Nella storia umana dell’oppressione dell’uomo sull’uomo, l’oppressione maschile nei confronti del sesso femminile è una categoria che ha caratterizzato la maggioranza dei periodi storici fino ad oggi. La donna è stata oggetto di discriminazioni per i più svariati pregiudizi, ne è stata messa in dubbio l’intelligenza, condannate le scelte sessuali e relazionali, è stata esclusa dai ruoli di governo e di comando, vittima tanto entro le mura domestiche che all’esterno di violenze fisiche e psicologiche, le sono state negate istruzione e diritti politici, ed è stata considerata per lungo tempo una proprietà del padre, del fratello o del marito. Alcuni di questi aspetti sono stati superati, altri no, altri sono stati oggetto di condanna da parte della società civile o vietati legalmente – pensiamo, per quanto riguarda l’Italia, all’abrogazione dell’articolo 559 del codice penale che prevedeva la reclusione fino ad un anno per la moglie adultera – ma nonostante questo è rimasta nel substrato culturale una celata acquiescenza nei confronti di comportamenti misogini e sessisti.

Ha senso quindi il femminismo? Sì. Ma quale femminismo?

Innanzitutto non si può parlare della condizione delle donne senza tenere in considerazione il luogo del Pianeta nel quale tali condizioni vengono esaminate e quindi il contesto economico, culturale e giuridico. Può esistere una solidarietà internazionale delle donne verso le donne di ogni paese, ma dal punto di vista politico le istanze promosse da un movimento femminista, ad esempio, in Francia non possono essere le stesse di femministe indiane o saudite.

Esaminiamo quindi la condizione della donna e il femminismo nelle società capitalistiche occidentali.

Nei paesi dell’Unione Europea il tasso di occupazione degli uomini è del 74% mentre quello delle donne del 63%. Il divario tra uomini e donne aumenta con l’aumentare del numero dei figli. Con un figlio il tasso è del 72% per le donne e dell’87% per gli uomini. Con due figli per le donne il tasso è del 73% mentre sale al 91% per gli uomini. Con tre figli il tasso di occupazione per le donne scende al 58% mentre per gli uomini è dell’85%.

Anche il tipo di lavoro è diverso, quasi il 30% delle donne lavora part-time, contro l’8% degli uomini, e solitamente gli uomini occupano posizioni più elevate delle donne. Solo il 33% delle donne nell’Unione Europea ricopre la funzione di manager, e in nessuno stato membro si viene superata la percentuale del 50%.

Un altro aspetto rilevante della disparità nelle condizioni di lavoro è la retribuzione. In media, una donna percepisce una retribuzione oraria più bassa del 16% rispetto agli uomini.

Questo divario è dovuto a molteplici fattori, in primis una maggioranza di donne è impiegata in settori sottopagati, mentre vi sono posti di lavoro ancora a maggioranza maschile (circa l’80%) come quelli della scienza, della tecnologia e dell’ingegneria. Le donne sono penalizzate anche perché sono influenzate nella scelta della vita lavorativa dalle responsabilità di cura e di assistenza familiari, vittime del ricatto, in misura ancor maggiore rispetto ai propri compagni, fra la famiglia e la vita lavorativa.

Anche la situazione socio-economica legata al Covid 19 ha avuto pesanti ripercussioni sulle donne. Secondo l’indagine “La condizione economica femminile in epoca di Covid-19” realizzata da Ipsos per WeWorld, la situazione economica femminile nell’ultimo anno è peggiorata per una donna su due sia al Nord che al Centro e Sud

Il 60% delle donne non occupate con figli ha ammesso di aver avuto una riduzione di almeno del 20% delle proprie entrate economiche durante la pandemia, e il 51% dipende maggiormente da famiglia e partner rispetto a prima.

Il 38% delle donne, inoltre, ha dichiarato di non riuscire a sostenere una spesa imprevista (il 46% tra le madri con figli). Ammonta all’80% la percentuale di donne che dichiara di aver avuto un impatto devastante sulle proprie relazioni sociali. Il 76% delle intervistate, infine, ha visto un impatto negativo sulla voglia di fare progetti per la propria vita.

Al di là dei dati puramente statistici, che restano comunque scoraggianti, la condizione della donna nella società capitalista neoliberista è senz’altro migliore e più garantita dal punto di vista giuridico formale rispetto al passato. Il discorso cambia se ci spostiamo sul piano materiale e concreto. Qui l’analisi della condizione femminile non può essere separata dall’analisi di classe.

La vita di una donna appartenente alla classe alta non è la stessa di quella che appartiene alla classi subalterne. Essere nati nella tra i non abbienti rappresenta già di per sé un grave limite alle opportunità di sviluppo personale, culturale e professionale della persona. Se all’essere nati poveri si aggiunge essere nati donna il binomio diventa ancora più insostenibile. Alle rinunce alle quali sono sottoposti i poveri in generale si aggiungono rinunce e sacrifici che incidono specificamente sulle donne proprio perché donne. La discriminazione di classe apre così la porta ad ogni altra discriminazione.

Se pensiamo ad esempio alla maternità, essa oggi è un lusso di poche. La donna si trova a dover scegliere in giovane età tra studio e maternità, più avanti tra quest’ultima e il lavoro. Una ragazza benestante non avrebbe alcun tipo di problema, volendo, ad intraprendere un percorso universitario e contemporaneamente diventare madre, perché avrebbe una serie di garanzie economiche e assistenziali che le renderebbero molto più conciliabili le due scelte di vita, la cui combinazione è utopica agli occhi di ragazze costrette a scegliere tra l’essere madre e l’essere studentessa perché la famiglia di provenienza non può supportare le ingenti spese che comporta un neonato, o perché è costretta a lavorare, magari facendo più di un lavoro, per pagarsi gli studi.

Nell’ambito della carriera lavorativa la situazione non migliora. E’ nota la pratica dei datori di lavoro di ricattare con il licenziamento o con la non assunzione le donne che esprimono la volontà di sposarsi o di diventare madri. Un problema inesistente per chi non ha la necessità materiale di lavorare e vive di rendita.

Si è giunti ad una condizione paradossale dove quelli che un tempo erano diritti, le conquiste delle donne che ci hanno precedute – conquiste che senza il minimo dubbio devono essere difese da ogni tentazione reazionaria di certi partiti politici – come la contraccezione, l’aborto, la scelta di non avere una famiglia o dei figli, sono stati trasformati in scelte obbligate dalla società capitalistica. Sono coercizioni di classe che derivano dalla stessa condizione di estrema precarietà nella quale certe donne vivono, in balia di un sistema che è diventato una giungla dove ognuno è lasciato solo al proprio destino, nell’assenza totale della benché minima forma di welfare per donne e ragazze. La donna della classe medio-bassa è un fattore della produzione, e in quanto tale deve essere mantenuta produttiva per il maggior tempo possibile. La maternità, la famiglia e in generale la vita affettiva sono privilegi che non riguardano quello che è un mero componente di quell’immensa catena di montaggio che è la società fondata sul profitto.

Quindi, come ci siamo chiesti poco sopra, di quale femminismo abbiamo bisogno?

Il femminismo attuale borghese si è dimostrato essere del tutto privo di prospettive realmente emancipatrici della donna perché, essendo frutto della cultura neoliberale, ne porta con sé i tratti distintivi, si è mostrato ipocrita e privo di ogni spessore politico.

Esso non è incentrato sull’emancipazione femminile e sulla giusta pretesa che la donna venga trattata da pari all’uomo. Questo femminismo si fonda sull’odio di genere (anziché sull’odio di classe). L’uomo è il nemico a prescindere. L’uomo viene dipinto come intrinsecamente violento, stupido o inutile per la società. Non elimina la discriminazione, ma ne ribalta i termini proponendo il sesso femminile come moralmente e intellettualmente superiore a quello maschile. Non mettendo in discussione le pratiche di dominazione di cui il genere femminile è stato storicamente vittima, le riproduce e le cristallizza: la mercificazione del corpo, il dominio sessuale e la subalternità economica diventano mezzi di affrancamento sociale. Si innesca così un paradossale meccanismo che fa dell’antico dominato il nuovo dominatore. Avendo le sue fondamenta nel neoliberismo, il femminismo borghese esalta la competizione tra il sesso femminile e quello maschile. La donna deve competere con l’uomo per dimostrare il suo valore. In questo modo viene estesa la lotta tra generi in maniera trasversale a differenti classi andando mistificare la reale contrapposizione esistente nella società capitalistica, riducendo la complessità della realtà allo schieramento, funzionale alla stessa classe borghese, “donna sostiene altra donna”. Non ha importanza chi sia la donna in questione, quale sia la sua ideologia politica, il suo ruolo nello scacchiere geopolitico e nella lotta di classe. Si difende perché è donna, si difende perché difendere le donne è progressista.

Così ritroviamo giovani donne in fermento per la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris, le quali ignorano che la loro paladina del femminismo è corresponsabile dei peggiori crimini imperialistici compiuti contro l’umanità negli ultimi anni. Quello che viene messo in risalto però è che Kamala è una donna, e pur essendo donna ce l’ha fatta a ricoprire un ruolo di potere alla Casa Bianca.

In questa maniera il femminismo diventa uno strumento di egemonizzazione culturale anglo-americana, attraverso il quale le élite atlantiche propongono valori e idoli del tutto funzionali al perseguimento di interessi di classe, borghesi e imperialistici.

All’interno della loro ristretta cerchia di eletti il femminismo che loro propinano alle classi subalterne ha poco valore o nullo. Boris Johnson non si sognerebbe mai di discriminare Angela Merkel o Ursula von der Leyen perché donne.

Il golpe in Bolivia ci ha dimostrato che una donna può tranquillamente autoproclamarsi presidente, come lì ha fatto Jeanine Añez, e perseguire obiettivi politici squallidi, a differenza del legittimo presidente Evo Morales che è uomo.

Il problema non è il sesso, ma la classe.

Il femminismo borghese inoltre, dietro alla maschera della valorizzazione della donna, promuove un messaggio di repellenza nei confronti del femminile. Nelle più recenti produzioni cinematografiche, e culturali in generale, la donna al potere viene sempre rappresentata come “donna forte”.

La donna, per svolgere certi lavori alla pari di un uomo deve atteggiarsi da uomo. La femminilità, di conseguenza, viene dipinta come segno di debolezza e inferiorità e la donna può essere considerata alla pari dell’uomo non perché rispettata nella sua femminilità, ma perché anch’essa maschile.

All’interno del dibattito politico e giornalistico l’emancipazione è vista infatti conquista da parte della donna di posizioni elevate nella gerarchia sociale.

Questo è il femminismo politically correct delle quote rosa, che ci ricorda che a noi donne i posti in politica devono essere assegnati per legge, come se non avessimo gli strumenti intellettuali e culturali per essere sottoposte positivamente al vaglio della democrazia.

Con la retorica delle “quote rosa” la maggior conquista per l’emancipazione femminile è identificata con l’assegnazione di incarichi di governo o di dirigenza alle donne in quanto tali, a discapito di quelle politiche di protezione sociale che potrebbero costituire, al contrario, una base reale e democratica di emancipazione di tutte le donne.

Questa versione del femminismo diviene dunque uno strumento di perpetuazione di politiche di disuguaglianza sociale, che finisce per approfondire piuttosto che superare tutto il peso della discriminazione. Ci si può chiedere se sia possibile il superamento della discriminazione di una parte del corpo sociale lasciando sostanzialmente immutate le fondamenta di quella stessa società che rende possibile tale discriminazione e la risposta è retorica: ignorando le condizioni strutturali in cui si produce una disuguaglianza sociale, qualsiasi rivendicazione finirebbe per essere, inefficace o, peggio, complice.

Un punto di partenza si avrebbe muovendo da un’analisi profonda del ruolo che il genere femminile svolge all’interno della società stessa, dando uno sguardo storico veloce: attualmente le correnti opposte, tra le varie articolazioni secondarie, sono quella liberale e quella radicale. La prima trae origine dalla cosiddetta prima ondata di femminismo, dagli ultimi decenni dell’Ottocento e nel primo ventennio del Novecento.

Il femminismo liberale non vuole modificare la società capitalista, ma migliorarla e si batte per la libertà e l’autodeterminazione dell’individuo. Harriet Taylor e John Stuart Mill, nella loro opera L’emancipazione delle donne, rifiutano la presunta inferiorità femminile per natura. Per liberare le donne propongono un’eguale educazione scolastica ed universitaria, una paritaria rappresentazione sociale e politica, l’acquisizione del diritto di voto, l’accesso alle professioni mediche, legali e religiose e la possibilità di intraprendere attività economiche. Inoltre, credono che l’emancipazione si realizzi anche nella liberazione delle donne dagli obblighi familiari.

Dagli anni ’20 agli anni ’60 del Novecento si afferma la cosiddetta “seconda ondata”, e nasce il femminismo radicale. A differenza di quello liberale, crede nell’esistenza del patriarcato, un sistema di oppressione secolare che colpisce le donne: rifiuta la famiglia come istituzione ed il matrimonio e si batte per l’eliminazione del genere.

Se guardiamo invece alle origini del discorso che collega il femminismo al socialismo, possiamo concentrarci su Aleksandra Kollontaj, una delle “donne più importanti tra i rivoluzionari marxisti”, con i quali ha condiviso la formazione, le esperienze del carcere e dell’esilio, l’attività di studio e di organizzazione delle battaglie della classe operaia a cavallo fra il XIX e il XX secolo. Una delle prime ad aderire alle Tesi di Aprile di Lenin, partecipò a tutti gli eventi dell’anno della rivoluzione, fino ad essere nominata unica e prima donna, nel governo rivoluzionario, come commissario del popolo all’assistenza. Era strenua sostenitrice dell’amore libero, il che poteva realizzarsi solo tra individui liberi, e contrastava con una società come quella della Russia zarista, in cui il vincolo del matrimonio era solo l’affermazione e la realizzazione della prigionia e dello sfruttamento della donna. Nel 1923 una rivista pubblicò la sua lettera ‘Largo all’Eros alato’, un discorso ai giovani in cui parlava di praticare in modo libero e puro l’amore, e gettava le basi per una società diversa, libera, appassionata e rivoluzionaria.

Si sente la necessità al giorno d’oggi di dar luogo ad un’efficace ripresa dell’antica sinergia tra femminismo e anticapitalismo e sembrano dunque profetiche le parole della Kollontaj:

« Per quale motivo la lavoratrice dovrebbe cercare un’unione con le femministe borghesi? Chi, in realtà, avrebbe da guadagnare in caso di una simile alleanza? Certamente non la lavoratrice.»

E’ sufficiente esaminare la condizione della donna nei paesi socialisti per comprendere come le rivendicazioni del femminismo borghese siano fallaci e come l’illusione che il nemico sia l’uomo in sé e non il suo essere esponente della classe dominante sia uno specchietto per le allodole che fuorvia le donne del popolo dall’obiettivo centrale della lotta di classe.

L’avvento dell’Unione Sovietica garantì enormi progressi per quanto riguarda la condizione femminile. Tutto iniziò nel 1917 con la Rivoluzione d’Ottobre, la quale, oltre a deliberare numerose riforme, sancì pari diritti all’uomo e alla donna. Sin dalla nascita di questo Stato socialista, si può affermare che la condizione femminile migliorò altamente; ad esempio vi è un interessante dato che mostra che il livello di occupazione lavorativa femminile aumentò progressivamente, fino a raggiungere il 51% nel 1975.

Ciò avvenne perché con la costruzione dello Stato socialista la donna ottenne anche una migliore condizione per quanto concerne l’istruzione e, soprattutto, il proprio riconoscimento all’interno della Società. In URSS, infatti, furono abolite le discriminazioni di genere sul lavoro a partire dal 1918 ed inoltre venne legalizzato l’aborto nel 1920. Dal punto di vista dell’emancipazione si possono citare svariati esempi di donne che riuscirono a ottenere compiti e cariche politiche importanti, grazie al loro merito, alla loro tenacia e alle prospettive che erano loro garantite dal sistema sovietico: Alexandra Kollontai fu ambasciatrice e prima donna al mondo membro di un governo, Valentina Tereškova fu la prima donna a varcare i confini della Terra andando nello spazio il 16 Giugno 1963, Lyuba Makarova, diede il proprio contributo durante la Seconda Guerra Mondiale come tiratrice scelta, mentre nella stragrande maggioranza degli eserciti le donne erano viste unicamente come personale di supporto.

Non solo l’URSS ha beneficiato di figure femminili di tale livello, ma ciò è tipico dei paesi socialisti, proprio perché Socialismo significa in sé parità di tutti in ogni ambito. Tra gli Stati che si possono menzionare vi sono anche il Venezuela, Cuba, la Corea democratica, rispettivamente con donne come Maria Léòn,leader sindacale e deputata all’Assemblea Nazionale, Vilma Espin, guerrigliera e fondatrice della Federazione Donne Cubane, Kim Kyong-hui, segretaria per l’organizzazione del Partito del Lavoro di Corea ì, e anche la Repubblica Popolare del Vietnam che vanta figure del calibro di Nguyễn Thị Định, primo Generale donna del Fronte Nazionale di Liberazione e Vicepresidente del Consiglio di Stato. 

Tutte queste donne, in una società capitalista non sarebbero mai riuscite ad ottenere tali risultati, bensì sarebbero sottomesse al sistema che le valuta solo in quanto merci, accessori per pubblicizzare il consumismo, senza dare loro il giusto rispetto, la giusta dignità e, non meno importante, le stesse possibilità di parità sociale.

La tipica donna dei paesi occidentali si mostra come perfetta imprenditrice, top model o influencer, lasciando così sempre minor margine di speranza per il futuro mondo femminile che dovrebbe ribellarsi alle logiche del mercato capitalista e ottenere la giusta dignità che le spetta, non perché donna superiore all’uomo, come molti intendono il femminismo, bensì come persona.

In conclusione, noi sosteniamo che solo con l’emancipazione dell’essere umano in quanto tale, a prescindere dal sesso, con l’educazione a determinati principi di rispetto, eguaglianza e solidarietà reciproca sia possibile l’eliminazione dei pregiudizi sessisti. Soltanto con un cambiamento strutturale del sistema produttivo e con un rovesciamento dei rapporti di forza tra le classi è possibile garantire l’emancipazione femminile. Il problema non è il sessismo ma la società e i suoi attuali valori, con il Socialismo la liberazione della donna sarà conseguenza diretta della liberazione dell’essere umano in quanto tale.