di Eros R.F.

A 6660 giorni dalla morte dell’erede di Hitler, Ronald Reagan, ci lascia il traditore dell’Unione sovietica, Michail Gorbaciov. Quest’anno aveva compiuto 91 anni, vivendo una lunga vita, con gli ultimi 30 anni – speriamo – senza dormire la notte.

Su quei pochi anni a cavallo tra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90, fino all’ascesa di Putin, ci sarebbe molto, moltissimo da parlare. Ne uscirebbero fuori libri interi – e infatti di materiale c’è già. Ma facciamo un bilancio sintetico di ciò che pensa di aver fatto Gorbaciov, e qualche dato su ciò che ha effettivamente fatto.

Dopo la morte “per malattia” di Andropov e Chernenko, che sono stati a potere rispettivamente dall’82 all’84, e dall’84 all’85 (quindi per soli 3 anni), sale a potere il presunto riformatore che avrebbe dovuto “rinnovare” l’Urss. Già da prima dell’ascesa al vertice, Thatcher e Reagan avevano definito Gorbaciov “uno di cui ci si può fidare”, dopo aver visto l’orologio di lusso che fieramente indossava durante un’occasione in cui erano presenti i tre.
Gorbaciov era sincero? Forse. Ci capiva qualcosa? È evidente: no. Aveva buoni intenti? Con quella borsetta di Luis vuitton, ciò che sinceramente riteneva buono forse non era ciò che la popolazione riteneva tale.
Comunquesia, dopo essersi fidato di Usa ed Europa occidentale, Gorbaciov – sulla falsa riga della Cina – avvia le varie politiche kamikaze che puntavano ad aprire l’Unione sovietica al capitale monopolistico straniero. I risultati, come possiamo vedere soprattutto oggi, sono stati drasticamente diversi da quelli della Cina, che ha evidentemente attuato contromisure volte a mantenere la statualità del Paese.
Gorbaciov, ingenuo sì, ma anche venduto, si rese conto troppo tardi che la perestrojka, la “libertà civile ed economica” e la “demograzzia” all’occidentale furono un pretesto per iniziare lo smembramento del suo Paese. Compiute queste politiche, infatti, per l’occidente non era abbastanza. Toccava smembrare l’Unione anche a livello statuale, prima cessando di essere di fatto “Socialista sovietica” – con Gorby che voleva creare un nuovo grande Stato unitario, che poi finirà per esser quel che oggi è chiamato CSI, Comunità degli Stati Indipendenti –, e poi facendo secedere le Repubbliche e smembrando l’Unione in 15 Stati – anche se questi non volevano farlo, stando ai referendum. Si consolò con la promessa che la Nato – alleanza militare non difensiva, ma offensiva – si sarebbe anch’essa dissolta (dato che in passato rifiutò l’entrata di Mosca), o perlomeno si fosse limitata ai confini di quei tempi, lasciando quindi l’Europa dell’est in uno stato di neutralità militare – in certi casi anche formalizzato dalle costituzioni nazionali, come nel caso di Bielorussia e Ucraina (dei tempi). Sperava insomma che dopotutto, anche se ha tradito e distrutto (sotto tutti gli aspetti possibili) un Paese, perlomeno ha garantito la pace al mondo intero, fermando la corsa alle armi nucleari e l’eventuale futura catastrofe.
Ben presto le promesse si resero tutte false. La guerra fredda non era finita: ha avuto solo una momentanea vincita dell’occidente, e non una sorta di patto o parità tra le parti, come invece si credeva il gobbo.
Gorbaciov non aveva niente su cui più appoggiarsi, se non agli elogi da parte di borghesotti e giornalisti filo-borghesi, quella classica élite russa occidentalista che è rinata dopo più di un secolo di pensiero e schieramento orientale. Gorbaciov, fino alla fine, si circondò di questi individui, forse per sentirsi amato almeno da qualcuno, rendendosi conto di aver migliorato le vite di almeno quel misero 1% della popolazione.

E lo sapeva. Lo sapeva che il restante 99% non ha perdonato i suoi gesti, le sue ingenuità, la svendita del Paese.
Mentre i despoti occidentali, la borghesia a loro capo, e i cittadini col cervello lavato in occidente continuano ad elogiare Gorbaciov per esser stato un leader che ha “portato libertà e democrazia a milioni di persone”, “sconfitto l’impero sovietico”, ecc. ecc., Gorbaciov stesso nelle varie interviste continuava a scusarsi, pentito, quasi in lacrime, per aver tradito per “trenta denari” e distrutto il suo Paese. “Me ne pento ancora oggi. Sì, è difficile. È un mio problema interno”, e ancora “L’Unione Sovietica, qualunque fossero le sue possibilità a lungo termine, non era destinata a crollare quando è successo”, “Mi dispiace ancora di non essere riuscito a portare la nave sotto il mio comando in acque calme, di non aver completato la riforma del paese”, “Ho sempre pensato che preservare l’URSS fosse possibile, e lo penso ancora oggi”, “Eravamo in ritardo con le nostre riforme… L’Unione Sovietica offriva molte prospettive a coloro che vivevano lì e avrebbe potuto avere un futuro se si fosse modernizzata e adattata alle nuove sfide. Sì, mi dispiace molto”. Ancora “si rammarica profondamente” per la scomparsa dell’URSS, incolpa gli Stati Uniti per non essere più favorevoli ai suoi sforzi per riformare il sistema comunista, crede che il potere globale degli Stati Uniti sia in declino e si preoccupa che Vladimir Putin stia trascinando la Russia all’indietro – che ironia!
“Gli Usa ci promisero che la Nato non sarebbe mai andata oltre i confini della Germania dopo la sua riunificazione, ma ora che la metà dell’Europa centrale e orientale ne sono membri, mi domando cos’è stato delle garanzie che ci erano state accordate? La loro slealtà è un fattore molto pericoloso per un futuro di pace, perché ha dimostrato al popolo russo che di loro non ci si può fidare”, disse nel 2008 avvisando che gli Usa avrebbero prossimamente scatenato una guerra mondiale. “Gli americani pensavano di aver vinto la Guerra Fredda e questo è andato loro in testa”, disse. “Quale vittoria?  È stata la nostra vittoria congiunta. Abbiamo vinto tutti”. Fesso che è, non ha capito che ciò che lui portò non fu alla fine della guerra fredda, ma alla vittoria (momentanea) degli Usa, dato che la Nato è tutt’altro che sciolta, e tantomeno sono stati sciolti il partito democratico e il partito repubblicano, mentre in Russia, beh, il partito comunista venne sciolto (per poi esser tornato ben presto, dato che era impossibile zittire buona parte della popolazione; in Ucraina ad esempio ci hanno messo più di 20 anni di propaganda per poterlo perseguitare).
Nonostante tutto, il fesso continuò a ribadire di aver sinceramente cercato “più democrazia, questo era il nostro primo e principale obiettivo”, aggiunge, “Volevo anche più socialismo”. Negli anni ’80 viene visto rassicurare i suoi cittadini sul fatto che non ha intenzione di implementare una di quelle orribili economie di mercato con tutti i loro cattivi “ricavi e profitti”. “Non credo che questa sia la via da seguire”, “Non sarebbe giusto.”
Quindi fesso, ingenuo, e anche bugiardo. Si può davvero aver pietà per un soggetto del genere?

Ma se ancora non si comprende a fondo il perché di tutto questo pentimento suo, e questo odio dei russi (e molti altri ex-sovietici) verso di lui, ricordiamo ora qualche dato materiale. Più di 800 morti uccisi direttamente durante il golpe militare di Eltsin, Duma bombardata vigliaccamente, referendum ignorato dove vinceva nettamente (78%) la volontà di mantenere l’Unione, referendum ignorato anche in Crimea dove il 94% dei cittadini votò per secedere dall’Ucraina, il PIL russo sceso del 40%, salari reali dimezzati, povertà da 2,2 milioni (1987-8) a 66 milioni (1993-5), milioni di morti sotto il regime brutale di privatizzazione e “terapia d’urto”, mezzo milione di donne vittime della tratta in schiavitù sessuale, bambini abbandonati dai genitori e spesso venduti, tossicodipendenti già dalla giovane età. Senza parlare di come milioni di famiglie si siano divise da un giorno all’altro con i nuovi confini. Dalle mani grondanti di sangue di Gorby, nascono, come dalla creta, gli oligarchi, che hanno come avvoltoi smembrato pezzo per pezzo ogni attività, ogni impresa statale, ogni risparmio del popolo, frutto di lavoro di intere generazioni collettive.
Nel ’96 si candida alle elezioni presidenziali, e prende non a caso lo 0,5%.
Se il popolo russo ama Putin e odia il gobbo (il suo cognome vuol dire questo in russo), un motivo c’è, e non è semplice “spirito imperiale dei russi” o “lavaggio del cervello”. Chi ha il cervello lavato è qualcun altro, in quell’escrescenza dell’Eurasia chiamata “Europa” e in nord America.

Da questo tragico bilancio, che i russi definiscono spesso come la peggior tragedia (almeno a livello politico-economico) del XX secolo, in molti hanno da trarre insegnamento.
Innanzitutto i socialdemocratici, che speravano nelle riforme liberali, dovrebbero aver compreso che… beh, innanzitutto non dovrebbero esser socialdemocratici. Se esistono ancora, evidentemente non hanno tratto insegnamenti, e forse reputano quell’esperimento di riforma un successo – anche se il risultato non era quello voluto.
I liberali, totalmente alienati dalla materialità del mondo essendo offuscati dalla propria metafisica ideologia, dovrebbero aver capito, dopo l’ascesa di Putin e a maggior ragione con la sconfitta dell’occidente in Ucraina, che un Paese come la Russia – se non gestito direttamente dall’occidente – non si piegherà mai ai voleri di Stati esteri, in quanto le sue condizioni particolari le permettono di vivere a sé isolata dal mondo, e delle interazioni con l’esterno sono quasi più un gesto di carità che una necessità, per i russi. La Russia, finché l’occidente agisce come se fosse il perfettino del mondo, non sarà mai un Paese amico – è la perfetta nostra antitesi, e lo scontro sarà perenne, finché uno dei due non cade o cambia drasticamente cultura e filosofia, oltre che condizioni materiali-ambientali – e queste sono le più dure da cambiare. Pensare di rendere la Russia un Paese debole, circondarla con missili, e costringerla a rispondere, si sta rivelando essere una strategia fallace. Se infiltrarla a fondo e a pieno rendendola alla pari di un comune Paese europeo – insomma una colonia statunitense – si è già rivelato fallace già da prima (vedasi gli anni ’90 e la fine di questi), volerla sconfiggere militarmente, sia direttamente che indirettamente, è senza dubbio ancor più difficile. L’unica opzione razionale era quella di accettarla nella Nato, accettando il fatto che avrebbe avuto un peso preponderante, molto più della scomoda Turchia; ma gli Usa, si sa, non vogliono Paesi con un pensiero autonomo nelle loro alleanze, specialmente quelle militari. A quest’ora forse avrebbero potuto contenere la Cina in questo modo. Ma la frittata è ormai fatta, e i liberali non mi sembra che stiano accettando la realtà della situazione, né stanno ammettendo di aver fatto questi errori strategici – e non parlo di moralità, dato che il liberalismo presuppone che non ne esista alcuna.
Per noi comunisti le lezioni sono invece molteplici, e non tanto geopolitiche quanto prettamente politiche. Innanzitutto, l’Unione sovietica, per via non solo della sua immensità, ma anche per la sua storia – essendo stato il primo esperimento di successo che sia durato per più di qualche mese a differenza di molte altre rivoluzioni e rivolte soppresse nel sangue –, aveva in sé grandi aspettative, e rappresentava nell’immaginario comune come unico, centrale riferimento e modello di socialismo o comunismo. Se uno pensa al comunismo, ancora oggi è inevitabile che pensi all’Urss. Il capitalismo nel tempo ha avuto soprattutto due Stati modello: dapprima l’impero britannico, e ora gli Usa. Il feudalesimo non ne parliamo, e la schiavitù tantomeno; entrambi hanno avuto vari archetipi, che si sono sovrapposti e susseguiti nel tempo. Il passaggio del testimone dall’impero britannico agli Usa è stato tuttavia piuttosto armonico, e non ha scombussolato più di tanto l’opinione comune: crollato l’impero britannico e ridotto al regno unito, non è crollata l’idea del capitalismo, ancora dominante in tutto l’occidente, senza interruzioni. Col crollo degli Usa, l’effetto sarà ben diverso, avendo attirato a sé tutti gli altri Stati borghesi, così come l’Urss fece col Patto di Varsavia. Così come col crollo del blocco est non finirono per sé tutti gli esperimenti socialisti (Cuba e Cina ad esempio sono ancora oggi esistenti), così, ovviamente, col futuro crollo dell’occidente non cesserà definitivamente il capitalismo, presente in moltissimi Stati del terzo mondo oggi anche anti-imperialisti. Ma la lezione deve esser comunque appresa: personificare, materializzare l’idea di socialismo in un esclusivo esempio è sbagliato, in quanto, nel momento di un’eventuale crisi o persino di un crollo, cade con essa anche l’idea. Ci vorranno ancora anni prima che gli europei possano ricominciare a credere di poter sovvertire il capitalismo. La caduta dell’Urss ha rappresentato per tutti non una semplice perdita di una battaglia, ma la sconfitta definitiva dell’idea e della lotta di classe. La Cina, a differenza dell’Urss, non vuole rappresentare il comunismo, anche se avrebbe la potenzialità di farlo, dato il suo prestigio e i suoi successi – e tali potenzialità, sia chiaro, le aveva anche l’Urss, che riuscì anche con successo ad aiutare e a portare il socialismo a molti Paesi, senza usare metodi trotskisti; ma dopo tanti successi, le aspettative aumentano, e una perdita fa perdere di vista tutto ciò che è stato fatto di buono.
L’altra lezione è riconosciuta da più o meno tutti i comunisti, ma la soluzione pare non la si voglia trovare, e si tende anzi a ripetere, con copia incolla, gli stessi errori, spacciandoli per una sorta di tradizione o persino dogma. Parlo della democrazia e del Partito a livello prettamente strutturale, e al lavoro ideologico di questo. La criticità che ha portato l’Urss a crollare non è stata economica. O meglio, sì, sono l’apertura al mercato e la perestrojka ad aver distrutto l’Urss (e qualunque Paese crollerebbe con una svendita e una riforma strutturale del genere – compresi Usa e Cina), ma se ciò è avvenuto, è perché una certa cerchia di uomini è salita a potere. La radice del problema è quindi politica: col socialismo è la politica che sta a capo dell’economia, e non il contrario, e per questo dobbiamo evitare di analizzare la cosa con la stessa ottica con cui si analizzano le contraddizioni degli Stati capitalistici. Questa cerchia di uomini, questa cricca di incompetenti e svenduti, è salita a potere per due motivi: 1) scarsa formazione ideologica da parte del Partito, 2) struttura politica poco efficiente nella selezione e nella tutela del sistema. Queste contraddizioni ovviamente si riflettono di conseguenza anche sul popolo “comune”, che è più soggetto alle infiltrazioni ideologiche borghesi dall’esterno. Se un Partito non sa egemonizzarsi da solo, come può egemonizzare le masse? E se un Partito fa salire a potere degli incompetenti, come può il popolo fidarsi a lungo di questo? Ed è chiaro: il problema non è nato con Gorbaciov, ma è stato il frutto più marcio che potesse esserci. Il problema non nasce neanche con Kruscev. O meglio, i problemi sono iniziati a manifestarsi proprio con Kruscev – dato che il Partito inizia allora a diventare una cerchia di burocrati con scarsa preparazione ideologica e con intenti spesso filo-borghesi –, ma anche qui rimane la domanda: come ha fatto a salire a potere Kruscev? Il problema quindi, anche se farà irritare i più dogmatici, era presente già durante l’era staliniana – e d’altronde Kruscev era vicino a Stalin –, e probabilmente già all’epoca di Lenin. Ma su ciò c’è molto, troppo da dire.
Sul primo punto – la formazione ideologica nel Partito –, la Cina ha da insegnare: si è dimostrata capace di resistere alle infiltrazioni borghesi pur avendo aperto il Paese al mercato. Sul secondo punto, ha da insegnare ancora la Cina – che col Partito è riuscita a controllare le imprese private presenti nel proprio Paese, e a selezionare ed epurare con molta freddezza, con regole anche eccessivamente ferree, il proprio Partito –, in parte anche Cuba, ma soprattutto – e ciò è paradossale dato che non sia comunista – la Jamahirya libica (che non è crollata per il suo sistema politico ma per un conflitto armato). Le criticità rimangono comunque in tutti questi citati, e si spera che le contraddizioni verranno risolte senza estinzioni. Una criticità in comune tra di loro, specialmente Cina e Cuba, è comunque la struttura politica ancora ereditata dallo Stato borghese, con parlamento, governo, e presidente (o come lo si voglia chiamare), che con questo verticismo pretendono di detenere sia il potere esecutivo che quello legislativo – quest’ultimo che dovrebbe esser popolare, almeno nel lungo termine, quando non ci sono influenze borghesi e la formazione politica è efficiente. I poteri, comunque, sono eccessivamente incentrati nelle mani del governo e del presidente, come in tutti gli Stati borghesi. Ciò è utile col capitalismo, in quanto la dirigenza è rapida e poco conflittuale al suo interno, e non è necessario col capitalismo preoccuparsi di corruzione o degenerazione del vertice, in quanto tutto è già corrotto e degenerato per sua natura. Ma col socialismo, più la cerchia di chi detiene più potere è stretta ed esclusiva, e più si rischia che si sviluppi una certa alienazione del popolo, che porta quindi alla riformazione della borghesia, o del pensiero borghese. La soluzione risiede nella filosofia politica roussoiana.

Ma per approfondire sulle soluzioni ci sarà altra occasione. Ciò che è importante, parlando di Gorbaciov, è capire dove dovremmo colmare i nostri storici errori, per evitare che altri gobbi uccidano ancora milioni di vite con i propri sconsiderati gesti.

Chiudo citando la stessa conclusione scritta a ragione da Dimitry Smirnov, giornalista di RT:
“Che Gorbaciov sia giudicato dai nostri discendenti. Per noi, questo è un argomento molto doloroso”.