di Leonardo Sinigaglia

La prima fase delle mobilitazioni contro la gestione pandemica, che possiamo considerare essersi aperta con le proteste di Napoli dell’ottobre 2020 e aver visto la sua conclusione con l’allentamento delle restrizioni nella primavera successiva, fu caratterizzata dal suo carattere economico e corporativo. Ad essersi mobilitati furono in particolare le categorie della piccola borghesia: baristi, ristoratori e commercianti sui quali veniva scaricato gran parte del peso delle irrazionali misure dell’allora governo Conte II. La mobilitazione politica fu solo successiva a quella economica, e riguardò principalmente la cittadinanza solidale coi commercianti e pochi gruppi organizzati intenti a cercare di ampliare le prospettive della protesta, coinvolgendo altri settori lavorativi e facendola uscire dai limiti categoriali. Questa fase si esaurì quando i commercianti vennero progressivamente ricondotti nell’alveo governativo dall’attenuarsi delle misure, o dal diversificarsi di esse. Con l’avvento della bella stagione, come già accaduto l’anno precedente, la pace sociale venne apparentemente ripristinata.
La questione viene riaperta il 22 luglio, quando Mario Draghi annuncia per il 6 agosto l’introduzione delle prime restrizioni per le persone sprovviste di Green Pass, certificato presentato come misura sanitaria, in realtà “tessera di partito” digitale privo di qualsiasi ratio scientifica. La natura politica del Green Pass come il suo uso strumentale per garantire l’adesione ideologica al governo Draghi e la fiducia in una campagna vaccinale tutt’altro che risolutiva furono chiari sin dall’inizio, venendo poi confermati con sempre più insistenza nei mesi seguenti.
Al contrario della prima fase di mobilitazione, questa seconda fase si aprì con rivendicazioni politiche, per quanto confuse e minimali. Essa ebbe inizio simbolico il 24 luglio, il primo sabato di protesta che avrebbe dato il via ad una lunga serie di manifestazioni che proseguiranno senza soluzione di continuità fino alla fine dell’anno.

“Populismo demenziale”

Annunciata come giornata nazionale di mobilitazione a partire da canali telegram, la giornata del 24 luglio fu la prima inaspettata risposta al crescente bisogno di manifestare il proprio dissenso verso la direzione in cui il paese si era incamminato. Il successo di quella data fu assolutamente casuale: in nessuna città ci fu un’organizzazione preventiva della protesta, ele stesse piazze annunciate furono parte di un bluff telematico volto ad invogliare a scendere in strada. Con sorpresa di molti, le piazze d’Italia sabato 24 luglio furono quindi letteralmente invase da una galassia eterogenea e disorganizzata, che esprimeva nel suo complesso un più o meno consapevole rifiuto del governo e della gestione pandemica, rifiuto spesso politicamente non argomentato, impulsivo, frutto di un sentore e di una generale sfiducia. Su questo rifiuto si è costruita una delle stagioni di lotta politica più intense della storia recente del nostro paese.
Nonostante l’inviperita reazione di media ed istituzioni la mobilitazione andò avanti nelle settimane successive, superando anche la prova del ponte di ferragosto e del caldo torrido che avvolgeva molte città italiane. Infatti la protesta mai si limitò ai soli capoluoghi, o alle città principali, ma si sviluppò anche nei centri minori, da Busto Arsizio a Massa, da Mestre a Salerno.
La mancanza di un centro direttivo e il grande numero di città coinvolte furono la causa di una innegabile eterogeneità dei modi e dei contenuti della protesta. Se certe città come Milano optarono fin da subito per la strada dello scontro diretto, evitando come prassi di comunicare le proprie manifestazioni causando non pochi problemi di ordine pubblico, altre come Genova scelsero la strada della mediazioni, assicurando alla protesta nella città uno sviluppo pacifico per quanto sicuramente non meno incisivo. Allo stesso modo si potè riscontrare una differenziazione del contenuto della manifestazione, con certe piazze caratterizzate dall’enfasi “spiritualista” su vibrazioni cosmiche e “grande risveglio”, mentre altre già più indirizzate verso la materialità della contrapposizione politica. Generalmente però col passare dei giorni si è potuta riscontrare una progressiva politicizzazione delle piazze, passate rapidamente da essere di semplice contrapposizione verso il Green Pass, o la stessa campagna vaccinale, a di aperta contestazione globale contro il governo Draghi e tutto ciò che esso rappresenta in termini di sudditanza geopolitica, eterodirezione economica e contrazione di ogni spazio democratico.
In questo primo periodo di disorganizzazione magmatica ebbero gioco facile forze organizzate interessate ad inserirsi nella protesta per tentare di egemonizzarla. In particolare nella città di Roma abbiamo assistito al ripetuto tentativo da parte di Forza Nuova di parassitare il movimento contro il Green Pass attraverso la creazione di veri e propri “proxy” con i quali presentarsi pubblicamente. Ciò fu tentato anche nella prima fase di mobilitazione, e vide come prodotto il gruppo ‘Io apro’ e il ‘Movimento imprese italiane’. Tra agosto e ottobre furono diverse le sigle create, o sfruttate, dal partito di estrema destra per mimetizzarsi: ‘Ora basta’, ‘Movimento italiano’, ‘Fronte di Liberazione’, o ancora ‘Siamo il popolo delle piazze d’Italia’. Nessuna di queste coperture è riuscita ad ottenere successo di piazza se non all’ombra del manesco servizio d’ordine di Forza Nuova, che nella Capitale ha impedito che si creasse un’autonoma rete cittadina.
Il tentativo egemonico di Forza Nuova sul movimento, se nella pratica limitato alla città di
Roma, cercò di estendersi a tutto il paese tramite chiamate nazionali, anonime e diffuse
tramite canali social, che ciclicamente riproponevano il classico “tutti a Roma” presentandolo
come prova di forza risolutiva. Fu proprio in occasione di uno di questi appuntamenti che,
dopo averlo annunciato pubblicamente in piazza, Roberto Fiore e Giuliano Castellino
guidarono l’assalto alla sede nazionale della CGIL che, pur coinvolgendo in realtà una minima frazione dei manifestanti di quella giornata e ricevendo un ambiguo “accompagnamento” da parte delle forze dell’ordine, servirà a demonizzare tutto il movimento contro il Green Pass per le settimane seguenti.

Complici e salvatori

L’attacco alla sede della CGIL da parte di un paio di centinaia di manifestanti guidati dai “capoccia” di Forza Nuova va contestualizzato non solo nella volontà da parte dell’estrema destra di radicalizzare in senso reazionario la protesta, fornendo così un utilissimo assist al Ministero dell’Interno, ma anche e soprattutto in un momento di estrema tensione legata al mondo sindacale. Infatti dal governo era stata annunciata la volontà di introdurre l’obbligo di Green Pass per poter lavorare a partire dal 15 ottobre, andando così violentemente ad attaccare il diritto al lavoro, mettendo milioni di cittadini davanti al vergognoso ricatto di essere forzati ad aderire alla campagna vaccinale, di essere costretti a pagare 15 euro ogni quarantotto ore o di essere allontanati forzatamente dai posti di lavoro. Davanti a questo provvedimento la reazione dei sindacati confederali, CGIL in testa, fu ancora una volta quella del più bieco servilismo filo-governativo. Ma nemmeno spostandosi nel terreno più radicale dei sindacati di base possiamo ritrovare posizioni più conflittuali o analisi più calzanti della situazione: mentre in generale l’USB, controllata dalla Rete dei Comunisti, ha sempre spinto per un miope ed insensato “obbligo vaccinale” come soluzione al problema del Green Pass, negandone l’aspetto politico, dai Si Cobas sono state prodotte analisi anche pregevoli sulla questione [qui un esempio delle analisi dei Si Cobas], ma slegate tuttavia da un vero incontro pratico col movimento popolare. Solo la CUB si fece portatrice di una ferrea e totale condanna a tutto l’apparato emergenziale e di gestione pandemica, il che ha portato ad una presenza significativa di questo sindacato in svariate piazze del movimento.
La bandiera “No Green Pass” rimase comunque per la stragrande maggioranza dei sindacalisti di base un qualcosa di scomodo, da non mettere in mostra. Infatti nello sciopero generale dell’11 ottobre il tema del contrasto al certificato verde, che non trovò spazio sulle chiamate nazionali, venne fortemente ribadito nelle singole piazze cittadine non già dalle organizzazioni sindacali, ma dai lavoratori e dai cittadini, che dal basso dimostrarono anche su questo terreno la propria ostilità al governo. Questa dicotomia portò non pochi problemi: a Trieste e Genova la manifestazione si separò in due diversi spezzoni, mentre a Roma militanti del Fronte della Gioventù Comunista aggredirono un gruppo della rete Studenti contro il Green Pass. Solo a Milano si segnalò un corteo unitario e coerente sul tema del lasciapassare.
La risposta del mondo del lavoro all’introduzione dell’obbligo del Green Pass non provenne dai sindacati, ma dall’organizzazione spontanea dei lavoratori raccolti attorno al simbolo dei portuali. Nei giorni successivi allo sciopero generale venne infatti diffuso da parte dei lavoratori portuali di Trieste un comunicato in cui si prometteva il blocco del porto in risposta alla discriminazione subita. Raccolta la solidarietà dei lavoratori di altri porti italiani, il 15 ottobre venne appunto bloccato il porto della città friulana, seguito a ruota da quello di Genova, mentre atti di solidarietà si segnalarono in altre città.
I lavoratori portuali si trovarono oggetto di un’enorme solidarietà popolare, con migliaia di persone accorse ai presidi permanenti, donazioni, macchine provenienti da fuori regione, o persino da oltre confine, cariche di manifestanti. In pochissimi giorni le speranze in un intervento salvifico di questa categoria crebbero a dismisura, con la riproposizione delle speranze esplose il prima del 27 settembre per un ipotetico preannunciato blocco dei camionisti che avrebbe dovuto immobilizzare il paese e cacciare il governo. A differenza di questo, nato e morto sui canali telegram, il blocco dei portuali era reale, e nasceva dall’organizzazione reale dei lavoratori. Attribuirgli un ruolo risolutivo, soprattutto a posteriori, appare assolutamente come ingiustificato, ma sicuramente il blocco dei porti servì a galvanizzare gli animi del movimento, riportando non solo speranza davanti ad un governo
irremovibile dalla sua linea, ma anche andando a spezzare quell’isolamento in cui i media e i partiti di maggioranza cercavano di costruire attorno ai manifestanti.
Il blocco davanti al porto di Trieste, forte di migliaia di cittadini e lavoratori, venne sgomberato a colpi di cannoni ad acqua il 18 ottobre, mentre quello di Genova riuscì a resistere, con numeri di molto inferiori, fino all’alba del 21 ottobre.
Nelle settimane successive nelle città coinvolte dai blocchi i lavoratori portuali contro il Green Pass diventarono una presenza costante nelle mobilitazioni, presenziando anche come ospiti in diverse città, da Milano a Torino.
Lo sciopero dell’11 ottobre e la successiva occupazione dei porti non si rivelarono politicamente fondamentali nella lotta al governo e ai suoi provvedimenti, ma ebbero l’indiscusso merito di avvicinare al mondo della lotta sindacale tutto il movimento contro il Green Pass, non solo creando contatti diretti fra la cittadinanza attiva e i lavoratori organizzati ma insegnando praticamente modalità di sciopero e il significato politico di questo.

Guerra di logoramento

I mesi di Novembre e Dicembre videro le mobilitazioni continuare in tutte le città d’Italia, anche se in contesti sempre più difficili ed ostili. Nella sola Milano ogni settimana si registrarono decine di arresti e segnalazioni, con interi gruppi di centinaia di manifestanti circondati e schedati dalle forze di polizia.
L’incapacità del movimento di diventare un reale problema politico per il governo, o anche solo di ordine pubblico, portò Draghi ad accelerare sulle restrizioni e sulla campagna d’odio portata avanti dal suo esecutivo. Egli arrivò a negare pubblicamente la “cittadinanza” ai contrari al Green Pass e ai non vaccinati, affermando che i soggetti a restrizioni solo in futuro sarebbero potuti tornare ad essere parte della società (24 novembre 2021).
Se da parte del governo non si sono registrati cedimenti, anzi è stata rinvigorita la campagna mediatica volta a screditare il movimento contro il Green Pass, nemmeno sul fronte opposto si sono registrati cedimenti. E se è vero che le prime dosi sono state ormai somministrate al 90% degli italiani, questo consenso rimane estorto, frutto di violenza fisica, morale, economica e psicologica. Manifestazioni si sono susseguite per tutta la fine del 2021: iniziate nel caldo di Luglio hanno continuato sotto la neve di dicembre, persino nei giorni della Vigilia e di Natale.

Conclusione

Importanti conferenze come quella organizzata dalla commissione ‘Dubbio e Precauzione’ a Torino l’otto dicembre hanno sottolineato la necessità di una risposta che sia strutturata, politica e culturale all’incipiente tirannia, ma sono rimaste tuttavia ancora alla fase enunciativa, prediligendo ad oggi ancora la riflessione. D’altra parte abbiamo visto dal lato delle “piazze” l’attività del Fronte del Dissenso in diverse piazze d’Italia, che se da un lato ha sviluppato logiche tutto sommato “unitarie”, dall’altro non è riuscito ad uscire da un’azione legata alla promozione di eventi/kermesse, con numerosi interventi sicuramente spesso di spessore ed interessanti, mediaticamente notevoli, ma incapaci di porsi sul terreno della mobilitazione politica, riservando alla cittadinanza unicamente il ruolo di spettatrice.
Se l’estrema destra sembra aver esaurito quel poco di carica propulsiva che la portò a parassitare il movimento romano e, attraverso alcuni gruppi ultras, a farsi promotrice di scontri e manifestazioni nella prima fase di mobilitazione, l’estrema sinistra appare oramai irrecuperabilmente superata e condannata ad una marginalità assoluta. Mentre svariate sigle della galassia nominalmente “comunista”, come i già citati RDC, FGC, oppure il PCI o Rifondazione Comunista, appaiono appiattite su posizioni filo-governative, l’area antagonista, con mesi di ritardo ed in maniera disomogenea, si è espressa contro il Green Pass e la gestione pandemica, gravitando però sempre ai margini delle mobilitazioni, guardandole sempre con una certa dose di diffidenza quando non di aperta ostilità. Mediana la posizione del Partito Comunista, che se da un lato ha mosso critiche al lasciapassare verde, dall’altro ha rifiutato qualsiasi azione concreta, preferendo un’azione autoreferenziale e slegata dalle reali vicende del paese.
Dal punto di vista istituzionale rimangono in Parlamento poche, e residuali, sacche di resistenza. Una manciata di deputati e senatori, principalmente del gruppo misto o aderenti a L’Alternativa, “resistono” portando attacchi ufficiali al governo e a Draghi anche con una
notabile veemenza.
Dopo venticinque settimane di ininterrotte mobilitazioni, il movimento appare nella sua globalità molto stanco, incapace al momento di rinnovarsi autonomamente per portare avanti una lotta che giorno dopo giorno propende verso la complessità e la radicalizzazione.
Ottenuto il risultato minimo di rompere la narrativa governativa che voleva dipingere gli italiani come pronti senza imbarazzo a “credere, obbedire e combattere”, occorre ora un salto di qualità per evitare di perdere gran parte dei risultati ottenuti in mesi di lotta in termine di organizzazione ed esperienza.
La possibilità di questo salto di qualità dipende principalmente da due fattori:
-L’esistenza di un centro nazionale, la cui autorevolezza e ruolo guida siano riconosciuti tanto nella pratica quanto nella teoria dal movimento, che sappia coordinare la lotta e farla uscire dalla dimensione locale, dalla mera reazione ai provvedimenti governativi e dai folkloristici personalismi;
-La creazione di una “bandiera” che sia positiva, sintetica ed innovativa per il movimento, che non si riduca a vago slogan o fraseologia generalista, ma che sia un vero e proprio programma politico minimo e coalizzante capace di trasformare la lotta contro il Green Pass, già diventata lotta contro il Governo, in lotta per una nuova Italia.