di Leonardo Sinigaglia


“Sono tutti d’accordo”, spesso si dice. Ma questa frase, che potrebbe apparire come radicale ed incendiaria nella sua condanna a tutto campo dell’esistente, nasconde in realtà un vuoto da riempire. In primo luogo un vuoto che è di capacità d’analisi: davanti a fenomeni incredibilmente complessi, la scomposizione dei singoli processi e la loro ricomposizione in tendenze globali generali diviene difficile se non impossibile, portando quindi a semplificazione e banalizzazioni. Questo viene aggravato dalla quasi assenza di punti di riferimento solidi ed autorevoli, sia dal punto di vista politico che mediatico, oltre che da tutte le dannosissime conseguenze del venir meno nel nostro emisfero di partiti di massa a forte carattere ideologico.
Ne consegue quindi anche un altro vuoto che dev’essere colmato: quello della razionalità.
Sostituire alla complessità dei fenomeni la natura controllata del palcoscenico permette di spiegare e chiarire a sé stessi la realtà. L’idea di un copione globale in cui ciascuno dei “potenti” a vario titolo sarebbe coinvolto ha sicuramente il vantaggio di essere immediata nell’esposizione, oltre che quello di ridurre all’irrilevanza qualsiasi contraddizione o contraddittorietà, derubricate facilmente a parte della farsa.
E’ indubbio che vi siano certi tipi di connivenze o di convenienze a livello internazionale, e che soprattutto in seno alla classe dominante esistono intendimenti per portare avanti determinati processi andandoli a difendere da eventuali attacchi che possono provenire tanto dall’interno quanto dall’esterno, ma altrettanto è indubbio che per ogni interesse
momentaneamente convergente esiste, o può facilmente manifestarsi, un interesse divergente. Sarà poi la risultante della forza dei vari soggetti a decidere se si raggiungerà un compromesso oppure se uno degli interessi prevaricherà sugli altri, che, almeno per il momento, saranno costretti a soccombere.
Ciò avviene in ogni campo, e può essere inteso come norma generale. Due esempi utili a comprendere ciò possono essere quello del rapporto fra interessi dei ceti industriali colpiti dal lockdown nei paesi occidentali e le politiche governative di questi, e le diverse disposizioni rispetto agli accordi commerciali con Cina e Russia fra paesi guida dell’Unione Europea e Stati Uniti.
Nel primo caso abbiamo avuto un’antitesi data dalle politiche di lockdown progressivamente applicate e la necessità per le industrie di poter disporre della propria mano d’opera, che si è risolta negli Stati Uniti con la lotta politica dei settori industriali “low-tech”, impossibilitati allo smart-working, nei confronti degli indirizzi federali e le eventuali politiche statali, mentre in Italia abbiamo avuto la ricomposizione della frattura data dalla limitazione degli spostamenti solo per i cittadini non impiegati nei settori “di prima necessità”, dove in questa categoria sono state fatte ricadere la stragrande maggioranza delle grandi aziende. Secondo l’Istat al 4 maggio 2020, ossia all’inizio della “Fase 2”, il 32.5% delle aziende non avevano mai interrotto la produzione, e un ulteriore 22.5% ha potuto riprendere le attività prima del 4 maggio. In queste risultavano impieganti il 48.3% degli addetti totali e rappresentanti il 60.09% del fatturato nazionale (Istat, “Situazione e prospettive delle imprese nell’emergenza sanitaria covid-19”, 15 giugno 2020). E’ quindi palese come la maggiore forza contrattuale della grande impresa industriale, ossia di Confindustria, abbia comportato di fatto la non applicazione delle misure restrittive nei suoi confronti, mentre queste hanno visto invece applicazione certosina nelle piccole e micro imprese.
Il secondo caso invece riporta un caso di conflittualità tra gruppi economici di diversa nazionalità. A partire dalla presidenza Obama un atteggiamento strategico di crescente antagonismo rispetto a Russia e Cina ha posto gli Stati Uniti davanti alla necessità di rallentare, se non impedire, il processo di integrazione euro-asiatica. Vista però la dipendenza dell’industria europea tanto dai mercati, quanto dall’energia e dalle materie prime russe e cinesi, questa campagna ha assunto toni aggressivi spesso sfociati nella conflittualità aperta. Dallo scandalo sulle emissioni della Volkswagen del 2015 fino all’imposizione del blocco del “Nord Stream 2”, passando per la lotta contro la “Belt and Road Initiative” cinese, che nell’Italia vedeva un partner fondamentale, gli Stati Uniti si sono impegnati, non senza trovare resistenze, al fine di scongiurare l’avvicinamento fra i due estremi della massa eurasiatica. L’atteggiamento più moderato di Francia e Germania in merito alla situazione Ucraina sono solamente l’ultima manifestazione della contradditorietà del rapporto atlantico, in cui da un lato l’Unione Europea a trazione franco-tedesca vuole scongiurare un suo indebolimento relativo, dall’altro gli Stati Uniti possono perpetuare i propri disegni strategici solo attraverso l’indebolimento proprio dei paesi del “Trattato di Aquisgrana”.
Questi due esempi, proprio per dar loro una maggior efficacia, sono entrambi casi di conflittualità sviluppatesi in seno allo stesso campo: il primo fra diversi settori della classe dominante in Italia, il secondo fra settori egemonici delle classi dominanti di paesi del blocco occidentale. Se persino fra alleati i rapporti non sono né lineari né esenti da contrasti, si può solo immaginare quelli fra classi e Stati posti invece in posizioni di inimicizia e antagonismo!
In particolare spesso si fa riferimento ad una supposta intesa “dietro le quinte” tra Russia, Cina, Stati Uniti ed Unione Europea, atta a portare avanti molteplici piani occulti ed inconfessabili. Se non può essere senza dubbio annoverata come “colpa” quella di portare la sfiducia nelle proprie istituzioni all’estremo, sino giungere a dubitare integralmente della realtà per come viene rappresentata, è però doveroso ricordare ed affermare come le proiezioni strategiche dei due blocchi siano assolutamente antitetiche, essendoci da un lato il tentativo di difendere una divisione del lavoro internazionale che pone pochi paesi occidentali inseriti a diverso grado d’importanza in un sistema imperialista che ha nella sottomissione del resto del mondo la condizione essenziale per la prosperità economica dei primi, dall’altro il tentativo di porre fine a un tale assetto per ricondurre i paesi occidentali ad un ruolo più contenuto soprattutto in virtù della crescita quantitativa e qualitativa delle economie di quelli che erano chiamati “paesi emergenti”, radunati soprattutto nel gruppo dei BRICS e ora nel nuovo “G8” proposto dalla Russia contenente oltre ad essa Cina, India, Indonesia, Brasile, Turchia, Iran e Messico.
Anche volendo ora evitare giudizi ulteriori sulle parti in campo, risulta innegabile la conflittualità tra chi vuole mantenere un dato sistema di relazioni e chi lo vuole mettere in dubbio. A prescindere da verdetti morali o da partigianerie politiche, il “sono tutti d’accordo” non regge alla prova dei fatti, né su scala minuta, locale o nazionale, né su scala strategica e mondiale. I processi che vediamo sono sempre la sommatoria di spinte contraddittorie, di lotte senza soluzione di continuità fra i diversi soggetti politici e sociali.

Complottismo e complotti

L’idea di una regia occulta dietro i fenomeni ci porta forzatamente nel campo del cosiddetto “complottismo”. Questa categoria viene sapientemente utilizzata allo scopo di delegittimare qualsiasi messa in discussione della narrazione ufficiale, andando ad equiparare le più legittime richieste di correttezza e trasparenza con i peggiori sproloqui irrazionali. Se è quindi palese che la crociata contro il “complottismo” non sia una battaglia a favore di un’informazione corretta contro le “fake news”, ma anzi la lotta contro la libertà di stampa ed opinione, non è però automatico che si debba perdere ogni senso critico rispetto alla ricostruzioni che vengono poste per spiegare le lacune delle versioni dei fatti proposte dalle istituzioni o alle notizie diffuse dall’area “dissidente”.
Se accordi segreti, omissioni e menzogne sono la regola, non certo l’eccezione, in ogni rapporto di forza tra gruppi sociali, politici ed economici, questo non significa che ogni atto “celato” debba necessariamente prendere i contorni della congiura diabolica, né che invece ogni atto palese sia innocuo. Le misure di austerità sociale che hanno comportato in tutto il continente la diminuzione del tenore di vita delle classi popolari, condita da malasanità, crisi del sistema scolastico e distruzione delle tutele dei lavoratori, non sono certe state proposte in conciliaboli occulti, ma messe all’ordine del giorno da governi di paesi sulla carta “democratici”, e hanno trovato spazio d’espressione e giustificazione tanto negli spazi accademici quanto nei media.
Molte volte i fini, anche i peggiori, sono manifesti e dichiarati, semplicemente la popolazione è indotta a non considerarne gli effetti, o ad accettare la visione thatcheriana del “there is no alternative”, finendo quindi per ritenerli necessità razionale. In queste dinamiche il fenomeno del complottismo funge un duplice ruolo: da un lato permette di aprire uno squarcio nella narrativa ufficiale, alimentando il dubbio, dall’altro rischia di diventare veicolo di messaggi non solo non veritieri, ma eterodiretti e quindi dannosi per chi si oppone al sistema. Per quanto caso per caso ciò sia difficile da provare, non si può escludere che le teorie più strampalate e le notizie a prima vista più sconcertanti possano essere diffuse proprio da agenzie governative per screditare il dissenso.
Il montante dubbio che ha permesso ai “dissidenti” di mettere in dubbio l’onnipresente narrazione ufficiale può trasformarsi in uno scetticismo generalizzato, che spesso però fa da paio per la fiducia inossidabile per tutto ciò che passa su canali d’informazione esterni al “mainstream”. E’ chiaro che ciò, per quanto comprensibile, sia assolutamente lesivo, e vada contrastato: tanto le informazioni e le ricostruzioni proposte dai media tradizionali, quanto quelle diffuse su canali “alternative” devono essere esaminate criticamente, cercando soprattutto di ricostruirne la possibile genesi.
Un video diffuso a mezzo web che annuncia “scoperte incredibili” su ipotetici piani genocidi in corso è, con ogni probabilità, uno strumento del nemico atto a screditare chi ha sfiducia nelle istituzioni e nei poteri costituiti della nostra parte del mondo. Serve quindi mantenere alta la guardia, perché non è affatto detto che chi più si impegna per apparire “incendiario” e massimalista sia veramente onesto. Come certi pesci abissali utilizzano esche luminose per attirare le proprie prede, così le forze dell’establishment non si fanno scrupoli di diffondere “luminosissime” e false informazioni a scopo di depistare, screditare e far arenare il dissenso.

Amici e nemici

Che possa esistere una distanza fra obiettivi dichiarati e quelli perseguiti non è una novità: il Movimento 5 Stelle, che nelle proprie dichiarazioni, fino al “governo gialloverde”, si poneva come forza “antisistema”, ostile all’Unione Europea e alla Nato, finendo poi per sostenere il governo Draghi e decomporsi proprio davanti alle suicide politiche filo-atlantiche di questo.
Il caso dei grillini mette in evidenza il percorso di un partito nato proprio per intercettare il dissenso nato dalle crisi del 2008 e del 2011-12 per riportarlo nell’alveo dell’innocuità. Si tratta quindi di un’operazione, se non completamente sicuramente parzialmente, gestita “dall’alto”, pianificata nei risultati da ottenere e nei passaggi da attraversare. Ma questa situazione non è l’unica che può verificarsi: persone in totale buona fede possono essere indotte in maniera indiretta a favorire l’agenda di questo o di quel gruppo di potere, non per minacce o promesse, ma per il potere costrittivo dell’egemonia culturale o della propaganda di regime, che può celarsi anche tra le pieghe dei media “dissidenti”.
La distinzione fra “amico” e “nemico” sta alla base della politica. A far ricadere un soggetto da una parte o dall’altra sta la definizione degli interessi perseguiti. Se antagonistici si parla di nemici, se affini di amici. Ma come abbiamo detto gli interessi possono essere celati, confusi o falsati. Per questo è necessario andare oltre quelle che sono le dichiarazioni e le interpretazioni superficiali di queste. Occorre il più possibile passare dagli enunciati generici alle rivendicazioni particolari, al posizionamento concreto nelle situazioni più spinose e controverse, alla coerenza fra un’analisi generale della situazione con la più giornaliera delle attività.

Noi e i nostri interessi

Prima di capire quali siano i “nostri” interessi occorre capire chi siamo “noi”. Il grande e molteplice movimento che si è opposto nel nostro paese quanto nel resto del nostro emisfero al neoliberismo rappresenta e raccoglie diverse categorie sociali, con interessi anche differenti, poste in posizioni differente rispetto agli eventi ma equalizzate dal fatto di trovarsi dalla parte degli “sconfitti” dei processi economici che hanno portato da quarant’anni a questa parte una polarizzazione sempre maggiore della ricchezza economica e del potere politico.
Questo movimento si è manifestato sotto una molteplicità di forme, da quella elettorale a quella “di piazza”, e attorno a diverse questioni, dalle privatizzazioni dei servizi pubblici alla gestione pandemica. La genesi del Movimento 5 Stelle va ricondotta proprio a questo ambiente, come le per molti aspetti parallele esperienze di Syriza in Grecia e Podemos in Spagna. Ma anche il movimento dei Gilets Jaunes, che contro il regime di Macron ha lasciato sul campo decine di morti, non è stato altro che una grande manifestazione del dissenso popolare contro il neoliberismo e i suoi effetti.
In tutti i casi abbiamo avuto l’attacco verso i rapporti di forza costruiti in Occidente a seguito della Guerra Fredda e del periodo thatcheriano-reaganiano, sia dal punto di vista sociale (proletarizzazione, precarizzazione, terziarizzazione), sia da quello politico (“superamento” in senso reazionario della repubblica parlamentare, bipartitismo sul modello americano, tecnicismo) , ma anche su quello culturale/ideologico (ribellione contro la chiusura dell’orizzonte politico e dell’abbandono di ogni visione alternativa del futuro).
Questi sono stati portati avanti da una molteplicità di organismi politici e classi sociali.
Volendo attuare una schematizzazione assolutamente riduttiva si vedono soprattutto due soggetti: la piccola borghesia incapace di reggere la competizione con il grande capitale padrone dei processi di globalizzazione e di sviluppo tecnologico; la grande massa dei lavoratori salariati colpiti dalla progressiva scomparsa delle tutele sindacali e dall’imposizione coatta dei paradigmi a base di “flessibilità” occupazionale e prestazionale, ossia la precarizzazione del vivere. Attorno, fra e dentro queste macro-categorie vi sono poi numerosi gruppi con una loro specificità: dagli studenti-lavoratori agli autonomi, dai disoccupati, dai pensionati ai lavoratori in nero. Tutti questi soggetti hanno delle loro rivendicazioni specifiche, che possono essere di difesa di diritti o garanzie già possedute dagli attacchi odierni, come nel caso dei lavoratori che hanno ereditato i risultati delle lotte sindacali maggiori del secolo scorso o in quello della proprietà della piccola borghesia, o di rivendicazione di tutele basilari che o sono state rimosse o mai concesse, come nel caso dei giovani precari, dei pensionati o dei disoccupati.
Per quanto diverse le situazioni possano essere, queste vengono spinte verso la precarizzazione, fenomeno che è ben presente anche nell’ambito del lavoro autonomo e nella piccola proprietà, e peggiorate dal costante aumento del costo della vità e dalla diminuzione dei servizi e dei diritti pubblici.
Il “noi” è composto da questi milioni di cittadini, la stragrande maggioranza del popolo italiano, uniti dalla condizione di minorità e di progressiva discesa nella miseria a cui il regime neoliberale li ha condannati. Prendendo i dati Istat del 2019 abbiamo approssimativamente:
–Lavoratori dipendenti: 17.785.000, di cui 15 milioni a tempo indeterminato
Di cui 3.500.00 nel settore pubblico
–Lavoratori autonomi, liberi professionisti o “parzialmente autonomi”: 3.900.000
(A fronte di circa 300.000 manager di imprese medio-grandi)
–Disoccupati (ufficiali): 2.400.000
–Studenti (di ogni ordine e grado): 9.280.000
–Pensionati: 16.035.000
Si parla di quasi 49 milioni e mezzo di persone, ai quali vanno aggiunti 2.264.000 bambini in età prescolare, per un totale quindi di più di 50 milioni di persone, i ⅚ del paese.
La distribuzione della ricchezza in Italia può fornirci dati aggiuntivi per contestualizzare questi numeri: al 2019 la ricchezza nazionale netta era valutata pari a 9.297 miliardi, di cui il 70% detenuto dal 20% della popolazione, il 16,9% di un altro 20% mentre il restante 60% della popolazione si trovava in possesso di appena il 13.3% della ricchezza. Con gli effetti devastanti del triennio 2020-2022 abbiamo visto non solo l’incremento deciso dei disoccupati e la diminuzione dei redditi, ma anche la scomparsa di migliaia di imprese, in particolare micro e piccole.
Ma non per questo dire “noi” significa che ci sia piena coscienza di questa convergenza. Fra i milioni di italiani i cui interessi sono irriducibili a quelli delle classi dominanti ve ne sono moltissimi, se non la maggior parte, che sono tuttora annebbiati dalla propaganda del sistema. Così la causa dei propri mali diventano ora gli immigrati, ora i percettori del Reddito di Cittadinanza, ora gli evasori fiscali, ora i dipendenti pubblici. In poche parole ancora troppi cittadini lavoratori, autonomi o dipendenti, disoccupati o studenti, si identificano di più con gente come Briatore, con gli esponenti della Confindustria e con l’alta finanza europea, e sono portati a ragionare come loro, a confondere i loro interessi con i propri, ad usare il loro linguaggio. Per portare avanti una lotta che sia veramente a sostegno del popolo serve prendere coscienza quindi in primis dei suoi nemici.

I nemici

Molto meno numerosi di noi, ma molto più potenti. Sono coloro che detengono il reale potere nel nostro paese e nel nostro emisfero, ammantandosi di un’estetica “democratica” che sempre meno convince i popoli. Non sono gli appartenenti a chissà quale culto satanico, e nemmeno i membri di qualche oscura setta: sono i grandi possidenti, magnati, speculatori, rentiers, i “padroni del vapore” dell’industria europea (sempre più orientata alla servitù nei confronti dell’asse franco-tedesco) e della finanza. Checché se ne pensi, nemmeno questo campo gode di una completa omogeneità, e anzi gli interessi dei singoli soggetti sono ben più differenti e antitetici rispetto a quelli che possono esistere tra due cittadini del popolo lavoratore.
E’ infatti in realtà molto serrata la competizione fra i vari trust e cartelli, e questo si verifica in tutti i settori, da quello agroalimentare a quello finanziario. Non si devono scambiare le “faide” interne a questo campo, come quelle fra la Confindustria franco-tedesca e il complesso militare-industriale americano, per scontri fra una fazione più vicina ai nostri interessi e una più lontana, ma si devono vedere per quello che sono, ossia contraddizioni in seno al campo nemico da analizzare e sfruttare.
E’ necessario spendere anche due parole sullo scontro che è in corso negli Stati Uniti fra l’industria pesante, necessitante di misure protezioniste, e quella high-tech della Est-coast, che invece vive del libero commercio, nel quale si inseriscono anche diversi interessi bellici e finanziari, e che istituzionalmente è stato rappresentato principalmente dallo scontro fra i repubblicani di Trump e il Partito Democratico. Nonostante la narrazione che voleva dipingere “patrioti” impegnati nella lotta contro il “deep state” satanista, o quella opposta che dipingeva la “democrazia più grande del mondo” ostaggio di Trump, la realtà è ben più prosaica: una “lotta fra bande” intestina alla classe dominante statunitense, causata dal declino del potere della stessa, e che è destinata ad acuirsi mano a mano che l’egemonia americana verrà meno.
Gli Stati Uniti giustamente devono essere messi al centro della prospettiva. Da questo paese si diffonde una profonda rete di controllo tanto economico quanto politico e militare. L’Unione Europea e molti paesi “colonia”, dalla Sud Corea ad Israele, non possono essere considerati se non chiamando in causa anche la prepotente componente statunitense. A capo della gerarchia dei vari poteri del Vecchio Continente e degli altri paesi tributari vi sono infatti le élite di Washington, che perpetuano il loro controllo grazie all’imperialismo sostenuto da decine di migliaia di uomini e mezzi militari schierati in tutto il mondo, grazie al valore internazionale del dollaro e allo strapotere economico-finanziario dei trust americani.
Per quanto la piramide non sia assolutamente stabile o priva di tentativi di indirizzo autonomo o di “risalita”, la risultante dei vari scontri conferma i rapporti di forza, che non sono solo valevoli in seno all’Occidente, ma che coinvolgono tutto il resto del mondo.
Dalla fine della Guerra Fredda si è cristallizzata una divisione internazionale del lavoro che vede i paesi del Sud Europea divenire terra di saccheggio dell’asse Parigi-Berlino, l’Africa Occidentale ricondotta tramite guerre ed omicidi nell’alveo dell’Impero francese (manifestato dalle basi militari e dall’ex-Franco CFA, oggi ECO), il Medio Oriente soggetto alla diretta occupazione militare americana, servendosi anche di alleati regionali, i paesi latinoamericani ancora una volta ridotti a “giardino di casa” statunitense, e, più in generale, in un’espropriazione forzosa e violenta della ricchezza prodotta dai paesi del cosiddetto “terzo mondo” e dalle classi lavoratrici dell’Occidente al fine di perpetuare l’ingannevole “crescita economica” del nostro emisfero, che non è altro che la crescita vertiginosa del patrimonio dei nostri oligarchi e monopolisti.
Questo sistema, che veniva proposto come assetto definitivo del mondo, è ormai da un decennio messo in crisi non solo dalle contraddizioni che esplodono in seno ai paesi occidentali, ma ancor di più a livello internazionale, in quella che può essere a buon titolo chiamata ribellione dei sei settimi dell’Umanità contro la dittatura anglo-americana.

Il contrattacco

Gli anni che vanno dal 1989 al 2015 hanno visto una pressoché illimitata capacità d’azione tanto del potere militare dell’asse occidentale a livello internazionale, quanto del potere economico ad esso collegato. Abbiamo avuto da un lato le grandi stagioni neoliberiste di privatizzazioni e lotta contro i diritti sociali, dall’altro le guerre terroristiche contro l’Iraq, la Serbia, la Libia e l’Afghanistan, decine di tentativi di golpe, dal Venezuela al Kazakistan, per non parlare dei vari tentativi di destabilizzazione tramite supporto a fazioni terroristiche, sanzioni economiche e veri e propri atti di sabotaggio.
La guerra di Siria ha visto però un punto di svolta. La situazione per il paese arabo rischiava di precipitare in uno scenario del tipo libico, con il governo abbattuto a favore dell’estremismo islamista e dell’anarchia, ma gli la lotta dell’Esercito Arabo Siriano contro le milizie sostenute dall’Occidente è stata coronata dalla vittoria sul campo anche e sopratutto grazie all’intervento militare della Federazione Russa. E’ infatti a partire dal 2015 che, prima per via aerea poi con la presenza sul campo, le truppe russe, oltre che iraniane, hanno portato supporto ai loro compagni siriani, riuscendo a far riconquistare al governo siriano gran parte dei territori persi, con l’eccezione della città di Idlib, sul confine con la Turchia e occupata da milizie collegate a questa, e del nord-est, zona petrolifera occupata militarmente dagli Stati Uniti col supporto delle “forze democratiche siriane”.
Papa Bergoglio parlò a suo tempo di “terza guerra mondiale a pezzi”, e gli eventi sembrano aver dato ragione all’analisi del pontefice. In tutto il mondo ormai da un decennio va infatti avanti una battaglia tra le forze che mettono in discussione la divisione internazionale del lavoro, e quindi anche lo stato di minorità antidemocratica in cui sono condotti i popoli, a favore di un nuovo assetto internazionale multipolare e democratico. Se per due decenni gli Stati Uniti e i loro vassalli sono stati all’offensiva, ora sono ormai costretti alla difensiva.
Non solo non sono riusciti ad abbattere il governo di Damasco, ma numerosi paesi dal Sud America all’Africa hanno allontanato i governi coloniali. Sono i casi recenti della Repubblica Centrafricana e del Mali, del Perù e della Colombia, ma anche dell’Afghanistan e del Messico. Inoltre l’intelligence americana ha visto sventati i propri tentativi di “rivoluzioni colorate” in giro per il mondo, dal Venezuela, dove il presidente tutt’ora riconosciuto da Ue e Stati Uniti Guaidò non è mai riuscito nei suoi intenti golpisti, alla Bielorussia, dove l’opposizione liberista e filo-nazista della Tsikhanouskaya è stata sconfitta alle elezioni e nelle piazze dal presidente Lukashenko.
Mentre l’Occidente perde il controllo della situazione, facendo emergere divisioni e contrasti prima tenuti a bada dalla comune vittoria, il resto del mondo si coalizza: si procede speditamente verso l’integrazione economica eurasiatica, guidata in primis dalla Cina e dalla Russia e accompagnata dalla de-dollarizzazione, mentre sempre più governi vengono conquistati da forze politiche popolari e sempre più stati fanno la scelta di sostenere il multipolarismo. Questo conviene non solo ai popoli del “Sud del Mondo”, ma anche a quelli dell’Occidente stesso: il crollo dell’ordinamento neoliberale tanto a livello mondiale quanto nazionale apre spazio all’azione democratica del popolo, che può così costruire sulle ceneri del regime precedente nuovi orizzonti, nuove prospettive.
La lotta di chi combatte per la democrazia in Italia e in Europa è la medesima di chi, dal di fuori, combatte il regime euro-atlantico.

La Terza Guerra Mondiale

A pezzi o meno, gli eventi che stiamo vedendo davanti ai nostri occhi possono essere considerati come parte di quella che con ogni probabilità passerà alla Storia come la Terza Guerra Mondiale. Forse più simile alla Guerra dei Trent’anni che al secondo conflitto mondiale, lo scontro in atto non perde per questo di intensità e pericolosità, e vede contrapposti l’Impero statunitense e i suoi paesi satellite al “blocco multipolare”, composto dalla Federazione Russa, dalla Repubblica Popolare Cinese, dal Venezuela, dall’Iran, dalla Siria e i paesi a loro collegati, dal Messico al Mali.
Questa guerra si può considerare iniziata in senso stretto con il golpe di “euromaidan” del 2014, che, con la guerra civile e il governi nazionalisti da essa nati, segna il più feroce tentativo d’aggressione alla Russia dai tempi dello scioglimento dell’Unione Sovietica”, e che ha permesso alle forze della Nato di aprire un nuovo fronte di centinaia di chilometri proprio a ridosso dei confini della Federazione. Il 2014 rappresenta forse l’apice della potenza del blocco euro-atlantico: una Libia ridotta in rovine, la Siria piagata da una guerra civile che sembrava procedere verso la vittoria dei “ribelli”, un Iraq occupato, il Venezuela piegato dalle sanzioni, l’espansione statunitense nel pacifico coadiuvata da un Giappone in piena restaurazione militare e condotta secondo la politica del “Pivot to Asia” diretta a circondare militarmente ed economicamente la Cina. In questo contesto quella che l’Occidente chiama “rivoluzione della dignità” avvenuta in Ucraina rappresenta l’apice dell’espansione dell’impero.
Con l’intervento in Siria la guerra è entrata in una nuova fase, progressivamente sempre meno favorevole all’Occidente. Facendo un parallelismo con la Seconda Guerra Mondiale, la battaglia di Aleppo, iniziata a metà luglio 2012 e finita a dicembre 2016, rappresenta la “Stalingrado” dei nostri giorni, come fu ai tempi sottolineato dal presidente Bashar al-Assad, rappresentando con efficacia il vero momento in cui, per quanto lontana dalla conclusione, la guerra appare dagli esiti segnati. Seguendo le orme dei loro antenati della Wehrmacht, le truppe di questo “quarto reich” atlantico sono ancora capaci di sporadici contrattacchi e di vendere cara la pelle, ma non possono che ritirarsi davanti ad una avanzata sempre più travolgente e alla caduta del fronte interno.
Per reagire a questo i paesi occidentali hanno proceduto ad una ristrutturazione atta a rendere le loro popolazioni più facilmente controllabili, inquadrabili e, se serve, reprimibili.
Anche in questa chiave vanno letti gli eventi della gestione pandemica, che in Occidente, unico caso al mondo, ha avuto anche la dimensione di costruzione della “nuova normalità”, dove con questa locuzione si intende il definitivo superamento del parlamentarismo, la codificazione del tecnicismo come condizione essenziale della “democrazia occidentale” e la riduzione di ogni possibile voce dissidente alla categoria di traditore, se non peggio a quella di folle. Uno stato d’assedio non ufficiale che è del tutto propedeutico ad un’estensione materiale del conflitto militare, che con l’operazione militare russa in Ucraina ha oltrepassato i confini dell’Impero, spostandosi in Europa.
Se Aleppo è Stalingrado, l’intervento diretto russo in Ucraina può essere rapportato all’Operazione Bagration, la grande offensiva che nel 1944 liberò Bielorussia e Polonia orientale dall’occupante nazista, rigettando le forze dell’Asse sulle posizioni di partenza dell’Operazione Barbarossa. Questa segna quindi un momento fondamentale dello scontro in atto, soprattutto per chi, nei paesi del regime occidentale, lotta per la propria liberazione nazionale. Il progressivo crollo del “fronte orientale” rappresenta per tutti noi una grande occasione, forse prodromo di un nuovo “25 luglio”, che sta a noi trasformare in un rinnovato, e completo, “25 aprile”.
Davanti alla chiamata alle armi della campagna sanzionatoria contro la Russia, solo gli stati della Nato e i loro più diretti alleati (Singapore, Corea del Sud per dirne due) hanno risposto.
Nemmeno tradizionali interlocutori degli USA come il Brasile hanno accettato, mentre paesi europei come l’Ungheria si sono esplicitamente opposti. E’ la riprova che mentre il blocco multipolare può godere di sempre più alleati e sostenitori, quello a guida americana vede emergere al suo interno sempre più fratture, rivelandosi una “tigre di carta”.

Avanti o indietro?

Davanti ai democratici italiani si pone la questione della direzionalità del loro moto: “restaurazione” o rivoluzione? All’Italia serve il ripristino di una situazione quo ante o un nuovo corso? Per rispondere è necessario comprendere prima la storia del nostro paese e del nostro mondo degli ultimi decenni. La svolta neoliberal, per quanto sicuramente rappresenta una cesura, non fu altro che un’evoluzione dello stesso sistema in cui l’Italia keynesiana riuscì a vivere e prosperare. La ricchezza media del nostro paese era data infatti non solo da una favorevole congiuntura economica internazionale, ma anche e soprattutto dall’azione di lotta delle classi subalterne. Ogni conquista economica e sociale che si associa al “trentennio glorioso” non fu certo una concessione di governanti illuminati, ma risultati ottenuti con la lotta sindacale, con la lotta politica, risultati che spesso e volentieri furono scontati con morti, feriti, arrestati, “suicidati”.
A ciò bisogna associare l’occupazione militare che l’Italia subisce dal 1949 come membro della Nato, e la perenne intrusione delle potenze occidentali nei nostri affari interni che portò ad attentati ed omicidi, da ricatti a veri e propri “golpe bianchi”. Pensiamo infatti a casi come quello di Enrico Mattei, alla stagione del terrorismo, o alla famosa lettera Trichet-Draghi con cui si commisariò l’Italia nel 2011.
Insomma, la storia recente non rappresenta certo una deviazione, ma l’evoluzione naturale di quel sistema di cose in cui l’Italia fu suo malgrado, e contro la volontà di molti, inserita all’indomani della liberazione dal nazifascismo.
Proporre quindi un mero “ritorno” alle condizioni precedenti non sarebbe quindi solamente
esercizio retorico, ma anche impossibile dal punto di vista storico: le diverse condizioni non
lo permettono.
La strada che si propone sembra essere soltanto quella di una rivoluzione per il nostro paese, ossia della costruzione di un nuovo ordinamento, diverso da quello attuale, che si ponga come tappa progressiva rispetto a questo, che vada a recuperare i disegni realmente democratici proposti dalla Resistenza e disattesi dal pluridecennale regime democristiano, per essere poi totalmente pervertiti da quello liberal-europeista post-Maastricht. La Costituzione del ‘48 in ciò rappresenta sia un faro che un limite, perché se da un lato esprime principi democratici, dall’altro codifica i compromessi al ribasso che le baionette anglo-americane permisero alla compagine liberale di strappare in seno all’Assemblea Costituente. Recuperare quindi i valori della Costituzione, ma recuperare anche la coscienza dei suoi limiti, per superarli e proporre al paese un nuovo orizzonte.
Le forze per un tale processo in potenza esistono, e la situazione internazionale lascia spazio all’azione. Sta alle capacità organizzative del popolo italiano, dei suoi soggetti politici e sociali a prendere coscienza di questa possibilità, di questo compito. In ballo non ci sono unicamente interessi particolari o vantaggi estemporanei, c’è l’esistenza stessa del nostro paese.

Evitare un “Secolo dell’Umiliazione”

Il secolo che va dalla prima Guerra dell’Oppio alla proclamazione della Repubblica Popolare è noto in Cina come “secolo dell’umiliazione”. Durante questi anni il territorio di quello che fu uno dei più longevi, ricchi ed avanzati imperi della Storia umana divenne terra di conquista per le potenze straniere, che vi importarono non solo le proprie industrie e i propri domini coloniali, ma anche il consumo di oppio, favorendo al contempo lo sfaldamento interno e la discesa del paese nell’anarchia.
Davanti all’Italia vi è la possibilità di un futuro simile. Strettamente collegata tanto all’asse Parigi-Berlino quanto a Washington, il crollo di questi rischia di trascinare nell’abisso anche il nostro paese. Per esso si aprono sommariamente tre prospettive:

  • Riconferma del suo ruolo all’interno di un’Unione Europea sempre più centralizzata indirizzata a sostituire a livello internazionale gli Stati Uniti d’America, un’Unione che con ogni probabilità escluderà i paesi del defunto gruppo di Visegrad. In questo scenario il nostro paese rimarrebbe vittima di uno sfruttamento quasi coloniale da parte dei settori egemoni del capitale franco-tedesco, ma conserverebbe la potenzialità di una lotta per l’indipendenza. La condizione essenziale è lo sganciamento dei paesi europei da Washington prima che succeda l’irreparabile, ipotesi non remota visti i contrasti fra gli alleati delle due sponde dell’Atlantico.
  • Il collasso del sistema Occidentale trascina l’Italia verso il baratro, che vede la sua economia e la sua società distrutta dalla crisi economica e forse dall’esperienza bellica, con un paese diviso, forse irrimediabilmente, e in preda all’anarchia interna, i cui resti sarebbero contesi fra le potenze vincitrici ed eventuali rimasugli del regime euro-americano. Questo scenario, il peggiore, implica la possibilità che l’Italia non riesca a staccarsi dal percorso suicida imboccato dagli Stati Uniti, nemmeno come colonia franco-tedesca. Esso appare senza dubbio come il peggiore, ed appare comunque possibile vista la bassa statura della classe dirigente nostrana ed europea, incapace persino di far valere i propri interessi particolari.
  • La conquista dello spazio d’azione necessario per portare il nostro paese al riparo dal crollo del sistema occidentale. Questa ipotesi implica niente di meno che l’abbattimento dell’attuale stato di cose per dare piena potestà democratica al popolo organizzato, che metta al riparo la propria vita, la propria ricchezza, il proprio futuro, per poter costruire una nuova Italia. Dei tre questo scenario appare al momento sicuramente quello di più difficile realizzazione, ma l’unico capace di preservare senza traumi peggiori un futuro per noi e il nostro paese.

Lottare per la realizzazione di un disegno di democrazia integrale nel nostro paese, per la sua liberazione dalla cricca di oligarchi e parassiti tanto stranieri quanto nostrani appare oggi essenziale dal punto di vista della stessa sopravvivenza. In gioco non c’è più solo il vivere dignitoso, ma c’è il vivere stesso.