appunto a risolvere le contraddizioni legate alla necessaria associazione di individui che a lungo hanno tormentato Rousseau (Il Contratto sociale è stato scritto a 50 anni, mentre il Discorso sulle scienze e sulle arti ed il Discorso sulla disuguaglianza sono stati scritti rispettivamente a 38 e a 43 anni).
Ma di che lamentarsi; ognuno è figlio del suo tempo, e Jean-Jacques è nato e vissuto in un’epoca che ci ha portato immensi contributi dal punto di vista intellettuale. Quelli erano i tempi del fervore da parte della più o meno neonata classe borghese; si sperava in un mondo nuovo, libero ed eguale… nella forma. I borghesi pensavano (e pensano ancora) che garantire certi diritti sulla carta bastassero: tutti sono uguali e la legge è dunque uguale per tutti; ma, come spiega anche Marx nella “Critica al Programma di Gotha”, il «diritto borghese», «come ogni altro diritto, presuppone la disuguaglianza. Ogni diritto consiste nell’applicazione di un’unica norma a persone diverse, a persone che non sono, in realtà, né identiche, né uguali. L'”uguale diritto” equivale quindi a una violazione dell’uguaglianza [nel senso in cui lo intende, come abbiamo visto, anche Rousseau] e della giustizia». Qui Marx parlava, nello specifico, del sistema retributivo, ma il discorso è applicabile a pieno anche sul lato politico, strettamente legato a quello economico: è inutile esser liberi di aprire un’attività e sancire la libertà di concorrenza, se la concorrenza stessa pone tutti su livelli drasticamente diversi sia per quanto riguarda i “punti di partenza” – svantaggiosi per la maggioranza e eccessivamente vantaggiosi per una minoranza – che l’attività stessa: i più grandi inglobano o fanno sopperire inevitabilmente i più piccoli, e ciò accade sia nel breve che nel lungo termine. A ragione Mazzini scriveva ne “Dei doveri dell’uomo” (Cap. XI): «La libertà di concorrere per chi nulla possiede, per chi, non potendo risparmiare sulla giornata, non ha di che iniziare la concorrenza, è menzogna, com’è menzogna la libertà politica per chi mancando d’educazione, d’istruzione, di mezzi e di tempo, non può esercitare i diritti». Insomma, concludiamo, come affermato anche nell’Antidühring [Pt. I, Cap. I], che «il mondo borghese ordinato secondo i princìpi di questi illuministi è irrazionale e ingiusto e trova il suo posto nel secchio dell’immondizia proprio come il feudalesimo e tutti i regimi sociali precedenti».
Tornando al nostro Contratto sociale, possiamo dire che i limiti che esso ha non potevano che esser quelli; nell’epoca di Rousseau il campo intellettuale illuministico predominante era quello politico: dopo aver «distrutti i rapporti feudali, patriarcali, idillici», gli illuministi, pressoché tutti intellettuali della borghesia, sognavano un mondo nuovo, e inizialmente si limitarono quindi a trascrivere i propri sogni a riguardo. Tutti gli illuministi contribuiranno a formare, plasmare tale mondo che ancora stava nascendo, che sarà sì nuovo, ma che si porterà dietro la medesima catena che ci siamo posti sulla schiena da quel maledetto “terreno cintato”. Dopo aver quindi «spietatamente stracciato i variopinti lacci feudali che legavano la persona al suo superiore naturale», ci siamo felicemente affogati «nelle gelide acque del calcolo egoistico»; «al posto delle innumerevoli libertà patentate e ben meritate» ci siamo ritrovati «l’unica libertà, quella di commerciare».
Rousseau è figlio e parte dell’illuminismo, ma non appartiene a quel filone che ha contribuito a formare quel mondo distopico in cui viviamo ora. Non a caso Voltaire – forse l’illuminista più amato odiernamente dalla classe borghese – dirà delle sue opere: «filosofia d’un miserabile che vorrebbe che i ricchi fossero derubati dai poveri». E, per quanto sciocco o malvagio, tale frase venne detta solo dopo la lettura del Contratto sociale, quando invece, in risposta al Discorso sulla disuguaglianza, riempì il ginevrino di tutti gli elogi possibili, riconoscendo dunque nella proprietà la fonte di pressoché tutti i mali, ma non volendo evidentemente estirparli. Si può dire che sin dall’inizio Rousseau andò di fatto controcorrente, e invece di esser – come lo erano i suoi contemporanei – precursore del pensiero liberale, possiamo dire che sia stato il precursore del socialismo: da lui si ispirarono Robespierre e i vari giacobini, Bolivar, e poi Babeuf e Buonarroti, questi ultimi che possono esser considerati forse i primi ad aver iniziato a dare una certa struttura teorica al socialismo (utopico). Gli stessi Marx ed Engels definirono Babeuf socialista, e in certi casi addirittura comunista.
E Rousseau, padre dei pensieri di Babeuf, non è da meno: nel Cap. X, Parte I, dell’Antidühring Engels lo elogia dicendo che il suo pensiero egualitario «ha un’importante funzione teorica, specialmente, grazie a Rousseau, pratico-politica durante e dopo la grande Rivoluzione [francese], è ancora oggi agitatoria nel movimento socialista di quasi tutti i Paesi», e anche se Engels non ha compreso appieno il Contratto sociale – affermando infatti nell’Introduzione all’Antidühring che «lo Stato secondo ragione, il contratto sociale di Rousseau, si realizzò, e solo così poteva realizzarsi, come repubblica democratica borghese» –, non ha dato invece una lettura superficiale, ma ha anzi fortunatamente ben più approfondito il Discorso sull’origine della disuguaglianza: nell’Antidühring [Pt. I, Cap. X], coglie il ragionamento di Rousseau, che «proprio per mezzo dei due uomini ha dimostrato, in modo parimenti assiomatico, il contrario [di ciò che sostiene Dühring; che seguendo lo stesso procedimento è finito con fallacie logica a conclusioni diverse]; cioè che, dei due, A può asservire B non con violenza, ma mettendo B in una posizione in cui questo non può fare a meno di A; il che per Dühring rappresenta una concezione già troppo materialistica». Tutto ciò seguendo un processo dialettico, ed Engels riconosce infatti tale particolarità nell’opera e nel pensiero di Rousseau, e riassume brevemente i ragionamenti seguiti nel Discorso: «perfino nella dottrina egualitaria rousseauiana, di cui la dühringiana è solo una cattiva copia falsificata, non viene alla luce senza che la hegeliana negazione della negazione debba far da levatrice, e per giunta quasi venti anni prima della nascita di Hegel. E ben lontana dal sentirne vergogna, ostenta quasi sfarzosamente nella sua prima presentazione il marchio della sua origine dialettica. Nello stato di natura e di selvatichezza gli uomini erano eguali; e poiché Rousseau vede nel linguaggio già una falsificazione dello stato di natura, ha completamente ragione nell’applicare, in tutta la sua estensione, l’eguaglianza degli animali di una specie determinata anche a questi uomini-animali che di recente Haeckel ha classificato, in via ipotetica, come alali, cioè privi di linguaggio. Ma questi uomini-animali, eguali tra di loro, avevano una qualità che li rendeva superiori agli altri animali: la perfettibilità, l’idoneità ad uno sviluppo ulteriore; e fu questa la causa della diseguaglianza. Nel sorgere della diseguaglianza Rousseau vede dunque un progresso. Ma questo progresso era antagonistico, ed era un tempo un regresso.
“Tutti gli ulteriori progressi” (che oltrepassano lo stato primitivo) “sono stati in apparenza altrettanti passi verso la perfezione dell’individuo, e in effetti versi la decrepitezza della specie… La metallurgia e l’agricoltura furono le due arti la cui invenzione produsse questa grande rivoluzione” (la trasformazione della foresta vergine in terra coltivata, ma anche l’introduzione della miseria e della schiavitù per opera della proprietà). “L’oro e l’argento per il poeta, ma per il filosofo sono il ferro e il grano che hanno civilizzato gli uomini e perduto il genere umano”.
Ogni nuovo progresso della civiltà è ad un tempo un nuovo progresso della diseguaglianza. Tutte le istituzioni che si dà la società nata con la civiltà si mutano nel contrario di quello che era il loro fine primitivo.
“È dunque incontestabile, ed è la massima fondamentale di tutto il diritto politico, che i popoli si sono dati dei capi per difendere la propria libertà e non per servirli.”
E tuttavia questi capi diventano necessariamente gli oppressori dei popoli e spingono questa oppressione sino al punto in cui la diseguaglianza, portata al suo culmine, si converte a sua volta nel suo contrario, diventa causa dell’eguaglianza: davanti al despota tutti sono eguali, ossia eguali a zero.
“È qui l’ultimo termine dell’ineguaglianza, è il punto estremo che chiude il cerchio e torna al punto da cui siamo partiti: ora tutti gli individui ridivengono eguali, perché non sono niente, e… i sudditi” (non hanno) “altra legge che la volontà del padrone”.
Ma il despota è padrone solo finché ha la forza, e perciò quando “lo si può cacciare non può reclamare contro la violenza… Solo la forza lo sorreggeva, solo la forza lo abbatte; tutto avviene in tal modo secondo l’ordine naturale”.È così che la diseguaglianza si muta a sua volta in eguaglianza, non però nell’antica eguaglianza naturale degli uomini primitivi privi di linguaggio, ma in quella più elevata del contratto sociale. Gli oppressori vengono oppressi. È negazione della negazione.
Qui abbiamo dunque, già in Rousseau, non solo un corso di idee che è perfettamente eguale a quello seguito nel “Capitale” di Marx, ma, anche nei particolari, tutta una serie di quegli stessi sviluppi dialettici di cui si serve Marx: processi che per loro natura sono antagonistici, contengono in sé una contraddizione, il convertirsi di un estremo nel suo contrario e finalmente, come nocciolo del tutto, la negazione della negazione. Se dunque Rousseau nel 1754 non poteva ancora parlare il gergo hegeliano, tuttavia, sedici anni prima della nascita di Hegel, era già profondamente corroso dalla peste hegeliana, dalla dialettica della contraddizione, dalla dottrina del logos, dal teologismo, ecc.» [Antidühring; Pt. I, Cap. XIII]. 

In conclusione; il concetto di Stato in quanto mezzo, strumento di repressione utilizzato dalla classe dominante non è nato da Marx. In quanto materialista e dialettico Marx – ed ovviamente Engels – non inventò di sana pianta il concetto di Stato, ma analizzò la situazione a lui attuale e la paragonò con le esperienze e le osservazioni passate. Molteplici concetti, princìpi, pensieri, analisi e conclusioni sono nati prima del marxismo, e noi marxisti dovremmo accettare che dobbiamo studiare non solo tutto ciò che è stato elaborato esclusivamente dal XIX secolo in poi; la storia non inizia lì, e abbiamo molto da imparare.
Marx ci ha dato gli strumenti e l’ottica critica per analizzare tutto ciò che si muove nella nostra materiale società, e ci ha lasciato anche insegnamenti sul come cambiare il presente e strutturare economicamente la società che verrà, ma «in quanto alle forme politiche di questo avvenire, Marx non si preoccupò di scoprirle» [Lenin, Stato e Rivoluzione; Cap. III, pt. 5]; per capire appieno come evitare ogni eventuale problematica politica legata alle sue contraddizioni strutturali-organizzative, dovremmo riprendere Rousseau.