Rispondiamo ai signori della Piattaforma comunista, che ci hanno interpellato criticando noi e la nostra linea nella loro rivista “Scintilla” (n. 118) [qui il link al pdf].
Critica piuttosto casuale, visto che concordiamo su moltissimi (non tutti) temi che hanno affrontato nel loro sito, condividendo le analisi anche su questioni che stanno dividendo la cosiddetta estrema sinistra (es.: green pass, la ritirata dall’Afghanistan, ecc.). In parte quindi ci stupiamo di tale presa di posizione contro il nostro Movimento; diciamo “in parte”, perché su molte analisi, soprattutto quelle sui Paesi o esperienze estere, siamo spesso in netto contrasto, e questo lo vedremo nel corso della critica.
Finite le smancerie nei loro confronti, passiamo alla nostra risposta.

Premessa e preambolo

Non avevamo la minima intenzione di toglier tempo ai militanti per rispondere alle varie accuse mosse dalla rivista “Scintilla”, della “Piattaforma comunista”, ma, così come è stato chiesto a loro una opinione su di noi, così ci è stato suggerito da qualcuno – certi loro militanti compresi – di rispondere.
Citeremo più volte il nostro Manifesto “Un futuro per l’Italia”, pur facendo notare, a quelli che eventualmente si avventureranno nella lettura di tale testo (disponibile sul sito in questo link), che il Manifesto non è ancora in piena regola ufficiale, in quanto doveva esser approvato in sede del I Congresso del Movimento, che, volendolo fare in presenza, è stato rimandato per via del covid. Lo citeremo comunque perché in linea di massima il Manifesto verrà approvato probabilmente senza grosse modifiche, in quanto tutto ciò che è lì presente è praticamente frutto di un pensiero pressoché egemone all’interno di M-48; saranno verosimilmente corretti singoli passaggi e vari errori di battitura. Possiamo dunque dire che il Manifesto è, se non ufficiale, almeno ufficioso, e perciò già pubblico e disponibile ad ogni interessato.

Apriamo la risposta ribadendo ancora che non era nostra intenzione rispondere, in quanto la critica con cui abbiamo a che fare è stata scritta da una o più mani che non hanno aperto verosimilmente una singola pagina né del Manifesto, né del sito nel suo complesso, se non dando una veloce svista ai suoi vari scompartimenti e a quante pagine ci sono nel Manifesto. Ci è quindi sembrato, e ci sembra ancora, abbastanza ridicolo porre una risposta, ma a quanto pare la critica di Scintilla, per esser tornata alle nostre orecchie, è passata sotto qualche occhio.
È opportuno quindi fare chiarimenti, visto che verosimilmente, così come Scintilla, molti altri che hanno sentito parlare di M-48 si son limitati a sentire il chiacchiericcio senza prendersi la briga di studiare seriamente le nostre posizioni per poi, nel caso, legittimamente e costruttivamente criticarci.

Oltre a ciò, possiamo dire che ribattendo molti punti che trattano di svariati argomenti, abbiamo scritto una sorta di Manifestino, o compendio di ciò che abbiamo già esaustivamente scritto nel Manifesto. Sotto questo punto di vista è stato quindi positivo rispondere alla critica senza capo né coda di Scintilla.

Risposta

Basta leggere il nostro Manifesto per capire che i signori della “Piattaforma” non abbiano aperto neanche una pagina, tant’è che né nel Manifesto né sul sito è mai stato citato Corridoni.
Parliamo delle nozioni, in quanto ci si accusa perfino su certe sciocchezze simili; già solo nel Manifesto, su 210 pagine, troviamo 291 volte “socialismo” o “socialista”, 134 volte “classe”, 83 volte “lavoratori”, 44 tra “proletari” e “proletariato”, 206 volte tra “padroni” e “borghesi(a)”, e si parla di internazionalismo ben 58 volte. È buffo il fatto che ci si accusa di esser “socialsciovinisti per un Paese imperialista”, quando allo stesso tempo, magari non loro ma altri, ci beffeggiano per il presunto “sostegno ai talebani”. Forse abbiamo un qualche feticcio sadomaso nel vedere il nostro glorioso esercito sciovinista venir cacciato dai partigiani afghani.
Se qualcuno ha il prurito quando si parla di “Patria”, evidentemente soffre da trotskismo.

Anche la parola “popolo” sembra esser rigettata da qualcuno. Probabilmente anche Lenin era un revisionista e non sapeva ben utilizzare la nozionistica marxista, visto che parla di “popolo” e movimenti “popolari” una cinquantina di volte già solo nel suo “Stato e Rivoluzione” – usa la stessa terminologia naturalmente anche in tutti i suoi altri scritti, ma ci limiteremo in questa sede a citare solo Stato e Rivoluzione, in quanto è strutturato in un certo senso come una sorta di “manifesto del leninismo”.
«Ora, la dittatura del proletariato, vale a dire l’organizzazione dell’avanguardia degli oppressi in classe dominante per reprimere gli oppressori, non può limitarsi a un puro e semplice allargamento della democrazia. Insieme a un grandissimo allargamento della democrazia,  divenuta per la prima volta una democrazia per i poveri, per il popolo, e non una democrazia per i ricchi» [cap. V; pt. 2] – che strano, non ha parlato di lavoratori qui, ma solo di oppressi ed oppressori… sarà un revisionista.
«Noi siamo per la repubblica democratica, in quanto essa è, in regime capitalista, la forma migliore di Stato per il proletariato, ma non abbiamo il diritto di dimenticare che la sorte riservata al popolo, anche nella più democratica delle repubbliche borghesi, è la schiavitù salariata.» [cap. I; pt. 4] – ma come, schiavitù salariata riservata al popolo? Qui pare che usi il termine come un sinonimo di “proletariato”… è probabilmente impazzito.
In altri passaggi, così come Marx, parla anche di “popolo armato” ed “esercito popolare“; intenderà forse armare anche i borghesi? Ci state facendo sorgere molti dubbi effettivamente..
«Se si prendono come esempio le rivoluzioni del ventesimo secolo, bisogna ben riconoscere che sia la rivoluzione portoghese che la rivoluzione turca furono rivoluzioni borghesi. Ma né l’una né l’altra furono “popolari”; né nell’una né nell’altra, infatti, la massa del popolo, la sua stragrande maggioranza, agì in modo attivo, indipendente, con le sue particolari esigenze economiche e politiche. La rivoluzione borghese russa del 1905-1907, invece, pur non avendo ottenuto i “brillanti” successi riportati in certi momenti dalle rivoluzioni portoghese e turca, fu incontestabilmente una rivoluzione “veramente popolare”, poiché la massa del popolo, la sua maggioranza, i suoi strati sociali “inferiori”, più  profondi, oppressi dal giogo e dallo sfruttamento, si sollevarono in modo  indipendente e lasciarono su tutta la rivoluzione l’impronta delle loro esigenze, dei loro tentativi di costruire a modo loro una nuova società al  posto dell’antica ch’essi distruggevano.» [cap. III; pt. I].
«Nell’Europa del 1871, il proletariato non formava la maggioranza del popolo in nessun paese del Continente. Una rivoluzione poteva essere “popolare”, mettere in movimento la maggioranza effettiva soltanto a condizione di abbracciare il proletariato e i contadini. Queste due classi costituivano allora il “popolo”. Queste due classi sono unite dal fatto che la “macchina burocratica e militare dello Stato” le opprime, le schiaccia, le sfrutta. Spezzare questa macchina, demolirla, ecco il vero interesse del “popolo”, della maggioranza del popolo, degli operai e della maggioranza dei contadini, ecco la “condizione preliminare” della libera alleanza dei contadini poveri con i proletari. Senza quest’alleanza non è possibile una democrazia salda, non è possibile una trasformazione socialista.» [Ibidem].
Se non s’era capito prima, da questi ultimi due passaggi emerge indiscutibilmente ciò che vuol dire “popolo” e quindi “popolare”. In Italia la maggioranza della popolazione cos’è? Borghese? La critica nell’utilizzo della parola “interclassista” di “popolo” può ancora oggi reggere? O ormai la classe nettamente maggioritaria è quella dei lavoratori? Lasciamo la domanda aperta a riflessione; per noi la risposta è ovvia, e ne abbiamo già parlato nel nostro documento “Considerazioni sui rapporti di classe in Italia” [qui il link], oltre, ancora, all’esaustivo Manifesto, dove abbiamo, con tanto di soliti passaggi di Marx, Engels e Lenin – visto che dei dogmatici che hanno bisogno di bollini col certificato dobbiamo pur sempre prendere in considerazione –, analizzato anche le “Contraddizioni fra piccola e grande borghesia” nell’omonimo capitolo; inoltre, abbiamo ampiamente parlato del concetto di popolo e della sua evoluzione nella Tesi I del nostro Manifesto, ripercorrendo la storia dall’antica Roma, evidenziando come quel termine che un tempo voleva rappresentare solo i cittadini aristocratici, oggi ha cambiato totalmente di significato in quanto è mutato anche il raggio di cittadinanza stesso.
Per popolo dunque, attualmente, cosa intendiamo? A questo punto dovrebbe essere chiaro: lavoratori (dipendenti ed indipendenti), pensionati, e studenti, la cui avanguardia è rappresentata inevitabilmente dalla classe proletaria, che ha il compito di dirigere il popolo: «Educando il partito operaio, il marxismo educa una avanguardia del  proletariato, capace di prendere il potere e di condurre tutto il popolo al socialismo, capace di dirigere e di organizzare il nuovo regime, d’essere il maestro, il dirigente, il capo di tutti i lavoratori, di tutti gli sfruttati, nell’organizzazione della loro vita sociale senza la borghesia e contro la borghesia. L’opportunismo oggi dominante educa invece il partito operaio in modo da farne il rappresentante dei lavoratori meglio retribuiti, che si staccano dalle masse, “si sistemano” abbastanza comodamente nel regime capitalistico e vendono per un piatto di lenticchie il loro diritto di primogenitura, rinunciando cioè alla loro funzione di guida rivoluzionaria del popolo nella lotta contro la borghesia.» [Stato e Rivoluzione. Cap. II; pt. 1]

Del “sovranismo” ne abbiamo parlato, anche lì, nel Manifesto. Riportiamo qui il (lungo) passaggio che troviamo più significativo sul tema, per i più pigri:
«Occorre combattere le tendenze riformiste ed opportuniste delle forze che non sono interessate ad altro che a perpetuare il presente sistema e i suoi rapporti di classe. In particolare abbiamo visto la creazione in questi ultimi anni di due campi “contrapposti”: quello “sovranista”, composto principalmente da conservatori con diverse gradazioni di sfiducia nei confronti dell’Unione Europea e un’attenzione generalmente rivolta verso i fenomeni migratori, e quello liberal-progressista, che assume nelle sue appendici estreme la definizione di “social-democratico”, assolutamente acritico ed entusiasta delle istituzioni europee ed emanazione politica della classe medio-alta cosmopolita delle grandi città. Partiamo dal campo sovranista, il quale necessita particolare attenzione data l’attrattività che ha avuto fra le masse, attrattività che ben si spiega vista la natura delle domande basilari di sicurezza, stabilità e prosperità alle quali risponde, dando tuttavia ad esse soluzioni antitetiche rispetto agli interessi popolari. Si può pensare che i “sovranisti” dovrebbero esprimere l’aspirazione all’indipendenza del Paese da ogni apparato sovranazionale ed applicare una politica orientata al mantenimento dei beni pubblici e nazionali, oltre che a garantire il rispetto dei diritti della cittadinanza, ma in realtà i “sovranisti” in Italia ad oggi rappresentano nella maggior parte dei casi semplicemente la nuova uniforme della vecchia destra conservatrice, con la quale condividono humus culturale ed orizzonte politico, che su reazione ad uno scontento popolare hanno impostato una critica apparentemente dura, ma in realtà di cartone, all’Unione Europea, soprattutto con l’obiettivo della difesa della borghesia nazionale dagli attacchi di quella franco-tedesca. Ma auspicano realmente queste forze ad un’uscita dall’Unione? Assolutamente no. Partiti politici parlamentari come Lega e Fratelli d’Italia, ma anche il Movimento 5 Stelle, inizialmente hanno fatto un cavallo di battaglia dell’uscita dall’Ue e dell’abbandono della moneta unica a favore di quella nazionale, salvo abbandonare ogni velleità indipendentista appena giunti nella “stanza dei bottoni”, come nel caso del primo e del secondo governo Conte, durante i quali si è compiuto definitivamente il processo di normalizzazione dei 5 Stelle, e l’insindacabile smascheramento del partito di Salvini come forza sistemica. E rispetto alla NATO, vincolo esterno di non minore importanza, come si pongono i “sovranisti”? Il patto atlantico non è minimamente messo in discussione, quando non apertamente sostenuto e propugnato da questa compagine.
In sintesi in cosa consiste il “sovranismo” rappresentato da queste forze? Nel mantenimento di un sistema conservatore ma che avvantaggi la borghesia nazionale, ovvero la tutela delle classi abbienti che risiedono all’interno del nostro Paese, non solo contro i concorrenti d’oltre frontiera, ma soprattutto contro le masse lavoratrici italiane. Questa prospettiva rafforza il sistema capitalista, ed è particolarmente pericolosa in quanto vende un semplice cambio della guardia in seno alla classe dirigente come un miglioramento delle condizioni materiali del popolo.
Non occorre spendere eccessivo tempo nel parlare della supposta “sinistra” borghese ed istituzionale, ormai estraniatasi totalmente dai problemi reali e concreti che attraversano i ceti popolari, tanto da appoggiare con zelo repubblichino tutte le direttive dei grandi circoli di potere, UE in primis, contro l’interesse della nazione stessa, oltre a condividere con le forze del centrodestra la fedeltà indiscussa all’imperialismo statunitense e seguire in maniera vergognosa ogni sua politica guerrafondaia. Le tristi vicende delle guerre balcaniche ne sono state un esempio lampante con il governo liberale di D’Alema e corte varia di rinnegati “comunisti”.
Il socialismo ad oggi non è una realtà arcaica, ma molto più attuale di quanto si pensi rispetto allo scetticismo mediatico che gli è stato appioppato, in maniera voluta da certe forze reazionarie, allo scopo di far rimanere instaurata la “democrazia” borghese liberale, illudendo ancora una volta le classi popolari. Il socialismo deve contrapporsi necessariamente all’inganno di un centro-sinistra totalmente dipendente dalle entità imperialiste ed incapace di avvicinarsi alle realtà sociali del Paese, ma anche ad una destra reazionaria che approfitta del momento per agitare lo spauracchio “antieuropeista”, ed in salsa xenofoba anche quella anti immigrazione, evitando però di individuare le cause reali del fenomeno per i rapporti di forza economici diseguali tra mondo occidentale e le realtà del “terzo mondo”. Perciò bisogna contrapporsi con un’idea patriottica che contrasti i concetti classisti della società e che ripristini un adeguato sistema economico pianificato, rimarcare il concetto di internazionalismo in quanto si auspica la solidarietà a tutte le nazioni oppresse dall’imperialismo, ed opporsi senza mezzi termini ad ogni sovrastruttura che danneggi gli interessi popolari, come NATO e UE.
Per opporsi ad una “sinistra” ed una destra figlie ormai di un sistema capitalistico borghese burocratizzato, bisogna ricostruire, tramite la rivoluzione delle masse popolari, una nuova unità d’Italia socialista patriottica ed internazionalista in questo XXI secolo.» [Tesi XII; p.173-175]

Non ci dilunghiamo su Mazzini, visto che abbiamo già criticato le sue contraddizioni ed elogiato i suoi pregi molteplici volte, evidentemente invano. Consigliamo in particolar modo di leggere l’articolo del compagno Sinigaglia “L’importanza di Giuseppe Mazzini nella costruzione del movimento socialista ed operaio” [qui il link] e l’introduzione dello stesso a “Dei Doveri dell’uomo”, che, come tutti gli altri testi che abbiamo pubblicato e pubblicheremo, è disponibile gratuitamente ed in pdf sul sito – se si è pigri anche nel trovare od aprire il file provvederemo a pubblicarlo sotto forma di articolo, se si desidera [intanto qui il link della pagina apposita].
Sarà probabilmente un socialsciovinista revisionista anche Gramsci, la cui citazione – una delle tante – su Mazzini abbiamo esposto in prima pagina ne “Dei Doveri dell’uomo”: «Offrì al popolo non il vano nome di libertà, che può anche essere il morir d’inedia, ma la redenzione del pane e del lavoro.» – ancora la parola popolo! Dannazione!

Riteniamo fondamentale soffermarci sull’accusa, ridicola per chiunque ne capisca minimamente di geopolitica, di esaltare i famosi «nazionalisti borghesi come Saddam Hussein, Gheddafi o Lukashenko, completamente al di fuori dall’ottica dell’internazionalismo proletario». Questa “accusa” non è la prima volta che ci viene additata; dunque, una volta per tutte è ora di fare chiarezza.
Partendo da Saddam Hussein, rimandiamo prima di tutto all’articolo di analisi del compagno Gallazzi sulla questione: “In ricordo di un martire per la libertà” (chissà se i nostri analisti della domenica coglieranno la provocazione) [qui il link]. Potremmo scrivere centinaia di pagine sulla questione Baath, tuttavia, per amor di sintesi, ci limitiamo a presentare alcune citazioni necessarie a smontare questo pensiero diffuso nell’area “comunista”, e propagandato principalmente dai media di regime, sul fatto che il Baath iracheno fosse l’ala del partito “criptofascista” e “dittatoriale”:
“La situazione è ben chiara ora: ci sono due trincee; una di quelli che hanno fede nella costruzione di un nuovo governo socialista che sarà sempre ostile all’imperialismo… E l’altra per quelli che vi si oppongono. A noi non interessa di questi ultimi, al contrario, lasciateli stare nella seconda trincea così che possiamo colpirli più accuratamente che se fossero tra di noi” [Saddam Hussein, citato da “Flame of Liberation”].
“Noi combatteremo il settarismo e il razzismo ovunque lo troveremo, senza pietà, sia all’interno del nostro Partito sia all’esterno di esso e lavoreremo per una società unita, avanzata, socialista, progressista e democratica che costruiremo in Iraq e in tutta la Patria araba.” [Izzat al-Douri, discorso pronunciato nel 45° anniversario della Rivoluzione irachena, riportato dal Comitato Nordamericano contro il sionismo e l’imperialismo]
“Il Baath non ha mai creduto nel monopartitismo, ma ha sempre creduto con la fede e con i principi nel potere del popolo tramite le forze nazionali e patriottiche, e tramite i mezzi della democrazia popolare, al contrario della democrazia imperialista occidentale. Il principio fondamentale della democrazia popolare sono le elezioni libere e trasparenti, dove le persone possono decidere chi li guiderà. Il Baath ha ottenuto grandi risultati in questo campo” [Izzat al-Douri, ibidem]
Il capitalismo di Stato è una forma distorta di socialismo. Esso nega o falsifica il modo di produzione democratico, sopprime il vero ruolo della classe operaia e soffoca la sua vitalità. Esso mette il controllo della produzione nelle mani dei burocrati, i quali impongono ai lavoratori e ai giovani funzionari una nuova forma di dittatura, non molto differente in metodi e risultati dalla dittatura della borghesia. […] Inoltre, il capitalismo di stato considera il socialismo come un qualcosa di confinato al solo controllo statale dell’economia e della società.” [Resoconto politico dell’ottavo congresso del Partito Socialista Arabo Baath in Iraq, gennaio 1974; parte 5: i compiti per la trasformazione socialista].
“Il centralismo democratico e il capitalismo di stato sono in totale contrapposizione. La classe operaia, le sue organizzazioni e alcuni suoi dirigenti potrebbero non aver raggiunto un adeguato standard culturale, tecnico e organizzativo per partecipare nella gestione della produzione, ma questo non giustifica affatto le pratiche dittatoriali del capitalismo di stato. È responsabilità del Partito quella di elevare gli standard e la comprensione politica della classe operaia e dei funzionari di governo, affinchè incarni i loro interessi e quelli delle masse lavoratrici della società araba” [Ibidem].
Da quanto riportato sopra possiamo tranquillamente capire come il Partito Baath fosse tutt’altro che un «nazionalismo borghese che pone la patria di fronte all’internazionalismo proletario», ma che anzi esso fosse, seppur non marxista, molto avanzato nelle analisi politiche ed economiche rispetto ai compiti di un partito socialista rivoluzionario in un paese relativamente arretrato come l’Iraq, dove il Partito Comunista non era in grado di interpretare le reali necessità delle masse lavoratrici.
Confidando nel fatto che i nostri “compagni” abbiano compreso le ragioni del sostegno all’Iraq popolare e socialista, possiamo passare a Mu’ammar Gheddafi. Prima di inoltrarci nella questione, consigliamo alcune dirette fatte con esperti sulla questione libica: “Gheddafi: una vita rivoluzionaria”, con Andrea Sammartano [qui il link]; “Uno sguardo sulla Libia”, con Mustafa Younis [qui il link]. Inoltre, invitiamo alla lettura di questo articolo del già citato professore dell’Università di Tripoli, Mustafa Younis (Rajab) [qui l’articolo] e alla lettura dell’introduzione al Libro Verde da noi redatto e che troverete con facilità sul nostro sito nella sezione “testi”. Anche qua ci sarebbe molto da dire, ma ci limitiamo alle cose essenziali: secondo i nostri accusatori, Gheddafi sarebbe un dittatore nazionalista borghese. Basterebbe una banale ricerca su wikipedia per apprendere che Gheddafi di borghese non aveva proprio nulla: un beduino nato in una tenda nel mezzo del deserto libico a sud di Sirte, con un forte sentimento di giustizia sociale e liberazione nazionale, entrambi derivati dai racconti del padre, ex partigiano libico anti-fascista e anti-britannico (e dire che noi non parliamo mai dell’imperialismo italiano…) che gli raccontava le sue storie di guerra e gli trasmise i suoi ideali. Non solo questo, ma proprio tutto il periodo “gheddafista” è stato caratterizzato da politiche palesemente socialiste: in Libia tutti i beni e i diritti fondamentali erano garantiti dallo Stato, dalla casa all’elettricità, poi l’acqua, il cibo, il lavoro e così via. Insomma, proprio un regime borghese. Ma, ancora più ridicola di questa, è l’accusa di essere una dittatura. Invitiamo vivamente i nostri cari trotskisti a rileggersi (o leggersi?) il Libro Verde di Gheddafi, del quale citiamo qualche passaggio fondamentale per i più pigri: «Il parlamento è costituito fondamentalmente come rappresentante del popolo, ma questo principio è in se stesso non democratico, perché democrazia significa potere del popolo e non un potere in rappresentanza di esso. L’esistenza stessa di un parlamento significa assenza del popolo. La vera democrazia, però, non può esistere se non con la presenza di rappresentanti di questo. I parlamenti, escludendo le masse dall’esercizio del potere, e riservandosi a proprio vantaggio la sovranità popolare, sono divenuti una barriera legale tra il popolo e il potere. Al popolo non resta che la falsa apparenza della democrazia, che si manifesta nelle lunghe file di elettori venuti a deporre nelle urne i loro voti. […] I parlamenti sono divenuti uno strumento per usurpare e monopolizzare a proprio vantaggio il potere del popolo. Questo è il motivo per cui è divenuto, oggi, diritto dei popoli lottare, attraverso la rivoluzione popolare, per distruggere questi strumenti di monopolio della democrazia e della sovranità che si denominano parlamenti, i quali usurpano la volontà delle masse. È diritto dei popoli proclamare solennemente il nuovo principio: “Nessuna rappresentanza al posto del popolo”» [Muammar Gheddafi; Libro Verde, Lo strumento di governo].
«I congressi popolari sono l’unico mezzo per mettere in atto la democrazia popolare. Ogni altro sistema è una forma non democratica di governo. Tutti i sistemi di governo dominanti oggi nel mondo non saranno democratici fino a quando non avranno adottato questo mezzo. I congressi popolari sono l’approdo finale del movimento dei popoli verso la democrazia. I congressi popolari e i comitati popolari sono il frutto della lotta dei popoli per la democrazia. I congressi popolari ed i comitati popolari non sono invenzione dell’immaginazione, in quanto sono il prodotto del pensiero umano, che ha assimilato a fondo le diverse esperienze dei popoli per giungere alla democrazia. La democrazia diretta, se messa in atto, è innegabilmente ed indiscutibilmente il metodo ideale di governo.» [Ibidem, I congressi popolari ed i comitati popolari]
«La stampa (veramente) democratica è quella pubblicata da un comitato popolare composto da tutte le varie categorie sociali, cioè, dalle unioni di operai, dalle unioni femminili, dalle unioni studentesche, dalle unioni di contadini, dalle unioni di professionisti, dalle unioni di impiegati, dalle unioni di artigiani e così via. In questo caso, e soltanto in questo, la stampa o qualsiasi altro mezzo di informazione sarà l’espressione della società intera e rappresenterà l’opinione pubblica. La stampa sarà allora veramente democratica.» [Ibidem, La stampa]
«Il salariato è come uno schiavo del padrone alle cui dipendenze permane temporaneamente e la cui schiavitù si manifesta fino a quando egli lavorerà alle sue dipendenze ed in cambio di un compenso. Ciò indipendentemente dal fatto che il datore di lavoro sia un individuo o lo Stato. I lavoratori, nei loro rapporti individuali sia col singolo datore di lavoro sia con l’azienda produttrice, non sono altro che dei salariati, prescindendo dalla evoluzione che ha subito il concetto della proprietà. Infatti anche gli enti economici pubblici non offrono ai loro lavoratori dipendenti altro che paghe e altri servizi sociali assai simili alla carità che i ricchi titolari di un’azienda privata assegnano ai propri lavoratori. […] La soluzione definitiva rimane nell’abolizione del salario e nella liberazione dell’essere da questo genere di schiavitù.» [Ibidem, Base economica della terza teoria universale]
«La libertà dell’uomo è incompleta se da un altro uomo dipendono i suoi bisogni. Lo stato di necessità può far diventare l’uomo schiavo di un altro uomo. Lo sfruttamento è motivato dal bisogno, che è un problema reale. Il conflitto ha inizio quando qualche altra parte è arbitra dei bisogni dell’uomo. […] Nella società socialista non dovrebbero esserci salariati, ma associati, poiché i proventi sono prerogativa personale dell’individuo, sia nel caso in cui li procuri da se stesso nei limiti delle sue esigenze, sia che detti proventi costituiscano una parte della produzione nella quale l’individuo stesso è un elemento fondamentale. In ogni caso i proventi non possono derivare da un salario percepito per una attività produttiva effettuata per conto di terzi. […] L’attività economica della nuova società socialista è un’attività produttiva allo scopo di soddisfare le esigenze materiali, e non è un’attività improduttiva o procacciatrice di lucro al fine di accumulare risparmi eccedenti la soddisfazione di quelle necessità. Ciò non è compatibile con le nuove strutture socialiste.» [Ibidem].
«Le nazioni del mondo sono una formazione sociale il cui vincolo è la coscienza di appartenere all’umanità.» [Ibidem, La nazione].
«L’umanità continuerà ad essere arretrata finché rimarrà incapace di esprimersi in un’unica lingua. Finché l’uomo non realizzerà tale aspirazione – che sembra persino impossibile – l’espressione della gioia e del dolore, del bene e del male, del bello e del brutto, del riposo e dell’affanno, dell’annientamento e dell’eternità, dell’amore e dell’odio, dei colori, dei modi di sentire, dei gusti e del temperamento – l’espressione di tutte queste cose rimarrà nella stessa lingua che ogni popolo parla spontaneamente.» [Ibidem, La musica e le arti].
Tutto questo dovrebbe rappresentare, secondo i nostri accusatori, un “nazionalismo borghese” da combattere con ogni mezzo; a ciò, tuttavia, ci si potrebbe rispondere che sono solamente belle parole e che, nella realtà dei fatti, era un regime che opprimeva la classe lavoratrice e che Gheddafi possedeva tutti i poteri del governo. Per sfatare questo mito, al quale credono solamente le prostitute dell’imperialismo, possiamo citare dati reali sulla Gran Jamahiriya Araba Libica Popolare Socialista: in Libia erano presenti oltre 1.800 comitati e congressi popolari diffusi sul territorio e che permettevano alla popolazione di autogestire l’intera società, dal lavoro alla scuola. In ognuno di questi congressi e comitati popolari era presente una segreteria eletta dal comitato stesso, e l’insieme di tutte le segreterie componeva il Congresso Generale del Popolo. In questo Congresso, che era il più alto organo di governo dello stato libico, erano presenti 2.700 rappresentanti del popolo, eletti direttamente in seno ai singoli comitati e congressi locali. Facendo un paio di calcoli, risulta che in Libia vi era 1 rappresentante su 2.300 persone; cosa significa? Significa che la Libia sotto la dittatura feroce del nazionalista Gheddafi era lo Stato moderno più democratico che fosse mai esistito (per alcuni confronti, in Italia abbiamo 1 rappresentante ogni 62.000 abitanti, negli USA 1 ogni 615.000). Certo si potrebbe controbattere che in rapporto hanno una popolazione inferiore di molto alla nostra, ma in questo caso basterebbe guardare ai dati assoluti sui membri dei vari parlamenti e capire che non regge minimamente il paragone. Inoltre, in Libia la maggior parte dell’economia era statalizzata e gestita dai lavoratori in senso democratico, e i ricavati venivano investiti in sanità, istruzione, case, elettricità e così via; il resto dell’economia era gestita collettivamente tramite cooperative familiari. Solo negli ultimissimi anni il governo libico commise l’errore di privatizzare parte dell’economia, generando corruzione e una semi-classe privilegiata di investitori del settore petrolifero, tuttavia l’intervento di Gheddafi per arginare il fenomeno fu tempestivo (sì, perché Gheddafi non era il capo di governo e non fece lui le privatizzazioni) e propose subito al Congresso e ai ministri una serie di riforme economiche e politiche radicali [articolo di Reuters a riguardo], che tuttavia non riuscì a portare a termine a causa della controrivoluzione islamista del 2011.
Su Lukashenko la questione è quasi la medesima dei due precedenti. La Bielorussia ha un sistema molto simile a quello cinese, ovvero un socialismo di mercato con ampia e ferrea partecipazione statale nell’economia (sarà questo sintomo di social-sciovinismo borghese per i nostri cari trotskisti?). Per approfondire la questione, proponiamo la lettura di un documento molto ben curato scritto da Yan Li (anziano ricercatore presso l’Istituto di Economia e Politica Mondiale e l’Accademia Cinese delle Scienze Sociali) ed Enfu Cheng (professore dell’Università dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali, nella quale è inoltre direttore del Centro di Ricerca sullo Sviluppo Economico e Sociale e co-editore dell’International Critical Thought and World Review of Political Economy) chiamato “Market Socialism in Belarus: An Alternative to China’s Socialist Market Economy” [pdf disponibile su Jstor].
Nell’estratto di questo testo possiamo apprendere che: «Da quando Lukashenko è salito al potere, la Bielorussia ha intrapreso la strada del socialismo di mercato, in cui le privatizzazioni sono state fermate, ed è stata stabilita la posizione dominante delle componenti economiche statali nell’economia nazionale; è stato implementato un modello di governo statale gestito verticalmente ed efficiente, la leadership presidenziale è stata rafforzata, e l’equità sociale e la giustizia sono state messe al primo posto. Inoltre, la Bielorussia ha mantenuto buone relazioni diplomatiche con i paesi della CSI (Comunità degli Stati Indipendenti), la Cina e altri paesi attraverso una diplomazia pluralista e multi-direzionale. Il socialismo di mercato ha aiutato l’economia della Bielorussia a riprendersi dal declino subito dopo la dissoluzione dell’URSS e a svilupparsi rapidamente. La base economica del paese è diventata sempre più stabile. È stato stabilito un forte sistema di sicurezza sociale, e l’assistenza sociale copre i gruppi sociali più grandi, il che assicura l’occupazione e i diritti civili nella massima misura, migliora continuamente gli standard di vita della popolazione, e quindi evita la divisione sociale e assicura la stabilità sociale. Il socialismo di mercato in Bielorussia è un sistema speciale di economia di mercato socialista, la sua teoria e pratica possono insegnare lezioni importanti alla pratica attuale del socialismo e alla riforma del sistema capitalista» [Market Socialism in Belarus, estratto, tradotto dall’inglese].
Inoltrandoci ora nel documento vero e proprio:
«Il predominio dell’economia statale è la principale condizione interna per il socialismo di mercato in Bielorussia. Una delle caratteristiche distintive del socialismo di mercato in Bielorussia è la predominanza della proprietà statale nell’economia nazionale, che è una base essenziale per mantenere uno sviluppo economico stabile, assicurare l’uguaglianza sociale, promuovere l’occupazione e favorire l’innovazione tecnologica. Dopo che Lukashenko è salito al potere, la sua prima misura è stata quella di rettificare l’economia, fermare il fallimento delle grandi imprese e le privatizzazioni di massa, e riaffermare il coinvolgimento dello Stato nella proprietà della terra nelle zone rurali. […] l’economia pubblica include imprese collettive e joint venture in cui lo Stato ha una grande partecipazione, oltre alle tradizionali imprese interamente statali. Nei primi giorni dell’amministrazione di Lukashenko, l’economia pubblica rappresentava circa il 75% del PIL totale. Con la riforma dei beni statali nel nuovo secolo, la proporzione del settore privato è aumentata, ma generalmente non rappresentava più del 30% del PIL. La predominanza della proprietà pubblica garantisce le entrate statali in tasse e commercio, così come le spese per l’istruzione, la sanità pubblica, i servizi pubblici e il trasporto pubblico. L’economia di proprietà pubblica è anche la principale forza di assorbimento dell’occupazione, con gli occupati in imprese statali o controllate dallo Stato che rappresentano circa il 70% dell’occupazione totale (Slon Magazine 2015). […] Il sostegno dell’economia statale è richiesto per tutti i progetti su larga scala che necessitano alti investimenti con una prospettiva relativamente piccola di benefici a breve termine e per lo sviluppo e l’integrazione di nuove tecnologie con una velocità di aggiornamento veloce e con effetti trainanti sull’industria e sull’economia nazionale.” [Ibidem, Il predominio dell’economia statale è la principale condizione interna per il socialismo di mercato in Bielorussia].
Sebbene questo sistema non sia certamente definibile marxista, è innegabile la sua spiccante natura socialista, tenendo anche conto del fatto che il Partito Comunista Bielorusso ha molta influenza sul governo e ricopre, inoltre, alte cariche dello Stato. I nostri accusatori improvvisati potrebbero rispondere che la semplice proprietà statale dei mezzi di produzione non necessariamente implica il socialismo; questo è corretto, ma fino a un certo punto. Nel momento in cui lo Stato impiega i ricavati delle aziende statali per garantire sanità, istruzione, casa e lavoro a tutta la popolazione, in questo caso si può parlare di socialismo, in quanto il lavoro diventa un bene collettivo di tutta la società. Ma chissà, forse anche garantire a tutti un lavoro, avere la più bassa percentuale in Europa di persone che vivono in povertà assoluta e relativa, avere istruzione e sanità gratuite e mantenere un ferreo controllo statale sulle imprese private (medie e grandi)… è capitalismo! In tal caso, possiamo tranquillamente smettere di leggere (o meglio, capire) tutta la letteratura socialista e marxista, perché tanto il socialismo è un concetto assoluto e immutabile che non deve in alcun modo tener conto di sviluppi storici e dialettici che attraversano le singole società!
Proseguendo nella lettura della loro analisi della domenica, essi affermano che noi intendiamo attribuire alla Cina un ruolo antimperialista che, a loro dire, non possiede. Oltre al fatto che saremmo curiosi di vedere un dialogo tra i compagni cinesi, forti di un’esperienza di 80 anni tra Rivoluzione e periodo governativo, e i nostri amici trotskisti che li accusano di non capire nulla di socialismo e antimperialismo, è necessario anche qui portare alcuni testi fondamentali che smontino queste falsità figlie della propaganda occidentalista del peggior tipo: “Sfatare categoricamente l’affermazione che la Cina sia imperialista” [qui il link della nostra traduzione]; “La Cina subirà la stessa sorte dell’Unione Sovietica?” [qui il link della nostra traduzione].
La Cina non solo è una potenza antimperialista, ma è anche, e soprattutto, uno stato socialista, il più importante stato socialista del periodo attuale. Non riconoscere questa verità è sintomo di un dogmatismo del peggior tipo che acceca l’analisi politica e di classe della realtà cinese; essi non comprendono che i compagni cinesi sono riusciti ad evitare il totale collasso grazie all’autocritica e a una correzione di tiro delle loro politiche. Per quanto siano criticabili le riforme di Deng Xiaoping, è innegabile che esse abbiano portato la Cina ad essere una super-potenza mondiale, e dal 2013 a questa parte con il compagno presidente Xi Jinping la Cina ha ripreso di fatto la strada del socialismo, con lo Stato e il Partito che stanno progressivamente (ri)prendendo il controllo di tutta l’economia, arginando e talvolta reprimendo la nuova classe alto borghese che è venuta a formarsi, in particolare, nelle Zone Economiche Speciali (vedasi il caso Jack Ma e Alibaba). Non è una novità, infatti, che in Cina la maggior parte dell’economia è nelle mani dello Stato e una larga parte delle imprese private (sia nazionali che straniere) sono in compartecipazione con lo Stato cinese, senza contare la forte regolamentazione generale del mercato cinese. Quello che probabilmente sfugge ai nostri trotskisti, come si evince inoltre dal loro articolo chiamato “La Cina verso la completa integrazione nel sistema capitalista mondiale” [qui il link] è che il socialismo è un processo di costruzione storica che si fonda sulla realtà materiale dei singoli paesi, da ciò si dovrebbe comprendere che la lotta di classe sussiste anche in regime socialista e che viene meno solamente quando le classi sociali stesse cessano di esistere. Essi affermano che la Cina è capitalista perché vi è ancor’oggi una lotta tra le classi… Come disse Iosif Stalin in un suo famoso discorso: «E’ necessario demolire e buttare a mare la putrida teoria secondo la quale ad ogni passo in avanti che facciamo, la lotta di classe dovrebbe affievolirsi sempre più, secondo la quale, nella misura che otteniamo dei successi, il nemico di classe diventerebbe sempre più mansueto. […] Al contrario, quanto più andremo avanti, quanti più successi avremo, tanto più i residui delle vecchie classi sfruttatrici distrutte diventeranno feroci, tanto più rapidamente essi ricorreranno a forme di lotta più acute, tanto più essi cercheranno di colpire lo Stato sovietico, tanto più essi ricorreranno ai mezzi di lotta più disperati come gli ultimi mezzi di chi è condannato a morire. Bisogna tenere conto del fatto che i residui delle classi distrutte nell’URSS non sono isolati. Essi hanno l’appoggio diretto dei nostri nemici al di là delle frontiere dell’URSS. Sarebbe errato pensare che la sfera della lotta di classe sia racchiusa entro le frontiere dell’URSS. Se la lotta di classe si svolge per una parte nel quadro dell’URSS, per un’altra parte essa si estende entro i confini degli Stati borghesi che ci circondano.» [Iosif Stalin, “Sulle deficienze del lavoro del Partito e sulle misure per liquidare i trotzkisti e altri ipocriti”, 1937]. Viene ora da chiedersi se i “compagni” saranno in grado di trarre da questo testo l’insegnamento fondamentale del leninismo, ovvero quello che afferma che la lotta di classe in regime socialista non solo prosegue, ma diventa sempre più feroce; oppure, essi diranno tra sé e sé: “ma cosa centra l’Urss con la Cina?”. In tal caso, riportiamo un estratto fondamentale da “Stato e Rivoluzione” [Cap. II, pt. 3] di Lenin: «L’opportunismo non porta il riconoscimento della lotta di classe sino al punto precisamente essenziale, sino al periodo del passaggio dal capitalismo al Comunismo, sino al periodo dell’abbattimento della borghesia e del suo annientamento completo. In realtà, questo periodo è inevitabilmente un periodo di lotta di classe di un’asprezza inaudita, un periodo in cui le forme di questa lotta diventano quanto mai avute, e quindi anche lo Stato di questo periodo deve essere uno Stato democratico in modo nuovo (per i proletari e i non possidenti in generale), e dittatoriale in nuovo modo (contro la borghesia). Ancora. L’essenza della dottrina dello Stato di Marx può essere compresa fino in fondo soltanto da colui che comprende che la dittatura di una sola classe è necessaria non solo per ogni società classista in generale, non solo per il proletariato dopo aver abbattuto la borghesia, ma per un interno periodo storico, che separa il capitalismo dalla “società senza classi”, dal Comunismo. Le forme degli Stati borghesi sono straordinariamente varie, ma la loro sostanza è unica: tutti questi Stati sono in un modo o nell’altro, ma in ultima analisi, necessariamente, una dittatura della borghesia. Il passaggio dal capitalismo al Comunismo, naturalmente, non può non produrre un’enorme abbondanza e carità di forme politiche, ma la sostanza sarà inevitabilmente una sola: la dittatura del proletariato». Il Partito Comunista Cinese è un partito di classe, più precisamente della classe proletaria, questo è un dato di fatto: nelle cariche più alte del Partito non c’è nemmeno un capitalista, mentre ce ne sono solamente 24 su 2.270 nel congresso del Partito, la fonte è una ricerca effettuata da Statista [qui il link].
Possiamo ora passare al punto centrale della questione, ovvero l’imperialismo. Sempre nel sopracitato documento di “Piattaforma Comunista”, la Cina viene definita come un «rapace Stato socialimperialista». La ridicolezza e la mancanza di analisi di tale affermazione è grande quanto chi continua incessantemente a diffondere questa posizione: ovvero i mass media dell’impero americano. Per rispondere a questa considerazione dobbiamo riprendere la definizione leninista di “imperialismo”: Lenin individua come causa fondamentale dell’imperialismo la concentrazione della produzione e del capitale nelle mani di poche potenze imperialiste, e dunque lo sviluppo del capitalismo monopolista. Questo fenomeno spinge il monopolio alla necessità di portarsi su un livello internazionale, e così si sviluppa il fenomeno dell’internazionalizzazione dei cicli del capitale, il quale porta inevitabilmente ad una esportazione del modo di produzione capitalistico stesso, in paesi dove l’accumulazione capitalista è ancora agli albori, e dove i mercati sono ancora in una fase di concorrenza tra “piccoli” borghesi. Di conseguenza, il paese di provenienza del monopolio si arricchisce (o meglio, l’alta borghesia) e il paese sottomesso si impoverisce (tutti, borghesi inclusi): questo fenomeno è l’effetto principale e fondamentale dell’imperialismo, e viene definito “sviluppo ineguale”; in particolare oggi con la globalizzazione dei mercati questo fenomeno è decisamente marcato ed evidente. Compreso questo, possiamo tornare al nostro soggetto principale, ovvero la Cina. Nella RPC non ci sono minimamente le condizioni economiche sopracitate affinché sia definibile come imperialista: come già detto, la maggior parte dell’economia cinese è nelle mani del governo, in particolare il settore dell’industria pesante e dell’energia; questo fa sì che in Cina non esistono monopoli, e quando un capitalista prova ad egemonizzare un settore, viene immediatamente bastonato dal Partito Comunista. Le politiche internazionali della Repubblica Popolare Cinese si basano sulla filosofia del “win-win”, ovvero un rapporto di reciproco aiuto che non genera in nessun caso lo sviluppo ineguale con i paesi del terzo mondo. Basta vedere all’Etiopia: al contrario di altri paesi africani, sfruttati e disintegrati dalle multinazionali occidentali, si è affidata agli investimenti cinesi, i quali hanno portato ben presto il paese del corno d’africa ad essere tra i più avanzati e moderni dell’interno continente africano. Vedendo questo e altri esempi, in molti paesi africani si stanno verificando proteste anti occidentali da parte di organizzazioni di cittadini che chiedono ai loro governanti di stringere accordi con Russia e Cina, e abbandonare i predatori capitalisti occidentali (abbiamo citato la Russia non perché pensiamo che sia socialista, ovviamente, ma perché ancora non ha raggiunto la fase monopolista del capitalismo).

Sull’affermazione secondo la quale noi ripetiamo il ritornello della lotta al «dogmatismo e al settarismo» (come se essa fosse fondamentalmente negativa) i nostri accusatori si sono dimenticati di completare la frase, noi abbiamo sempre detto: “contro ogni dogmatismo, settarismo e contro ogni revisionismo”. Infatti, noi abbiamo sempre condannato tutti i revisionisti delle varie esperienze socialiste, da Krusciov a Gorbaciov, sostenendo pienamente la linea leninista tenuta dal Partito bolscevico dell’Unione Sovietica sotto la dirigenza di Lenin e Stalin. Non dilungandoci troppo su questo tema, consigliamo la lettura del nostro articolo “Lo sviluppo del pensiero e dell’azione socialista: Il “socialismo scientifico” e il marxismo leninismo” [qui il link].

Ma la cosa più buffa, o triste, è forse la critica contro i testi che pubblichiamo. Basterebbe solo questo punto per far emergere l’atteggiamento non solo “antimarxista” (una parola abbastanza divertente in bocca a tanti), ma in generale antidialettico, degli autori di tale critica.
Seguendo questo ragionamento tutti, ma proprio tutti i pensatori marxisti sono.. in verità.. antimarxisti e confusi. E non solo loro, ma anche tutti i cittadini sovietici, cubani, coreani, cinesi… tutti quelli che studiavano o che studiano la politica, l’economia, e la storia di queste, sono revisionisti. Ci ricorda un po’ il caro Zichichi che afferma che l’unico autore che sia necessario leggere è Galileo; poi però non sa quasi niente della scienza a parte cosa sia e come funzioni il classico metodo scientifico.
Tornando a noi; anche qui pare che gli stessi signori si son “dimenticati” di aprire pagina. Avessero letto già solo le nostre introduzioni nei vari testi degli autori che hanno citato – Keynes, Bukharin, Proudhon, (la introduzione di Kropotkin non è stata ancora fatta), Thoreau – avrebbero trovato le nostre analisi critiche e le motivazioni che a nostro parere dovrebbero portare alla lettura dei rispettivi testi. Sull’ABC del Comunismo di Bukharin e del trotskista Preobrazhensky, troverete subito in prima pagina un elogio di Edward H. Carr, forse anche lui revisionista: «Anche se divenne ben presto obsoleto per via del susseguirsi dagli eventi, l’ABC parla con la voce di questo “periodo eroico” della Rivoluzione, e quindi fornisce oggi agli studiosi e agli studenti un vivido senso del pensiero bolscevico durante quegli anni critici e formativi.» Subito dopo, nell’introduzione scritta da due nostri compagni troverete che tale testo fu adottato e promosso dalla III Internazionale nel ’21, invitando i Partiti Comunisti a farlo tradurre, stampare e leggere ai lavoratori di tutte le nazioni. Evidentemente quelli della III Internazionale erano scemi. Oppure siamo scemi noi che crediamo di dover leggere qualunque cosa per avere non solo il diritto, ma le capacità e i mezzi per giudicare, invece di fare la damnatio memoriae ai personaggi che ci stanno sulle palle. Il bello è che nello stesso numero della rivista in cui ci hanno criticato, c’è poche pagine dopo un articolo, “Per lo studio dell’economia politica”, dove si invita i comunisti ad istruirsi in materia – supponiamo leggendo solo ed esclusivamente Marx; d’altronde quest’ultimo non è assolutamente partito dalle analisi di Smith e Ricardo.
Sugli Scritti scelti di Keynes, troverete già nella prima pagina della breve introduzione del compagno Amaddio un’aspra critica, che più esplicita di così non si può: «Alla fine le teorie keynesiane sono state di poco aiuto. Il vero fine del keynesismo è superare la contraddizione tra gli interessi del singolo capitalista e la classe capitalista nel suo insieme, per salvare il sistema capitalista dalle sue stesse contraddizioni. Abbracciare l’intervento statale, spiega Keynes, non è assolutamente la fine della borghesia, al contrario, è l’unico modo possibile per salvare il capitalismo stesso. Per Keynes, il problema non è di certo il capitalismo, ma semplicemente il “laissez-faire”, in cui i mercati e gli investitori, non essendo regolamentati, sono lasciati a seguire il proprio profitto individuale senza alcuna cura per il resto della società.
«Da parte mia credo che il capitalismo, saggiamente governato, può probabilmente essere reso più efficiente di qualsiasi altro sistema ora in vista nel raggiungere obiettivi economici, ma che in sé stesso è per molti aspetti estremamente criticabile.»
E qui si capisce subito che Keynes desidera solo un ritorno ai “bei vecchi tempi”, quando la classe capitalista era formata da industriali “responsabili” che investivano per il bene delle loro comunità e della società. In altre parole Keynes voleva far tornare indietro la ruota della storia verso un tempo immaginario dove il “capitalismo responsabile” regnava supremo. Ma questa è la vera natura del capitalismo, tutti i tentativi di regolarlo sono utopistici
Su Proudhon, nella prima pagina dell’unico suo testo che per ora trovate sul nostro sito, “La Proprietà”, troverete una breve citazione di Marx in cui il pensatore francese viene elogiato: «Proudhon è stato il primo a richiamare l’attenzione sul fatto che la somma dei salari dei singoli lavoratori, anche se ogni singolo lavoro è pagato completamente, non paga per il potere collettivo oggettivato nel suo prodotto, che quindi il lavoratore non è pagato come parte della forza lavoro collettiva.» – ci stupiamo quindi che Marx leggesse testi non-marxisti, e che per di più traeva dialetticamente punti positivi da questi! Subito dopo troverete la breve introduzione del compagno Sinigaglia, dove nella parte finale, seppur implicitamente, esporrà il nocciolo della visione proudhoniana, che pur se originale ed esposta con razionalità, è nettamente in contraddizione con la nostra visione – in quanto marxisti – collettivista.
Nell’unico testo di Thoreau per ora presente sul sito, “Disobbedienza civile”, trovate invece un’introduzione di 6 pagine del compagno Eros. Prendendocisi la briga di dare una letta alla breve introduzione, trovereste esplicite critiche, se non bastano quelle implicite: «Lo stesso autore non ha tuttavia una concezione attiva di Rivoluzione.
Per Thoreau infatti «Quando il suddito si è rifiutato di obbedire, e l’ufficiale ha rassegnato le proprie dimissioni dall’incarico, allora la rivoluzione è compiuta». Stiamo parlando di una sorta di Rivoluzione passiva, in cui la maggioranza degli individui si rifiuta di collaborare col regime vigente ed anti-democratico disconoscendolo nei fatti. «Se vuoi davvero fare qualcosa, rassegna le dimissioni». È facile comprendere che questa pratica rivoluzionaria ed originale è attuabile più che altro quando la massa è già ben organizzata e dotata di una buona coscienza di classe; le azioni individuali, senza il supporto del Popolo, non possono che produrre repressione da parte dello Stato.» Viene da sé che si fa prima a fare una Rivoluzione, come la chiama il compagno, “attiva“. Tuttavia, «Disobbedienza civile è (…) un breve scritto molto importante e fondamentale non tanto dal punto di vista teorico, ma per entrare nell’ottica e comprendere il pensiero della non violenza: un pensiero che ha avuto il suo peso e la sua influenza nel secolo scorso.» Serve spiegarlo ulteriormente che è importante leggere (anche) testi non-marxisti, o perfino anti-marxisti, per comprendere al meglio e, nel caso, saper meglio criticare gli altrui pensieri? Noi lo facciamo; si è liberi di non farlo, ma almeno ci si criticasse leggendo non per forza gli autori a cui si vuole imporre la damnatio memoriae, ma noi, le nostre critiche a questi. Critiche mirate e con coscienza di causa, visto che li abbiamo letti.
E finché può avere un senso la critica contro un presunto sostegno a Keynes, Thoreau, Kropotkin, Proudhon, ed in parte Bukharin (ignorando il fatto che non abbiamo preso come modello nessuno degli autori qui sopra), non è per niente legittima la ripugnanza verso Rousseau, che poniamo invece senza problemi come uno dei principali punti di riferimento.
Su Rousseau è inutile star qui a parlare, visto che trovate senza problemi un saggio di ben circa 30 pagine scritte dal compagno Eros, intitolato “Rousseau ed il pensiero marxista” [qui il saggio]. Analizzando con cura numerosi passaggi del “Contratto sociale” (che trovate in pdf sul sito) e del “Discorso sulla disuguaglianza”, il suddetto compagno ha fatto emergere dei princìpi che son stati ripresi da Marx e dai marxisti, e che hanno costituito anzi almeno parzialmente la colonna portante del pensiero di questi. Lo stesso Engels, nell’Antidühring, cosparge d’oro il “Discorso sulla disuguaglianza”, riconoscendo a Rousseau la virtù di aver già prima di Hegel utilizzato metodi dialettici nelle sue analisi – tutto ciò lo trovate nell’articolo sopra citato. E su ciò la letteratura non si ferma col nostro saggio; molti pensatori hanno già affrontato il tema, della connessione tra Rousseau ed il pensiero marxista, tra cui l’italiano Gaetano Dalla Volpe.
A questo punto ci domandiamo come mai non abbiano incluso nella breve lista di autori a cui va attribuita la damnatio memoriae anche Gustave Le Bon. Forse perché è un personaggio che ignorano? Ebbene è il più reazionario di tutti gli autori presenti, uno che paragona con disprezzo la massa dei lavoratori alle pecore, ma che tuttavia porta delle analisi spesso oggettive e positive nel campo della sociologia e della psicologia, nel suo “Psicologia delle folle”. Un testo che ha letto con interesse anche Lenin, un famoso reazionario anche lui, supponiamo.
Ci auguriamo che non ci accuseranno di nazismo se mai pubblicassimo un’introduzione critica al Mein kampf.

Noi «emme-quarantottisti» non abbiamo problemi nel definirci marxisti-leninisti, né tantomeno comunisti, ma riconosciamo che, interfacciandoci con le masse – queste non astratte ed ideali, ma concrete e ancora senza coscienza di classe né politica –, sia più opportuno utilizzare il termine “socialismo” e “socialisti“; le cause sono riconducibili alla forte propaganda che c’è stata negli ultimi 30 anni, e nel bisogno di ricominciare praticamente da 0, da una massa – ops, lavoratori se volete – che non solo osteggia il “comunismo”, ma lo odia o ne ha paura, non capendo cosa sia. Il ruolo di noi comunisti non è dire di esser comunisti, ma di fare i comunisti; e fare i comunisti con la falce e il martello, con la stella rossa, col nome “partito comunista” o con “socialista”, cambia non poco, ma assolutamente nulla a livello astratto e spirituale; cambia invece a livello pratico per il fatto sopra esposto: lasciando stare il fatto che non possiamo certamente definirci un Movimento oggettivamente “grosso” o “popolare”, riconosciamo che etichettarci come ennesimo Partito Comunista porterebbe a risultati ancor peggiori. D’altronde i bolscevichi hanno aggiunto l’aggettivo “comunista” solo dopo la rivoluzione, e così come Lenin militava nel partito socialdemocratico, anche ai tempi di Engels in Germania si era costretti a tenersi tale nome: «La questione del nome del partito è infinitamente meno importante di quella dell’atteggiamento del proletariato rivoluzionario verso lo Stato», ci dice Lenin [“Stato e Rivoluzione”; Cap. IV; pt. 6].
«Engels ha avuto modo di pronunciarsi su questo punto trattando della inesattezza scientifica della denominazione “socialdemocratico”.
Nella prefazione alla raccolta dei suoi articoli degli anni 1870 su diversi temi, dedicati in prevalenza ad argomenti “internazionali” (…) Engels scrive che in tutti i suoi articoli egli ha impiegato la parola “comunista” e non “socialdemocratico”, perché a quell’epoca sichiamavano socialdemocratici i proudhoniani in Francia e i lassalliani in Germania.
«…Per Marx come per me, – continua Engels, – era dunque assolutamente impossibile adoperare un’espressione così elastica per  definire la nostra posizione. Oggi la cosa è diversa, e questa parola» (“socialdemocratico”) «può forse andare per quanto rimanga imprecisa [unpassend, impropria] per un partito il cui programma economico non è semplicemente socialista in generale, ma veramente comunista; per un partito il cui scopo politico finale è la  soppressione di ogni Stato e, quindi, di ogni democrazia. Del resto, i veri partiti politici non hanno mai una denominazione che loro convenga perfettamente; il partito si sviluppa, la denominazione rimane.»
Il dialettico Engels nel declino dei suoi giorni [1 anno e mezzo prima della sua morte] rimane fedele alla dialettica. «Marx ed io – dice – avevamo per il partito un nome eccellente, scientificamente esatto, ma allora non c’era un vero partito, cioè un partito proletario di massa. Ora (fine del secolo decimonono) esiste un vero partito, ma la sua denominazione è scientificamente inesatta. Non importa, essa “può andare” purchè il partito si sviluppi, purchè l’inesattezza scientifica del suo nome non gli sfugga e non gli impedisca di svilupparsi in una giusta direzione!»». [Ibidem]
Lo sappiamo che la critica non era diretta alla denominazione “M-48” – ispirata in parte all’M-26-7, anch’esso presumibilmente revisionista –, ma il discorso è lo stesso. E lo sappiamo che Lenin ed Engels parlavano di denominazioni di Partiti che erano nati non-propriamente-comunisti e che, diventandolo, si son tenuti il nome inesatto od ormai insensato, ma, anche qui, il discorso è lo stesso: a prescindere dalle origini di M-48, si è deciso di usare terminologicamente e pubblicamente di più il termine socialista, rispetto a comunista, in quanto, analizzando dialetticamente il periodo storico corrente e il contesto nazionale, crediamo che la massa non è ancora pronta a riconoscere nel comunismo, o nelle organizzazioni che si spacciano per tali, come avanguardia su cui porre fiducia. È nostro compito convincerli del contrario? Ovviamente sì; e come lo facciamo? Allontanandoceli già prima che si avvicinino? Occorre quindi in questo senso porre delle condizioni affinché le masse si avvicinino innanzitutto al pensiero socialista nel suo senso generico della parola, per poi riconoscere infine nel marxismo la vera via alla più elevata giustizia, e cioè al comunismo. Davvero vogliamo discutere metafisicamente su quanto ci possa più beatificare gli spiriti l’aver nel nome “comunista” e nella simbologia la falce o martello o l’iconografia di Stalin? Lasciamo alle sette tale hobby; noi, anche se purtroppo nel nostro piccolo, facciamo il nostro per far elevare le masse (popolari, proletarie, operaie, oppresse; come volete voi).
Il termine “socialista rivoluzionario” non è assolutamente un riferimento all’omonimo partito russo d’inizio ‘900, ma è un termine generico ed omnicomprensivo che non esclude ma anzi include il pensiero comunista, in quanto è sia socialista che, per sua natura, rivoluzionario; termini d’altronde usati anche da Paesi che si dichiarano o dichiaravano marxisti-leninisti – probabilmente anch’essi revisionisti come noi… d’altronde i trotskysti hanno sempre cercato di screditare ed affossare le esperienze socialiste, predicandosi come unici eredi del pensiero marxista-leninista.

Non sempre vero che utilizziamo la bandiera partigiana al posto della bandiera rossa, ma spesso sì. Ma sapete.. prendendo come modello i partigiani abbiamo ereditato la loro «patriottardagine». Facciamo mea culpa al posto loro; avrebbero dovuto gettare e schifare il tricolore e iniziare a sventolare solo ed esclusivamente la bandiera rossa, adottando magari anche un’altra lingua, magari il russo, essendo la lingua più parlata nell’allora Paese socialista più grande al mondo. Ahinoi, esistono le patrie e ognuno parla una lingua che gli hanno imparato quei retrogradi dei genitori.
Pensandoci, però, pare che anche i signori della Scintilla stiano scrivendo in italiano. Sia mai che stanno riconoscendo una lingua istituzionale di uno Stato borghese la cui Patria è inesistente?
Scriveva Mazzini: «Noi siamo invasi da un sentimento di fierezza nazionale» – (scherziamo, è un passo di Lenin) – «Ed è proprio per questa ragione che noi odiamo particolarmente il nostro passato schiavista (l’epoca in cui i signori terrieri conducevano i mugik alla guerra per soffocare la libertà dell’Ungheria, della Polonia, della Persia e della Cina), ed il nostro presente schiavista, quando proprio questi stessi proprietari terrieri, aiutati dai capitalisti, ci stanno guidando in una guerra per strangolare la Polonia e l’Ucraina, abbattere i movimenti democratici in Persia e Cina, rafforzare i Romanov, i Bobrinsky ed i Purishkevich, che sono il disonore della nostra dignità nazionale Grande-Russa. Nessuno è colpevole di essere nato schiavo. Ma lo schiavo al quale non solo sono estranee le aspirazioni alla libertà, ma che giustifica e dipinge a colori rosei la sua schiavitù (che chiama, per esempio, “difesa della patria” dei grandi russi lo strangolamento della Polonia e dell’Ucraina), un tale schiavo è un lacchè e un bruto che desta un senso legittimo di sdegno, di disgusto e ripugnanza» [Lenin, Opere scelte in due volumi, Edizioni in lingue estere, vol. I, pag. 598]
«La patria, cioè l’ambiente politico, culturale e sociale, è il fattore più possente nella lotta di classe del proletariato; e, se ha torto Vollmar, che delinea un atteggiamento “puramente tedesco” del proletariato verso la “patria”, non ha poi ragione Hervé, che tratta con una così imperdonabile assenza di spirito critico un fattore tanto importante della lotta di emancipazione del proletariato. Il proletariato non può essere indifferente e apatico dinanzi alle condizioni politiche, sociali e culturali della sua lotta, e quindi non possono essergli indifferenti le sorti del suo paese. Ma le sorti del suo paese gli interessano solo nella misura in cui riguardano la lotta di classe, e non in virtù d’un “patriottismo” borghese, assolutamente sconveniente sulle labbra d’un socialdemocratico.» [Lenin, “Sulla guerra imperialista”, Edizioni Progress, Mosca 1977, pag. 24]
Di nuovo Lenin revisionista socialsciovinista!
«La bandiera della indipendenza nazionale e della sovranità nazionale è stata gettata a mare: non vi è dubbio che questa bandiera toccherà a voi di risollevarla e portarla in avanti, a voi rappresentanti dei partiti comunisti e democratici, se volete essere i patrioti del vostro paese, se volete essere la forza dirigente della nazione. Non vi è nessun altro che la possa levare in alto.” [Josif Stalin, Rapporto al XIX° Congresso del PCUS, 1952] – per “bandiera della indipendenza nazionale e della sovranità nazionale” risollevata sia dai partiti comunisti che “democratici” supponiamo che intenda quella rossa, no?
«Può un comunista, che in quanto tale è internazionalista, essere al tempo stesso un patriota? Noi sosteniamo che non solo può, ma deve esserlo. […] I comunisti cinesi devono perciò unire all’internazionalismo il patriottismo. Noi siamo al tempo stesso internazionalisti e patrioti e la nostra parola d’ordine è “combattere in difesa della patria contro gli aggressori”.» Diceva il revisionista Mao, pubblicandolo nel “Libretto rosso”.
E infine, colpo di scena, troviamo con molta sorpresa anche Hoxha schierarsi dalla parte dei revisionisti socialsciovinisti: «la bandiera del popolo, la bandiera di Ismail Qemal, veniva conservata immacolata nell’animo dei patrioti albanesi, e quella bandiera fu levata in alto e tenuta dalle mani d’acciaio dei combattenti del popolo passando intatta e indomita fra tempeste e uragani, simbolo della libertà e dell’indipendenza.” [Discorso del 18 novembre 1944] – non vediamo alcun riferimento ai lavoratori, a quanto pare Hoxha era interclassista e preferiva la parola “popolo” (P.S.: la bandiera Albanese non era rossa perché socialista: è rossa dal XV sevolo, e di simbologia socialista è stata aggiunta giusto la stella sopra l’acquila a due teste… ci ricorda qualche altra bandiera di cui stavamo discutendo prima…)

Di imperialismo italiano ne abbiamo infinitamente volte parlato, dalle politiche sanzionatorie contro Cuba ed altri Paesi, agli interventi armati in Afghanistan e medio oriente, al sostegno di azioni criminali di altri Stati contro Paesi oppressi. Inoltre è scontato, e ci stupiamo che ci sia qualcuno che non lo capisca, che parlando di “NATO”, “atlantismo”, “imperialismo atlantico”, “impero atlantico”, “occidente”, “Stati occidentali”, ecc. si includa anche l’Italia. Dovremmo aggiungercelo ogni volta, quando parliamo del blocco occidentale imperialista? Dovremmo anche specificare Stato per Stato facendo un elenco ogni volta che parliamo del suddetto blocco, per non lasciar intendere che escludiamo qualche Stato borghese particolare?
Abbiamo perso la voce per quante volte abbiamo denunciato la nostra (nel senso di Stato italiano) presenza nella NATO, le nostre politiche allineate ad essa, i nostri interventi e presenze all’estero, e i nostri (stavolta nostri nel senso concreto della parola) soldi spesi a valanghe in armamenti, tanto da analizzare nel dettaglio la situazione della NATO e della repressione perpetuata dallo Stato italiano al suo interno ed esterno nel Manifesto [Tesi V e VIII in particolare].
Se per nazioni oppresse si intendono i popoli sotto il tallone di ferro della borghesia, allora sì, siamo internazionalisti proletari in quel senso lì, e auspichiamo intrattenere relazioni con le nazioni dove tale tallone è stato annientato, e ci auspichiamo anche che si intrattengano buone relazioni tra di loro – “internazionalismo” d’altronde vuol dire “tra le nazioni”.
Se per nazioni oppresse si intendono solo i popoli del terzo mondo, allora bhe, dovremmo ignorare tutti gli scritti ed i post fatti a sostegno del popolo francese, statunitense, irlandese, olandese, ecc. che hanno protestato o protestano contro la rispettiva classe dominante.

I nostri «riferimenti sociali»… cosa si intende? Sì, siamo nati come organizzazione giovanile – anche se mai subordinata ad alcun altra organizzazione –, e abbiamo cercato di formarci prendendo in considerazione l’ambiente attorno a noi, che era appunto giovanile; ma ci siamo sempre interfacciati sin da subito al popolo nella totalità (leggasi lavoratori, pensionati e studenti, se ancora non entra in testa la nozione di popolo e si preferiscono esporre formalmente listoni della spesa), ed ormai l’ambiente giovanile si può dire finalmente che, almeno in certe zone, non ci è più vincolante.
Ma, dall’alto della vostra sapienza ed esperienza, diteci, con quali studenti dovremmo interfacciarci? Dovremmo forse chiedere l’ISEE e far compilare un questionario sull’origine familiare, visto che pare si stia avanzando l’ipotesi che sia un male interfacciarsi con studenti «di ogni ordine e grado, a prescindere dalla loro origine di classe»? Non ci abbiamo mai pensato, ma effettivamente potremmo farlo; la prossima volta che faremo volantinaggio ci proveremo. Magari ci perdiamo di mezzo anche qualche Engels, di famiglia borghese, ma almeno siam certi di non avere interessati figli di nemici di classe.

È altrettanto ridicolo accusarci di non parlare di licenziamenti, discriminazioni, sfruttamento ecc., quando abbiamo da sempre denunciato tali atti repressivi sia sul sito, sui social, che sulla nostra rivista e nella militanza concreta. Parlando del sito possiamo esporre qualche esempio con i seguenti link: “Ogni giorno si continua a morire sul lavoro per il profitto“, “Solidarietà ai lavoratori della Gianetti ruote“, “Solidarietà allo spazio abitativo sociale di via Iglesias a Milano“, “Tra privatizzazione di Whirpool e Costituzione“, “Non chiamatelo regime“; per non parlare della questione green pass, su cui ci siamo in questi ultimi tempi appunto focalizzati, in quanto intacca tutto, dal tema del lavoro al tema dei diritti in generale, e su cui molti “compagni” – ormai abbiamo il dubbio se definirli così o “camerati” – ancora non abbiano ben chiare le analisi, ignorando il fatto che si stia parlando non di uno strumento meramente sanitario ma di un potenziale (ed ennesimo) mezzo politico con cui la borghesia potrà (ulteriormente) reprimere la popolazione, in maniera molto più capillare, negando arbitrariamente l’accesso a determinati o tutti i servizi pubblici (e appunto il diritto al lavoro).
Non ne parliamo abbastanza? Tale critica può esser legittima. «Dice poco o nulla»? È una stronzata.
Inutile tenere il segreto di pulcinella: la criticità principale che ci vincola nel non scrivere assiduamente sul tema – anche se dovrebbe esser piuttosto un compito dei sindacati e non il nostro – è il numero di militanti competenti nel tema, ma nel nostro possiamo dire di star facendo abbastanza, dando sia solidarietà sia virtualmente che, dove possibile, sostenendo concretamente le lotte dei lavoratori nelle varie località dove siamo appunto presenti fisicamente.

Sulla nostra formazione, possiamo dire senza peli sulla lingua che nessuno dei primi militanti (giovanili) abbia avuto previe esperienze politiche. Dei personali trascorsi francamente non ci interessa; nessuno, o quasi, nasce comunista o socialista. Se qualcuno a 15 anni, nelle scuole medie, era «(ex) simpatizzante» del «blocco studentesco» – tra l’altro, facciamo notare, in un periodo in cui il blocco era praticamente egemone negli ambienti scolastici italiani –, non vediamo perché debba esser ostracizzato e tenuto magari nella sua ignoranza od arroganza, addirittura dopo anni da tale errore; il ruolo dell’avanguardia non era quello di elevare le masse? Oppure dovremmo elevare le masse nel senso di fare un club di quelli già elevati, che non hanno mai votato alcun partito borghese, che non hanno mai creduto ad alcuna bufala propinata dalla borghesia? Lasciamo i club agli altri; a noi interessa interfacciarci col popolo.
D’altronde Allende era un fascista da giovane e fascista è rimasto, così come Honecker è rimasto anarchico e Marx è rimasto idealista hegeliano, giungerebbe a conclusione sicuramente qualcuno seguendo tale ragionamento.
Visto che si è andati a parare sul personale parlando della provenienza di classe dei militanti – anche se si è rimasti sul generico – anche qui non abbiamo peli sulla lingua nel dire che non abbiamo in verità alcun militante “proveniente” dall’alta borghesia, ma abbiamo militanti che lavorano, altri che non hanno uno spiccio, altri che hanno addirittura perso la casa, e ci pare assurdo dover parlare di ciò quasi come se ci si dovesse giustificare di qualcosa o se ci facesse a gara a chi più è “proletario” nel senso etimologico della parola; quindi evitiamo di sparare fandonie.

Sulle dinamiche con lo schieramento trotskista citato, crediamo che sia bastata l’autocritica che abbiamo ormai più di un anno fa pubblicato. Non siamo stati una giovanile di “P101” (l’organizzazione dietro “Sollevazione”), né tantomeno siamo nati da essi; siamo nati come organizzazione a sé, e abbiamo trovato dopo diversi mesi in P101 – possiamo dire in questo caso ingenuamente – un interlocutore valido, con cui abbiamo poi, dopo varie collaborazioni, stretto un patto d’azione. Insieme ad essi abbiamo fatto parte della piattaforma “Liberiamo l’Italia”, ennesimo progetto fallimentare di P101, che ha anticipato le varie sigle che son state citate nella critica (il diretto erede “Fronte del dissenso”, e i paralleli “Vox” e a sua volta “Ancora Italia”). Non abbiamo partecipato ad alcun “Campo antimperialista” – tra l’altro con posizioni a noi opposte in moltissime questioni, in primis sulla questione siriana –, in quanto siamo nati dopo tale ondata di eventi di P101. Non abbiamo mai aderito ad alcuna “Marcia della liberazione”, soprattutto perché queste sono venute dopo la nostra fuoriuscita dall’organizzazione, e non abbiamo mai collaborato con le sigle “fusariane” (Vox e Ancora Italia), a differenza di P101, e abbiamo collaborato con “Nuova direzione” solo in maniera indiretta avendo fatto parte di “Liberiamo l’Italia”. Quest’ultima, per chiarire, era una semplice piattaforma che avrebbe dovuto unire, e non fondere, varie anime di sinistra (e non esclusivamente comuniste) in funzione anti-UE ed anti-NATO, ma è ben presto degenerato tutto, e siamo fuoriusciti, stracciando anche il patto d’azione con i trotskisti di P101, prima che tutti questi si decidessero ad aderire al progetto “sovranista” di Paragone, chiodo definitivo alla bara di tale progetto nato almeno idealisticamente positivo. È stato tempo perso? Forse; ma è stato, almeno per noi, un passaggio dialettico non di poco conto, e non totalmente rinnegabile. E d’altronde abbiamo sempre fatto politica per conto nostro, in modo parallelo ed autonomo, anche facendo parte dei vari Comitati; quando ci rendiamo conto che non vale la pena far parte di un Comitato, semplicemente facciamo i bagagli, così come è successo recentemente con il Rizzo-centrico Comitato 27 febbraio – nato anch’esso idealisticamente con una funzione positiva, poi rivelatosi dopo pochissimo tempo fallimentare.

Ci si accusa indirettamente di abusare, come i “sovranisti” da salotto, del termine «dittatura sanitaria». In verità è difficile trovare un articolo o un post dove citiamo tale parola, se non dove ci teniamo a specificare che dietro a tale apparente “dittatura” – la cui terminologia etimologica è già di per sé errata per ciò che si vorrebbe dire, e a ciò rimandiamo nuovamente al revisionista socialsciovinista Rousseau – si cela piuttosto il solito despotismo borghese, con nuovi mezzi adattati al contesto (pandemico) in cui navighiamo. Su tale questione ci siamo espressi innumerevoli volte, e citiamo giusto qualche articolo qui di seguito, ma ne riuscirete a trovarne di altri nel medesimo sito: “Dittatura sanitaria?“, “Per un’analisi politica del covid-19“, il documento “Virtù e criticità che emergono dalle proteste di Napoli“; e i soliti aspri articoli del compagno Eros, scritti contro il complottismo: “Chip chip chip“, e “Manca capacita d’analisi in questo delirio“.

Di «mondialismi» e cazzate varie non abbiamo mai parlato, e già parlando di socialismo si esclude l’ottica citata nella critica, secondo cui staremmo puntando a salvaguardare il capitalismo “classico” in contrapposizione a quello «neoliberista», alla «cupola mondialista», al «nuovo regime». Mai parlato di “nuovo regime”; anzi, ci siamo spesso spinti ad affermare che l’alta borghesia è la medesima dai tempi dei nazisti o addirittura dei tempi ancora più addietro. Il contrapposto dualismo borghesia – proletariato va avanti, almeno in occidente, da decenni, si potrebbe dire secoli, ed ogni volta che il proletariato inizia a prender coscienza ed alzare la testa, la borghesia ricorre a misure (ancor più) repressive, sfociando appunto nel fascismo. Questo, e non altro, è ciò che emerge davvero dalla lettura dei nostri testi e dal nostro Manifesto. Il nemico è proprio «il capitalismo giunto al suo ultimo stadio», che è l’imperialismo, e, nella sua forma economica intestina, «neoliberismo».
Rinnegare il capitalismo come nemico non solo vuol dire non essere comunisti, ma non esser proprio socialisti; e accusarci di ciò non vuol dire non averci capito una mazza, ma non aver proprio letto niente di ciò che scriviamo – sempre se non si è carenti di neuroni; in tal caso ci scusiamo dell’eventuale “abilismo” e disagio arrecato.

E di nuovo, non incentriamo assolutamente la nostra lotta puntando alla piccola borghesia. E di nuovo, rimandiamo al già citato capitolo del Manifesto “Le contraddizioni fra piccola e grande borghesia”. Se anche prender in considerazione e, nel caso – e in Italia è il caso, essendo essi una fetta una fetta non indifferente della popolazione –, stringere accordi con la piccola borghesia per i nostri critici vuol dire «incentrare» le proprie politiche su di essi, allora bhe, ci scusiamo per il nostro dogmatico leninismo:
«Sopprimere le classi non significa soltanto cacciare i proprietari fondiari e i capitalisti (…) ma vuol dire eliminare i piccoli produttori di merci, che è impossibile cacciare, impossibile eliminare, con i quali bisogna trovare un’intesa (…), rieducare solo con un lavoro di organizzazione molto lungo, molto lento e molto prudente.»
«Da tutto ciò deriva la necessità (…) per l’avanguardia del proletariato, per il partito comunista, di manovrare, di stringere accordi, di fare compromessi con i diversi gruppi proletari (…) e i piccoli padroni».
«I democratici piccolo-borghesi oscillano inevitabilmente tra la borghesia e il proletariato (…), tra la simpatia per gli operai e la paura della dittatura proletaria, ecc. La giusta tattica dei comunisti deve consistere nell’utilizzare queste oscillazioni e non nell’ignorarle. La loro utilizzazione esige che si facciano delle concessioni a quegli elementi che si orientano verso il proletariato nel momento e nella misura in cui si orientano verso di esso.» [Lenin, “L’estremismo, malattia infantile del comunismo”]

Del «sovranismo costituzionale» non ne facciamo nulla, anche se sono spesso più rispettabili i “costituzionalisti” – e non parliamo dei destroterminali – che certi sedicenti “compagni”. Abbiamo in diversi documenti ed articoli, ed anche post, per non parlare dei nostri individuali interventi fisici nelle manifestazioni dove opportuno, parlato di “rinnovo costituzionale“, in quanto la Costituzione del ’48, ora praticamente inesistente, era sì la Costituzione più progressista e di sinistra del blocco occidentale, ma aveva in seno il seme della propria morte, e dialetticamente proprio ciò è avvenuto. In quanto frutto di un compromesso con la borghesia, e in quanto è prevalsa quest’ultima, non poteva che accadere che altrimenti. Ciò che va fatto a nostro parere è rinnovare la Costituzione, ma per fare ciò occorre chiaramente prima ottenere il potere politico, in quanto una nuova Costitizione sotto questo regime equivarrebbe, o sarebbe anche peggio, alla Costituzione odierna. Sulla questione rimandiamo all’ultimo capitolo del Manifesto “La prospettiva socialista: il Fronte Popolare”, l’articolo del compagno Barca Legra “Ricostruire, ricomporre o costruire?” e il breve documento “Per una nuova Repubblica, per una nuova Assemblea Costituente“.

Non attendiamo alcuna «federazione costituente del partito», in quanto crediamo che un Partito sia frutto di uno sviluppo storico, e che non sia una bacchetta magica che porta automaticamente e necessariamente alla Rivoluzione (se così fosse, oggi dovremmo avere 100 Rivoluzioni, a quanto pare tutte in sala d’attesa o in cottura). Quando la popolazione sarà pronta e cercherà un Partito comunista, socialista, o come lo si voglia chiamare, allora sarà l’ora di farne uno. Fino ad allora, il nostro compito sarà quello di far ragionare le masse, far prendere a queste coscienza di classe, poi coscienza politica.
Su ciò, abbiamo scritto nell’ultimo capitolo del Manifesto già sopracitato, “La prospettiva socialista: il Fronte popolare”, da cui estrapoliamo qui il passaggio saliente e più riassuntivo sul tema: «Di quale soggettività si ha bisogno? Le formazioni comuniste o socialiste abbondano, così come abbondano sigle sindacali, associazioni politiche e culturali, oltre che movimenti “di base” nati su particolari vertenze e questioni. Un partito di massa è una costruzione storica. Esso non si può improvvisare, non nasce solo perché vi è la volontà di renderlo reale.
Lo strumento di cui oggi si ha bisogno è il Fronte Popolare. Gli esempi della storia recente parlando chiaro, dalla Bolivia al Venezuela, cosiccome è anche la storia a rivolgerci un messaggio chiaro: il Fronte Popolare si è dimostrato lo strumento più efficace e solido di lotta al fascismo, e cosa è l’odierno regime neoliberista se non la riproposizione della “dittatura terroristica aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario.”
Date le condizioni presenti lo strumento più idoneo alla conquista del potere politico è un soggetto costituito da tutte le associazioni,  movimenti, partiti e intellettuali che in condizioni di parità e rispetto reciproco delle proprie peculiarità costituiscano un fronte unito per il Socialismo. Queste realtà dovranno concordare senza riserve e difendere in maniera ferrea pochi capisaldi: l’antimperialismo che in questo preciso momento storico significa uscire dall’Unione Europea e dall’area Euro, uscire dalla NATO e la fine della sottomissione agli Stati Uniti; il rovesciamento radicale dei rapporti di forza e la rottura totale con qualsiasi formazione di sinistra e non solo legata all’establishment.»
Il Fronte popolare è, in sintesi, una coalizione. Una coalizione che però, per funzionare, deve essere quindi valida. In Venezuela così come in altri Paesi socialisti non-marxisti il Fronte popolare è stato egemonizzato, appunto, da socialisti non-marxisti, ma così come ci sono riusciti loro, possiamo potenzialmenre riuscirci noi, marxisti-leninisti, ad egemonizzarlo. Il Fronte popolare è a nostro parere un ottimo mezzo, per quanto riguarda sia la lotta extraparlamentare – dove si agisce più in autonomia – che, in particolar modo, quella elettorale-parlamentare.
Ciò porta inevitabilmente all’opportunismo? Decisamente no, o lo sarebbero diventati tutti i Partiti marxisti-leninisti che partecipavano alle elezioni e al parlamento – bolscevichi compresi.
Ciò vuol dire che stiamo pianificando una nuova accozzaglia di partitozzi per fare un Fronte dal nulla? Di nuovo no; anzi, se è di questo passo, faremo prima ad aspettare la guerra piuttosto che trovarci di fronte alla creazione di un Fronte che riesce a porre da parte l’ascia da guerra e l’elettoralismo ed autoreferenzialismo becero di praticamente tutti i Partiti cosiddetti comunisti.
Attendiamo un capo carismatico? Proprio no. Questa è forse una delle caratteristiche che più ci contraddistingue dal resto del panorama socialista. Pur riconoscendo il ruolo storico che hanno avuto (ed hanno) tantissime leadership che oggi rispettiamo od osanniamo – da Lenin a Stalin, da Mao a Minh, da Castro a Sankara, da Gheddafi a Hussein –, siamo sicuri che sia possibile non solo formare un’organizzazione politica, ma anche i movimenti di massa, l’intero Stato socialista, senza alcuna figura personale al vertice, tant’è che, come è possibile leggere dallo Statuto [qui il link] M-48 non ha alcun segretario generale, ma ha al suo vertice solo il Comitato centrale, eletto seguendo i princìpi del centralismo democratico. Non attendiamo dunque alcun principe azzurro o messianico ritorno di un qualche re Arthur che estrarrà un’altra spada nella roccia. Riconosciamo nel ruolo della leadership carismatica una certa importanza storica, ma non la riteniamo necessaria per compiere una Rivoluzione; confidiamo nel popolo, ma ha comunque bisogno di una avanguardia – che non vuol dire necessariamente “leader carismatico”, ma semplici individui coscienti che, organizzati, elevano la coscienza delle masse ancora incoscienti.

Sulla parte della popolazione a cui “si punta”; sarà forse sbagliato cercare di «puntare» all’«elettorato deluso» che va dai m5s alla lega? Andiamo a raschiare i voti dal pd, in alternativa? Non ci sono altre opzioni, oltre a queste e all’ovvia porzione della popolazione che è “storicamente” (o meglio da qualche decennio) apartitica, e a cui senza alcun dubbio ogni sano di mente punterebbe.
Esiste una parte della popolazione a noi sconosciuta, che non è né apartitica, né legaiola-destronza, né grillina, né piddina-sinistrata? Esiste nell’ideale, sì; ma non siamo idealisti. Siamo materialisti, e non attendiamo la manna, il proletariato già cosciente, o perfino già organizzato, come fanno invece i bordighisti. La popolazione è questa, e se si vuole interfacciare con la realtà si deve (anche) considerare di far instaurare coscienza di classe nell’«elettorato deluso» – che, negli occhi di certi “comunisti” da salotto, sono visti come degli appestati che vanno ostracizzati, criminali di guerra, stupidi, rincotonghi la cui esistenza non deve neanche esser presa in considerazione. Sì dai, cerchiamo di convincere i muri a militare, sicuramente sarà più utile rispetto a considerare il 60% dell’elettorato.
Il bello è che poi si dice che «non va sottovalutata la capacità di penetrazione» in ambienti di sinistra dove «abbondano gli elementi senza coscienza politica di classe». 1) Esistono oggi ambienti di sinistra, a parte noi che discutiamo e filosofeggiamo metafisicamente? 2) Non s’era implicitamente detto che gli elementi “senza coscienza politica di classe” vadano emarginati perché buzzurri destronzi? Ora sono di sinistra ma “senza coscienza politica di classe”? 3) Non s’era detto che M-48 cerca di pescare in ambienti destronzi e piccolo-borghesi? Peschiamo dappertutto? Non sapevamo di esser considerati dei squali così grossi e capaci.
Le altre riassuntive critiche successive a questo punto sono riconducibili a tutto ciò da noi detto sopra, quindi non ci soffermeremo nuovamente sulla questione del “sostenere il capitalismo” ed altre scempiaggini simili.

Divertente la chiosa finale che fa presumere una nostra connessione a qualche rete di fili che riportano alle «diverse agenzie dell’imperialismo» nel «nostro paese», in quanto «laboratorio politico» dove esse agiscono. Ora non siamo più noi a gridare al lupo indicando gli USA e la NATO. Ora pare che sia qualcun altro qui a presumere che l’Italia sia una colonia, una parte, un tassello dell’impero atlantico, dove agiscono, al di sopra di tutti i vertici, gli imperialisti d’oltreoceano.
Ci amano così tanto le “agenzie dell’imperialismo” che oltre a buttarci giù pagine e post social, ci becchiamo denunce [qui un nostro comunicato a riguardo], e intimidazioni locali da parte della digos anche per banali affissioni – cose che succedono, appunto, a tutti quelli che fanno banale militanza.
Ci saranno infiltrati e denari della CIA? Chi lo sa. Invitiamo i signori di Scintilla ad infiltrarsi a loro volta in M-48 per spiarci le riunioni e partecipare ai meccanismi democratici che abbiamo all’interno della nostra struttura, visto che, oltre alle riunioni che teniamo ogni due settimane, pubblichiamo ogni mese – stando allo Statuto già citato – il “bilancio” del Movimento, dove potrete ammirare i numeri a 10 cifre che entrano ed escono dalle nostre casse, comprando semplici volantini, bandiere, megafoni, testate atomiche, e striscioni – stranamente però non riusciamo a stampare abbastanza giornali, né a iniziare a pubblicare i cartacei dei nostri testi; forse spendiamo troppi soldi della CIA in testate atomiche.

Concludiamo dicendo che Piattaforma comunista è liberissima di riprendersi la palla e ribatterci, ma che non si inizi a far un dibattito sterile e fine a se stesso attorno a sofismi per la semplice goduria di sentirsi in qualche modo superiori dal proprio altissimo piedistallo immacolato del marxismo-engelsismo-leninismo-stalinismo-hoxhaismo.
Preghiamo a loro e ad altri di analizzare – non pretendiamo che siano buone analisi, ma che almeno possano esser definite analisi – i nostri documenti e scritti, prima di porre delle benvenute critiche. Nel caso Piattaforma comunista ci risponderà con nuovi punti (ci auguriamo sensati), risponderemo; ma se tali punti saranno ritenuti pressoché ripetitivi e ridondanti a quelli che hanno già mosso, riteniamo inutile rispondere, preferendo rimandare la lettura (o rilettura) della lunga risposta che abbiamo ora concluso.