DI EROS ROSSI E LEONARDO SINIGAGLIA
Le posizioni scomode sono le più importanti da tenere. Dal cuore dell’Impero anche una piccola deviazione dalla narrativa dominante viene vista come un peccato mortale, figuriamoci prendere direttamente le parti dei “nemici dell’Occidente”. E ciò è endemico. Lo abbiamo visto con la levata di scudi contro il supporto al presidente Lukashenko durante il tentativo di golpe liberale, o ancora con la vittoria di Castillo in Perù, con ambigui e pidocchiosi appelli a “non tifare”. La situazione si fa ancora più critica quando si analizzano soggetti non socialisti, come l’Iran, dove anche i più “formati” ed intellettuali dei “compagni” si fiondano prontamente a sostituire l’analisi materiale ai loro desideri e alle loro opinioni. “Se un paese non è socialista, e di quel socialismo preciso che esiste nella mia testa, non è da supportare in nessun caso”, questo si limitano a dire, in sostanza. La contraddizione che regola il mondo è secondo loro il principio manicheo reso materiale: bene e male, luce e ombra, senza mediazioni, senza evoluzioni, senza dialettica, eternamente opposti ed irriducibili. E questo porta le loro schiere a dire “né da una parte né dall’altra”, scegliendo così una ben più comoda uscita di scena, un rifiuto del mondo che, se evita stancanti sforzi intellettuali, condanna a vivere eternamente nel microcosmo della propria immaginazione.
Con la ormai avvenuta vittoria dei Talebani in Afghanistan la situazione è esattamente questa. I talebani non sono marxisti, ci mancherebbe. Sono sicuramente dei “fondamentalisti” religiosi, gente che vuole vivere secondo la legge islamica e quella codificata dai loro antenati, in gran parte ostile alla “religione dei diritti” codificata in Occidente come strumento identitario dell’imperialismo… ma questo non può viziare un’analisi materiale. Le convinzioni ideologiche e religiose dei talebani importano ben poco, questo a meno che non si accetti la narrazione dello “scontro di civiltà” tanto cara tanto alla destra liberale quanto a quella neofascista.
Per evitare di dire idiozie e di agire come utili idioti dell’imperialismo, serve iniziare con il chiedersi “Quale è la principale contraddizione che i popoli sperimentano ora?”, e un marxista, specie se non farlocco, non potrà che rispondere “Quella fra imperialismo e sovranità nazionale”, perché l’imperialismo attuale, condensato nell’azione militare del blocco atlantico e negli interessi economici del capitale finanziario occidentale, rappresenta la più grande e matura espressione del capitalismo, che per sua natura ora trova ostacolo nella resistenza dei popoli sottomessi, nella resistenza di miliardi di esseri umani che vengono sistematicamente spremuti per garantire all’Occidente la sua opulenza e il suo potere. Tracciata questa linea si capisce benissimo da che parte stare in ogni situazione. La realtà politica non è un volgare tifo. Non si sostiene per identità, ma per le condizioni materiali dello scontro. Non si è obbligati dal socialismo e dall’analisi marxista a sostenere qualsiasi gruppuscolo che, fregiatosi della falce e del martello, collabori attivamente contro i paesi socialisti o porti avanti azioni controproducenti e dannose, come non si deve guardare con una ridicola miopia a qualsiasi rivolgimento che non abbia in testa la bandiera rossa.
Se nel contesto della lotta fra mondo unipolare e mondo multipolare, fra imperialismo americano e “asse della resistenza” abbiamo un paese che caccia via gli occupanti occidentali e i loro collaborazionisti locali, la notizia non può che essere positiva e salutata come evento propedeutico all’emancipazione dei lavoratori di tutto il mondo. E questo a prescindere se coloro che combattono per l’indipendenza nazionale siano dichiaratamente socialisti, accomunati dalla fede religiosa o altro: dove sta l’imperialismo occorre schierarsi contro di esso. E questo è vero da Caracas a Kabul.
Da che parte stare? E’ semplice, da quella che persegue l’indipendenza nazionale contro le mire imperialiste. E questa parte, al momento, sono i talebani. Sì, certamente una repubblica democratica e socialista sarebbe meglio, ciò è verissimo, come sarebbe meglio se la manna cadesse dal cielo e se i fiumi fossero colmi di latte e nettare. Qua non parliamo di desideri, ma di realtà. E la realtà è questa: o i talebani o i marines. Se si è in dubbio evidentemente serve riconsiderare la propria ideologia politica.
Ricordiamo le parole di Iosif Stalin, importanti in quanto si rifacevano alla stessa situazione afgana: “Nelle condizioni dell’oppressione imperialistica, il carattere rivoluzionario del movimento nazionale non implica necessariamente l’esistenza di un programma rivoluzionario o repubblicano del movimento, l’esistenza di una base democratica del movimento. La lotta dell’emiro afgano per l’indipendenza dell’Afghanistan è oggettivamente una lotta rivoluzionaria, malgrado il carattere monarchico delle concezioni dell’emiro e dei suoi seguaci, poiché essa indebolisce, disgrega, scalza l’imperialismo” (I. Stalin, “Principi del leninismo”). Ciò è vero anche oggi, ancor di più essendo l’emirato sostanzialmente diverso rispetto a ciò che si poteva vedere un secolo fa. Si potrebbe obiettare, giustamente, che i gruppi islamici siano stati in un primo momento finanziati dallo stesso imperialismo per minare il socialismo in Afghanistan, e pur essendo vero sarebbe parte di un’analisi errata: il fatto che in passato i Mujaheddin, finanziati dagli Stati Uniti, abbiano svolto un ruolo filo-imperialista, non impedisce ai talebani di oggi di svolgere un ruolo antimperialista, relativamente rivoluzionario. La situazione e le parti in campo sono cambiate profondamente. Il futuro Emirato sarà presto riconosciuto dalla Repubblica Popolare Cinese, dalla Federazione Russa e dall’Iran, ha già un posto assicurato in seno alla “Belt and Road Initiative”, e si è impegnato a combattere i fondamentalisti Uiguri finanziati dagli Stati Uniti, impedendo loro l’ingresso nel paese e distruggendone i contatti. Non a caso le ambasciate di questi paesi non stanno venendo evacuate in queste ore, mentre sono sotto gli occhi di tutti le scene umilianti che replicano Saigon nel ‘75: ancora una volta gli americani fuggono dal tetto della loro ambasciata, incalzati da un popolo che ha contrapposto la volontà e il coraggio alla supremazia tecnologica. Non ci può essere quindi il minimo dubbio: la parte da sostenere è chiara.
La storia, insomma, si ripete, e non si notano solo parallelismi col Vietnam, ma anche, sotto un’ottica diversa, con i vari estremisti – siano essi religiosi o politici – che son stati inizialmente finanziati dalle potenze imperialiste e che si sono poi ritorte contro le stesse (spesso senza però, sottolineiamo, cambiar la propria sostanza e diventando uno strumento antimperialista come lo sono ora i talebani). Si pensi dal punto di vista politico ai regimi fascisti nati come reazione alle ondate rosse che stavano travolgendo il mondo il secolo scorso, o alle molteplici organizzazioni terroristiche basate sul fondamentalismo, in genere, islamico; al Qaeda è certamente un esempio calzante, ma lo sta diventando verosimilmente anche l’Isis, anche se oramai è in forte crisi e prossima, si spera, a scomparire.
E proprio all’Isis si tende erroneamente a paragonare i talebani, ignorando innanzitutto che siano da anni in conflitto tra loro (almeno dal 2015), e che hanno assicurato giusto recentemente al mondo intero che non ospiteranno né terroristi Uiguri né miliziani dell’Isis né altri tipi di fondamentalisti nei propri territori, riconfermando la reciproca inimicizia e il proprio cambiamento sostanziale anche sotto questo punto di vista religioso [dichiarazione dei talebani riportata da Sputnik e Mint https://www.livemint.com/news/world/taliban-says-will-not-let-isis-become-active-in-afghanistan-11626969261480.html], tant’è che gli USA stessi, nonostante siano in conflitto con i talebani da 20 anni, hanno ammesso pubblicamente che grazie ai talebani l’isis del Khorasan si sta indebolendo [dichiarazione dell’ufficiale statunitense antiterrorismo https://www.google.com/amp/s/www.voanews.com/south-central-asia/us-admits-taliban-offensive-whittling-iss-grip-afghanistan%3famp], e, fidandosi, sono recentemente finiti per cercare di supportare sottobanco i talebani nella loro lotta contro l’Isis [articolo del Washington post https://www.washingtonpost.com/outlook/2020/10/22/taliban-isis-drones-afghanistan/].
Le differenze tra l’Isis e i talebani, anche se agli occhi di un occidentale sembrano approssimative, sono in verità abissali e sostanziali. L’Isis è nato da una frangia estremista di Al Qaeda e, da come dice il nome stesso, lotta per la fondazione di uno “Stato islamico”, e i confini ideali di tale Stato sono piuttosto sfumati, e spaziano dal comprendere tutto il mondo islamico dal Maghreb fino al Pakistan ed il Bangladesh, alla comprensione del mondo intero sulla base del principio della forzata conversione; in ambo le visioni irredentiste, è palese come la (improbabile) vittoria di tale organizzazione comporti necessariamente ad una svolta imperialista simile a quella perpetuata dall’occidente, pur sotto spoglie e motivi drasticamente diversi. Parlando del presente e degli ultimi anni, i talebani, a differenza dell’Isis, non combattono per un generico ed omnicomprensivo Stato islamico, ma per l’Emirato dell’Afghanistan, con un carattere quindi puramente nazionale e non imperiale; si può discutere se il carattere nazionale sia accessorio a quello religioso o viceversa, ma ciò è ininfluente: i fondamentalisti talebani non hanno alcuna intenzione di convertire o conquistare; hanno come semplice obiettivo quello di rendere l’Afghanistan indipendente ed islamico nei suoi costumi.
Quindi sì, anche i talebani sono fondamentalisti, e seppure impossibili da comparare alle modalità, alla sostanza, e agli obiettivi dell’Isis, condanniamo comunque indubbiamente le varie pratiche ai nostri occhi retrograde e barbare quali l’imposizione del velo (anche qui da dire differente da quello voluto da tanti altri fondamentalisti che copre il volto intero), la censura di certe immagini spesso innocue, la pena di morte come pena religiosa, ecc.; ma in quanto marxisti non possiamo non ricordare che non abbiamo alcun titolo di imporre la nostra visione del mondo e il nostro modo di vivere a popoli a noi esterni: il principio di autodeterminazione è sacrosanto, e l’indipendenza nazionale è il primo passo affinché un popolo si indirizzi verso la lotta per il socialismo.
“Diritto all’autodecisione, cioè: solo la nazione stessa ha il diritti di decidere il proprio destino, nessuno ha il diritto di intromettersi a forza nella vita di una nazione, di distruggerne le scuole e altre istituzioni, di abolirne le usanze e i costumi, di vietarne la lingua, di menomarne i diritti.
Questo non significa certo che la socialdemocrazia sosterrà indistintamente tutte le usanze e le istituzioni di una nazione. Lottando contro la violenza esercitata ai danni di una nazione, essa difenderà solo il diritto della nazione a difendere il proprio destino e condurrà nel tempo stesso un’agitazione contro le usanze e le istituzioni dannose di questa nazione, affinché i lavoratori possano liberarsene.
(…) Ciò non significa naturalmente che la socialdemocrazia debba difendere qualsiasi rivendicazione di una nazione. Una nazione ha diritto di tornare anche ai vecchi ordinamenti, ma questo non significa ancora che la socialdemocrazia sottoscriva la decisione di questo genere, presa da una qualunque istituzione nazionale. I doveri della socialdemocrazia, che difende gli interessi del proletariato, e i diritti della nazione, che è composta da diverse classi, sono due cose diverse” (Stalin, “La questione nazionale” Cap. II).
In Afghanisfan si instaurerà una forma più o meno “democratica” (parlamentare) di teocrazia – simile all’Iran, con un presidente e, al posto dell’ayatollah sciita, un hibatullah sunnita che funge anche da emiro –: è vero, ma “Lenin ha ragione quando afferma che il movimento nazionale dei paesi oppressi si deve considerare non dal punto di vista della democrazia formale, ma dal punto di vista dei risultati effettivi nel bilancio generale della lotta contro l’imperialismo, cioè «non isolatamente, ma su scala mondiale»” (Stalin, “Principi di leninismo“).
Ci si potrà rispondere che tali considerazioni sono valide quando il popolo è soggiogato direttamente da una potenza esterna, ma anche se l’Afghanistan è formalmente una repubblica, con quale faccia si vuole affermare che tutta la cerchia di politici non è collegata (e calata dall’alto) direttamente dagli Stati uniti e i suoi altri servi-sciacalli occidentali? Con quale faccia si vogliono ignorare i 20 anni di occupazione, legittimata da un presunto attacco terroristico con invero scarsissimi legami con l’Afghanistan, che hanno portato a centinaia di migliaia di morti e a milioni tra sfollati, orfani e poveri? Questo è l’imperialismo; nei nostri tempi, nel capitalismo avanzato non serve più occupare un Paese formalmente: sostanzialmente l’occupazione resta occupazione.
Oltre all’ingenuo paragone all’Isis nel campo religioso, pare che certi paragonano anche il contesto siriano con quello afgano. Niente di più folle. La situazione in Siria è più simile a quella dell’Afghanistan durante il periodo sovietico, quando il governo legittimo richiese l’intervento sovietico contro gli attacchi dei vecchi mujaheddin, a loro volta finanziati dalle potenze occidentali in funzione anti-sovietica. In Siria abbiamo Assad che chiama la Russia e l’Iran (non certo per interessi internazionalisti in quanto non sono Paesi socialisti; ma hanno comunque una funzione positiva anche nella loro ottica di reciproco aiuto economico) in risposta agli attacchi dell’Isis, finanziati ed armati da Israele, USA, e tutta la bella e solita combriccola di criminali. Nell’Afghanistan del secolo scorso, così come in Siria oggi, era da sostenere il legittimo governo e l’intervento esterno richiesto per riappacificare il Paese. Nell’Afghanistan di oggi non abbiamo un governo legittimo, ma un governo fantoccio creato da 0 dall’esterno all’inizio di questo secolo, un governo burattino con i fili attaccati al grande burattinaio che è la NATO; e dall’altra parte chi abbiamo? Abbiamo i talebani, non finanziati più da alcuna potenza imperialista, in quanto non più comodi contro alcun Paese lì presente. Abbiamo talebani che son stati attaccati dagli stessi vecchi alleati in quanto comodi per legittimare un intervento degli imperialisti nella loro terra, ricca di oppio, litio, petrolio, oro, e ferro, quest’ultimo di qualità tra le più alte del continente. Abbiamo talebani che – non importa cosa si dica qui da noi – sono sostenuti dalla stessa popolazione che anni fa attaccavano, in quanto visti come partigiani patrioti contro un’occupazione di uomini bianchi, cristiani o materialisti infedeli, che li massacrano da più di 20 anni. Molto è passato dall’intervento e dalla resa del più grande Paese socialista, e le condizioni sono cambiate così tanto che quelli che prima erano paragonabili più o meno all’Isis, pur avendo a differenza di questi ultimi già dall’inizio una immensa vastità di filoni interni in contraddizione tra loro (tra più fondamentalisti e meno fondamentalisti), ora sono passati per essere quelli che libereranno, anzi hanno liberato, il Paese dal perenne invasore.
Citiamo ancora La Questione nazionale [Cap. III]: “I tartari della Transcaucasia, come nazione, possono riunirsi, supponiamo, in una loro Dieta, e, sottomettendosi all’influenza dei loro bey e mullah, possono restaurare nel loro paese i vecchi ordinamenti, decidere la separazione dello Stato. Secondo il principio di autodeterminazione, hanno pieno diritto di farlo. Ma sarebbe conforme agli interessi dei lavoratori della nazione tartara? Può forse la socialdemocrazia considerare con indifferenza il fatto che i bey e i mullah trascinano al loro seguito le masse per la soluzione alla questione nazionale? (…) Tutti questi sono problemi la cui decisione dipende dalle condizioni storiche concrete nelle quali si trova la nazione data. Anzi, le condizioni, come ogni altra cosa, mutano, e una decisione, giusta in un dato momento, può palesarsi assolutamente sbagliata in un altro momento. Verso la metà del secolo XIX Marx era per la separazione della Polonia russa, e aveva ragione, perché allora si trattava di liberare una cultura superiore da una inferiore, che l’annientava. E la questione esisteva allora non solo in teoria, accademicamente, ma in pratica, nella vita stessa… Alla fine del secolo XIX i marxisti polacchi si esprimono già contro la separazione della Polonia, ed anch’essi hanno ragione, perché negli ultimi cinquant’anni sono avvenuti profondi mutamenti nel senso di un ravvicinamento economico e culturale della Russia e della Polonia. Inoltre in questo periodo la questione della separazione si trasforma da argomento pratico in argomento di dispute accademiche che preoccupano forse soltanto gli intellettuali emigrati. Ciò non esclude, s’intende, la possibilità di certe circostanze interne ed esterne, nelle quali il problema della separazione della Polonia possa ridiventare un problema d’attualità. Ne consegue che la soluzione della questione nazionale è possibile solo in relazione alle condizioni storiche, considerate nel loro sviluppo.”
In questo momento non ci sono terze alternative in Afghanistan: non c’è alcun movimento socialista rilevante; o si sta dalla parte degli imperialisti invasori che massacrano la popolazione e la costringono alla povertà strappando dalle loro mani le risorse che hanno, o si sta dalla parte del partigiano fondamentalista che vuole liberare dal giogo straniero la propria terra per poi instaurare un regime teocratico. Il movimento socialista afgano doveva indubbiamente cercare di far sorgere coscienza nazionale, di classe, e politica alla popolazione indigena, ma non c’è riuscito è anche dir poco: sono praticamente inesistenti. Ad innescare la coscienza nazionale, o meglio a sfruttare la coscienza già presente nella popolazione (visto i lunghi anni di torture sotto l’invasore), con fini indipendentistici, ce l’hanno fatta i talebani, e con tale consenso egemonico presente pressoché su tutto il territorio nazionale – tranne Kabul in quanto città abbastanza occidentalizzata culturalmente – sono riusciti a portare la propria linea e la propria visione del mondo religiosa e non di classe e materialista.
Sarà poi tale regime da “sostenere” anche in futuro? Questa è una domanda più che legittima, ed è ovvio che così come le condizioni sono cambiate nel giro di 20-30 anni, così potrà cambiare di nuovo nel giro di anche meno tempo. La funzione rivoluzionaria dei talebani è infatti stata più o meno già esaurita. Oltre alla raggiunta indipendenza, nel primo periodo penseranno sicuramente anche alla crisi alimentare e alla povertà; il ministro talebano degli affari religiosi, al-Ḥajj Maulwi Qalamuddin, dichiarò infatti al The New York Times che: «Ad una nazione in fiamme il mondo vuol dare un fiammifero. Perché c’è tutta questa preoccupazione per le donne? Il pane costa troppo. Non c’è lavoro. Anche i ragazzi non vanno a scuola. Eppure sento solo parlare delle donne. Dov’era il mondo quando qui gli uomini violavano tutte le donne che volevano?». Sull’istruzione invece è verosimile che emergeranno presto i vari vizi che si porta dietro la loro visione islamica del mondo. Affermano che il diritto delle donne ad istruirsi sarà rispettato; stando a ciò che hanno fatto fino ad ora quando sono stati a potere, possiamo dire che in parte, cioè formalmente, è vero: «Secondo una ricerca condotta dal Comitato Svedese per l’Afghanistan (SCA), quasi l’80% delle scuole femminili situate nelle aree rurali sotto l’amministrazione dello Stato Islamico dell’Afghanistan sta operando a pieno regime», ma la cultura che hanno contribuito ad inculcare nella popolazione dimostra un quadro più critico: secondo un rapporto dell’UNESCO «L’editto dei talebani sull’educazione femminile ha portato ad un calo del 65% nelle loro iscrizioni. Nelle scuole gestite dal Direttorato dell’Educazione, solo l’1% degli studenti è composto da ragazze. Anche la percentuale di insegnanti donne è scivolata dal 59,2 per cento del 1990 al 13,5 per cento del 1999». Riguardo la sanità, un portavoce dei talebani sostenne che: «Le strutture sanitarie per le donne sono aumentate del 200% durante l’amministrazione dei talebani. Prima che il Movimento Islamico dei talebani prendesse il controllo di Kabul, c’erano solo 350 letti negli ospedali della città. Attualmente ci sono più di 950 letti per le donne in ospedali a loro riservati»; chiaramente le fonti di questi ultimi dati sono discutibili in quanto di parte, ma è già verosimilmente uno strano segnale agli occhi degli occidentali vedere un talebano che cerca di inventarsi numeri affermando di star aiutando la popolazione femminile.
Insomma sulle conquiste e i diritti sociali i talebani avranno, com’è ovvio che sia, i propri limiti, ma hanno raggiunto il principale compito che spettava loro, che era la sconfitta dell’invasore.
Ai socialisti afgani, ed esclusivamente loro, ora sta il solito compito di noi socialisti: far capire alla popolazione che né il governo fantoccio e né il governo teocratico sono la soluzione ai loro problemi. Alla popolazione afgana, così come alla popolazione tutto il mondo, compresi noi bianchi e perfettini occidentali civilizzati con un’altissima morale, serve ora prender coscienza di classe, per poi prender coscienza politica e conquistare finalmente il diritto di detenere le redini dei propri destini. Questa della borghesia straniera cacciata via a zampate è solo il primo passo.
In conclusione, “sostenere” indirettamente i talebani in chiave anti-USA ed anti-NATO, insomma in chiave anti-imperialista, al netto di facili e pigre critiche, non è una presa di posizione frutto di un’analisi semplicistica. Il contrario; è semplicistico pensare che, in quanto i talebani siano rispetto alla nostra società reazionari, non siano da sostenere né loro né l’impero atlantico. Lavarsi le mani ed aspettare che la rivoluzione cali dall’alto non è da socialisti.