di Leonardo Sinigaglia, da LiberaPiazzaGenova

Gli Stati Uniti sono in recessione, la Germania in deficit commerciale, l’Italia giustifica la positività economica unicamente con il vertiginoso aumento del costo della vita. E questo per tacere dell’inflazione, del “caro-bollette” o del “caro-benzina”. Insomma, per i paesi dell’Occidente non sembra esserci pace.

Fra le colpe di questa crisi indubbiamente la campagna sanzionatoria contro la Federazione Russa, che per obbedienza a Washington ha allontanato da noi un partner commerciale storico, sicuro, affidabile. Ma gli effetti di ciò ancora sono visibili in forma minima, per quanto possa essere sorprendente. Sarà nei prossimi mesi che vedremmo dispiegarsi in tutto il suo catartico splendore il suicidio socio-economico del nostro emisfero. 

Tutto ciò avviene con un fronte, quello ucraino, ancora aperto, e in cui le forze filo-occidentale continuano ad accumulare sconfitte su sconfitte, con il costante rischio di escalation provocata dai proxy americani polacchi e baltici. 

Insomma, una situazione che ha del terrificante. Una politica razionale andrebbe a cercare la distensione, l’accordo, anche per esigenze strategiche, per evitare che la sconfitta si trasformi in una rotta. E invece ecco che, come le ciliegie, una provocazione tira l’altra.

Con i carri di Mosca che giorno dopo giorno penetrano sempre più in profondità nei territori occupati dall’esercito di Kiev, ecco che gli Stati Uniti decidono di tentare l’apertura di un secondo fronte, quello contro la Repubblica Popolare Cinese. 

In una replica tragicomica dell’avventura hitleriana, il governo statunitense pensa bene di risolvere la sua progressiva perdita di forza e credibilità  attraverso il rialzo della posta in gioco, non riuscendo a comprendere che se pochissimi Stati -praticamente unicamente i paesi sotto occupazione militare e politica americana-  hanno seguito il regime di Washington nella folle campagna anti-russa,  ancora meno, anche tra i “fedelissimi”, saranno disposti a sanzionare o peggio la Cina.

Ma passiamo ai fatti: è intenzione dichiarata di Nancy Pelosi, presidente della Camera americana, di recarsi in visita ufficiale a Taiwan come parte di un viaggio in Estremo Oriente iniziato proprio oggi. Questo gesto può rappresentare letteralmente un punto di non ritorno per il mondo intero.

Brevi cenni di storia

Capire il perché una visita ufficiale può trasformarsi in un conflitto armato è essenziale, anche per rispondere alla prossima, sicura, propaganda del “mainstream”. 

L’isola di Taiwan, conosciuta per lungo tempo dagli europei col nome portoghese di Formosa, è sempre stata territorio cinese, pur ricevendo saltuarie incursioni commerciali e militari da parte di potenze europee o dell’impero nipponico. Sarà questo ad occuparla a seguito della guerra sino-giapponese del 1894-1895, fino alla sconfitta subita nella Seconda Guerra Mondiale. Questo conflitto iniziò in Oriente nel 1937, a seguito dell’aggressione giapponese contro la Cina, in un crescendo di violenze e distruzione (ben rappresentato dall’eccidio di Nanchino, in cui i giapponesi uccisero 300.000 civili cinesi), che andavano ad infierire su di un paese già devastato da due decenni di guerra civile e al culmine del violento declino iniziato con le Guerre dell’Oppio del secondo precedente. 

Fra le varie fazioni cinesi le principali erano quelle del Kuomintang, inizialmente fondato come organizzazione democratico-rivoluzionaria ma via via spostatosi sempre più a destra dopo il golpe di Chiang Kai-Shek nel 1926, che estromise progressivamente comunisti e democratici, e quella del Partito Comunista Cinese, fondato nel 1921 a Shanghai che durante la Seconda Guerra Mondiale si trovò alla testa tanto di una coalizione democratico-popolare dei dissidenti della politica reazionaria del Kuomintang quanto di un mastodontico movimento contadino, in una prospettiva d’azione politica promossa localmente da Mao Tse-tung e approvata dall’Unione Sovietica.

Le due parti raggiunsero una tregue durante la guerra anti-giapponese, ma già nel corso di questa gli opposti interessi portarono a non pochi scontri. Se i comunisti promuovevano lo scontro con i giapponesi nella prospettiva di sottrarre il paese all’occupazione straniera e al dominio della borghesia imperialista e del potere “feudale” dei latifondisti/signori della guerra, l’esercito di Chiang Kai-Shek preferiva atteggiamenti difensivi e di attesa, essendo nella prospettiva dei suoi leader ben più utile organizzare la futura fase della guerra civile rispetto a condurre la controffensiva contro l’invasore.

Con il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki e l’occupazione sovietica della Manciuria, il Giappone si arrendeva a metà 1945. Subito si pose il problema della resa delle truppe imperiali, così come dell’occupazione delle città. In questo contesto il governo americano, principale sostenitore del governo di Chiang Kai-Shek, organizzò attraverso la sua aviazione e la sua flotta lo spostamento delle truppe nazionaliste verso nord, per impedire che le milizie comuniste si impadronissero dei lasciti dei giapponesi e delle grandi città settentrionali. Nonostante diversi accordi e le dichiarazioni di entrambe le parti, si arrivò ad una nuova esplosione della guerra civile, che terminò nel 1949 con la fuga di Chiang Kai-Shek e dei resti della sua parte a Taiwan e con la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese.

Lo stato di guerra civile latente che contrapponeva due governi che si dichiaravano “cinesi”, (Repubblica di Cina a Taipei, Repubblica Popolare Cinese a Beijing), continuò per tutti i decenni a venire, conoscendo una sostanziale svolta con la distensione sino-americana che avvenne durante la presidenza Nixon per opera di Mao Tse-tung prima, e di Deng Xiaoping poi. La convergenza in chiave antisovietica dei due paesi portò alla normalizzazione internazionale della RPC, al riconoscimento del suo seggio in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e al ritiro da parte degli USA del sostegno al governo nazionalista di Taiwan. 

Fu questo il contesto in cui si svilupparono diversi comunicati congiunti sino-americani, in cui veniva formalizzata sia come riconoscimento attuale che come promessa d’azione futura la politica della “sola Cina”: il governo americano riconobbe l’esistenza di un unico governo cinese, quello di Pechino.

Gli effetti di ciò ancora oggi sono ben visibili: tutt’ora nella stragrande maggioranza dei paesi del mondo non esistono “ambasciate” della cosiddetta Repubblica Cinese, ma solo uffici di rappresentanza di nessun valore formale. 

Ciononostante, a partire dalla presidenza Obama l’atteggiamento verso la Cina è mutato radicalmente. Lo spostamento dell’attenzione statunitense sul teatro del Pacifico dopo le infruttuose e dispendiose campagne in Iraq e Afghanistan, il ‘pivot to Asia’ dell’amministrazione del presidente ‘dem’, fu il tentativo politico, economico e militare di arginare la straordinaria crescita del gigante asiatico, tentando uno strangolamento che avrebbe privato gli USA di un notevole avversario strategico. 

Fu così che, mentre sempre più soldati venivano ritirati dal teatro mediorientale, veniva creata l’AUKUS, la NATO del Pacifico, venivano promossi accordi militari con paesi come l’Indonesia, la Thailandia, la Corea del Sud e Singapore, oltre a sostenere la riforma in chiave militarista della costituzione giapponese iniziata dal defunto premier Shinzo Abe nel 2014. Questa strategia di contenimento, portata avanti poi meccanicamente da Donald Trump con la sua guerra doganale, si aggiungeva di una dimensione mediatica, fondata sulla diffusione costante di vere e proprie “fake news” atte a dipingere uno dei principali avversari geopolitici dell’Occidente come un “totalitarismo” brutale ed omicida, principalmente basate sulla triade diffamatoria Xinjiang-credito sociale-”debt trap diplomacy”, appoggiata tanto dai media tradizionali quanto da grandi ed ignari settori “dissidenti”.

E’ però con Biden, proprio in questi mesi, che si assiste ad un’accelerazione della tensione fra le due sponde del Pacifico, in un crescendo di avvertimenti e minacce che rischia di far detonare una situazione assolutamente precaria.

Un viaggio da fine del mondo

Il governo cinese ha affermato più volte che qualsiasi attentato contro la sua integrità nazionale avrebbe avuto come reazione una ferma risposta militare. Ma nonostante ciò, dopo la promozione delle rivolte di Hong Kong nel 2019, gli Stati Uniti sembrano ora intenzionati a far precipitare il mondo nell’abisso della guerra mondiale. 

Con l’inizio dell’Operazione Speciale Militare russa nel Donbass e in Ucraina, gli Usa hanno mostrato progressiva insofferenza verso la posizione di Pechino, fermamente decisa a rivendicare il diritto di non ingerenza, l’illegalità della campagna sanzionatoria anti-russa e la colpevolezza occidentale in tutto il contesto della guerra civile ucraina. 

Il presidente Biden già più volte negli ultimi mesi ha posto come possibile il supporto militare a Taiwan, posizione sostenuta dai falchi tanto “neocon” quanto ‘democratici’. Ma con la visita di Pelosi, che potrebbe verificarsi nei prossimi giorni, si rischia di passare il segno.

In una telefonata di due ore con l’occupante della Casa Bianca, il presidente Xi Jinping ha avvertito gli Stati Uniti che a giocar col fuoco potrebbero rimanere bruciati (http://en.qstheory.cn/2022-07/29/c_793127.htm) mentre grandi quantità di truppe dell’Esercito Popolare di Liberazione vengono spostate a ridosso dello stretto per un’esercitazione a sorpresa iniziata oggi. 

L’aereo di Nancy Pelosi potrebbe venire scortato, allontanato, o persino abbattuto dalle forze armate di Pechino, in un estremo gesto di difesa della propria sovranità nazionale e dell’integrità territoriale. Questo è stato reso chiaro alla controparte americana, che ha reagito inviando la portaerei Ronald Reagan e la sua squadra navale nel Mar Cinese Meridionale, seguita a breve distanza dai vascelli cinesi.

Gli scenari principali sono due: o Washington desiste dai suoi propositi bellicisti rinunciando alla visita ufficiale, e quindi perdendone in credibilità internazionale, o Washington procede, andando allo scontro diretto con Pechino.

Quest’ultimo scenario, il peggiore e il più imprevedibile, sarebbe ovviamente accompagnato dalla canea mediatica occidentale pronta a dipingere gli Stati Uniti, questo impero genocida, come gli aggrediti, e il governo golpista da essi insediato a Taiwan come “democrazia in pericolo” insediata dal “totalitarismo comunista” di Pechino. E’ chiaro che questa narrativa deve essere combattuta ancor prima che venga proposta.

Qualsiasi responsabilità dei prossimi accadimenti è responsabilità esclusiva dell’amministrazione Biden e degli Stati Uniti. In nessun caso deve essere a questi o al governo di Taipei portata solidarietà. Come in Ucraina, la battaglia non è fra opposte rivendicazioni territoriali, ma fra due visioni del mondo, fra due poli opposti: da una parte tutti i popoli che si stanno ribellando alla dittatura internazionale liberale euro-atlantica, dall’altra le morenti e disperate forze di queste. Per chi vuole un futuro di autodeterminazione e giustizia per l’Italia la scelta è facile.